Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Paradiso
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Canto XXVIII
Canto XXVIII, nel quale Beatrice distingue a l'auttore li nove ordini de li angeli gloriosi che sono nel nono cielo e il loro offizio.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, par. 28 (disegno, 1485/90)
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369121518212427303336394245485154576063666972757881848790939699102105108111114117120123126129132135138 |
Poscia che 'ncontro a la vita presented'i miseri mortali aperse 'l veroquella che 'mparadisa la mia mente,come in lo specchio fiamma di doppierovede colui che se n'alluma retro,prima che l'abbia in vista o in pensiero,e sé rivolge per veder se 'l vetroli dice il vero, e vede ch'el s'accordacon esso come nota con suo metro;così la mia memoria si ricordach'io feci riguardando ne' belli occhionde a pigliarmi fece Amor la corda.E com' io mi rivolsi e furon tocchili miei da ciò che pare in quel volume,quandunque nel suo giro ben s'adocchi,un punto vidi che raggiava lumeacuto sì, che 'l viso ch'elli affocachiuder conviensi per lo forte acume;e quale stella par quinci più poca,parrebbe luna, locata con essocome stella con stella si collòca.Forse cotanto quanto pare appressoalo cigner la luce che 'l dipignequando 'l vapor che 'l porta più è spesso,distante intorno al punto un cerchio d'ignesi girava sì ratto, ch'avria vintoquel moto che più tosto il mondo cigne;e questo era d'un altro circumcinto,e quel dal terzo, e 'l terzo poi dal quarto,dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto.Sopra seguiva il settimo sì spartogià di larghezza, che 'l messo di Iunointero a contenerlo sarebbe arto.Così l'ottavo e 'l nono; e chiaschedunopiù tardo si movea, secondo ch'erain numero distante più da l'uno;e quello avea la fiamma più sinceracui men distava la favilla pura,credo, però che più di lei s'invera.La donna mia, che mi vedëa in curaforte sospeso, disse: «Da quel puntodepende il cielo e tutta la natura.Mira quel cerchio che più li è congiunto;e sappi che 'l suo muovere è sì tostoper l'affocato amore ond' elli è punto».E io a lei: «Se 'l mondo fosse postocon l'ordine ch'io veggio in quelle rote,sazio m'avrebbe ciò che m'è proposto;ma nel mondo sensibile si puoteveder le volte tanto più divine,quant' elle son dal centro più remote.Onde, se 'l mio disir dee aver finein questo miro e angelico temploche solo amore e luce ha per confine,udir convienmi ancor come l'essemploe l'essemplare non vanno d'un modo,ché io per me indarno a ciò contemplo».«Se li tuoi diti non sono a tal nodosufficïenti, non è maraviglia:tanto, per non tentare, è fatto sodo!».Così la donna mia; poi disse: «Pigliaquel ch'io ti dicerò, se vuo' saziarti;e intorno da esso t'assottiglia.Li cerchi corporai sono ampi e artisecondo il più e 'l men de la virtuteche si distende per tutte lor parti.Maggior bontà vuol far maggior salute;maggior salute maggior corpo cape,s'elli ha le parti igualmente compiute.Dunque costui che tutto quanto rapel'altro universo seco, corrispondeal cerchio che più ama e che più sape:per che, se tu a la virtù circondela tua misura, non a la parvenzade le sustanze che t'appaion tonde,tu vederai mirabil consequenzadi maggio a più e di minore a meno,in ciascun cielo, a süa intelligenza».Come rimane splendido e serenol'emisperio de l'aere, quando soffiaBorea da quella guancia ond' è più leno,per che si purga e risolve la roffiache pria turbava, sì che 'l ciel ne ridecon le bellezze d'ogne sua paroffia;così fec'ïo, poi che mi providela donna mia del suo risponder chiaro,e come stella in cielo il ver si vide.E poi che le parole sue restaro,non altrimenti ferro disfavillache bolle, come i cerchi sfavillaro.L'incendio suo seguiva ogne scintilla;ed eran tante, che 'l numero loropiù che 'l doppiar de li scacchi s'inmilla.Io sentiva osannar di coro in coroal punto fisso che li tiene a li ubi,e terrà sempre, ne' quai sempre fuoro.E quella che vedëa i pensier dubine la mia mente, disse: «I cerchi primit'hanno mostrato Serafi e Cherubi.Così veloci seguono i suoi vimi,per somigliarsi al punto quanto ponno;e posson quanto a veder son soblimi.Quelli altri amori che 'ntorno li vonno,si chiaman Troni del divino aspetto,per che 'l primo ternaro terminonno;e dei saper che tutti hanno dilettoquanto la sua veduta si profondanel vero in che si queta ogne intelletto.Quinci si può veder come si fondal'esser beato ne l'atto che vede,non in quel ch'ama, che poscia seconda;e del vedere è misura mercede,che grazia partorisce e buona voglia:così di grado in grado si procede.L'altro ternaro, che così germogliain questa primavera sempiternache notturno Arïete non dispoglia,perpetüalemente Osanna sbernacon tre melode, che suonano in treeordini di letizia onde s'interna.In essa gerarcia son l'altre dee:prima Dominazioni, e poi Virtudi;l'ordine terzo di Podestadi èe.Poscia ne' due penultimi tripudiPrincipati e Arcangeli si girano;l'ultimo è tutto d'Angelici ludi.Questi ordini di sù tutti s'ammirano,e di giù vincon sì, che verso Diotutti tirati sono e tutti tirano.E Dïonisio con tanto disioa contemplar questi ordini si mise,che li nomò e distinse com' io.Ma Gregorio da lui poi si divise;onde, sì tosto come li occhi apersein questo ciel, di sé medesmo rise.E se tanto secreto ver profersemortale in terra, non voglio ch'ammiri:ché chi 'l vide qua sù gliel discopersecon altro assai del ver di questi giri». |