Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Paradiso
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Canto XXI
Canto XXI, nel quale si monta ne la stella di Saturno, che è il settimo pianeto; e qui comincia la settima parte, e come Pietro Dammiano solve alcune questioni.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, par. 21 (disegno, 1485/90)
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Già eran li occhi miei rifissi al voltode la mia donna, e l'animo con essi,e da ogne altro intento s'era tolto.E quella non ridea; ma «S'io ridessi»,mi cominciò, «tu ti faresti qualefu Semelè quando di cener fessi:ché la bellezza mia, che per le scalede l'etterno palazzo più s'accende,com' hai veduto, quanto più si sale,se non si temperasse, tanto splende,che 'l tuo mortal podere, al suo fulgore,sarebbe fronda che trono scoscende.Noi sem levati al settimo splendore,che sotto 'l petto del Leone ardenteraggia mo misto giù del suo valore.Ficca di retro a li occhi tuoi la mente,e fa di quelli specchi a la figurache 'n questo specchio ti sarà parvente».Qual savesse qual era la pasturadel viso mio ne l'aspetto beatoquand' io mi trasmutai ad altra cura,conoscerebbe quanto m'era a gratoubidire a la mia celeste scorta,contrapesando l'un con l'altro lato.Dentro al cristallo che 'l vocabol porta,cerchiando il mondo, del suo caro ducesotto cui giacque ogne malizia morta,di color d'oro in che raggio tralucevid' io uno scaleo eretto in susotanto, che nol seguiva la mia luce.Vidi anche per li gradi scender giusotanti splendor, ch'io pensai ch'ogne lumeche par nel ciel, quindi fosse diffuso.E come, per lo natural costume,le pole insieme, al cominciar del giorno,si movono a scaldar le fredde piume;poi altre vanno via sanza ritorno,altre rivolgon sé onde son mosse,e altre roteando fan soggiorno;tal modo parve me che quivi fossein quello sfavillar che 'nsieme venne,sì come in certo grado si percosse.E quel che presso più ci si ritenne,si fé sì chiaro, ch'io dicea pensando:Io veggio ben l'amor che tu m'accenne.Ma quella ond' io aspetto il come e 'l quandodel dire e del tacer, si sta; ond' io,contra 'l disio, fo ben ch'io non dimando.Per ch'ella, che vedëa il tacer mionel veder di colui che tutto vede,mi disse: «Solvi il tuo caldo disio».E io incominciai: «La mia mercedenon mi fa degno de la tua risposta;ma per colei che 'l chieder mi concede,vita beata che ti stai nascostadentro a la tua letizia, fammi notala cagion che sì presso mi t'ha posta;e dì perché si tace in questa rotala dolce sinfonia di paradiso,che giù per l'altre suona sì divota».«Tu hai l'udir mortal sì come il viso»,rispuose a me; «onde qui non si cantaper quel che Bëatrice non ha riso.Giù per li gradi de la scala santadiscesi tanto sol per farti festacol dire e con la luce che mi ammanta;né più amor mi fece esser più presta,ché più e tanto amor quinci sù ferve,sì come il fiammeggiar ti manifesta.Ma l'alta carità, che ci fa servepronte al consiglio che 'l mondo governa,sorteggia qui sì come tu osserve».«Io veggio ben», diss' io, «sacra lucerna,come libero amore in questa cortebasta a seguir la provedenza etterna;ma questo è quel ch'a cerner mi par forte,perché predestinata fosti solaa questo officio tra le tue consorte».Né venni prima a l'ultima parola,che del suo mezzo fece il lume centro,girando sé come veloce mola;poi rispuose l'amor che v'era dentro:«Luce divina sopra me s'appunta,penetrando per questa in ch'io m'inventro,la cui virtù, col mio veder congiunta,mi leva sopra me tanto, ch'i' veggiola somma essenza de la quale è munta.Quinci vien l'allegrezza ond' io fiammeggio;per ch'a la vista mia, quant' ella è chiara,la chiarità de la fiamma pareggio.Ma quell' alma nel ciel che più si schiara,quel serafin che 'n Dio più l'occhio ha fisso,a la dimanda tua non satisfara,però che sì s'innoltra ne lo abissode l'etterno statuto quel che chiedi,che da ogne creata vista è scisso.E al mondo mortal, quando tu riedi,questo rapporta, sì che non presummaa tanto segno più mover li piedi.La mente, che qui luce, in terra fumma;onde riguarda come può là giùequel che non pote perché 'l ciel l'assumma».Sì mi prescrisser le parole sue,ch'io lasciai la quistione e mi ritrassia dimandarla umilmente chi fue.«Tra ' due liti d'Italia surgon sassi,e non molto distanti a la tua patria,tanto che ' troni assai suonan più bassi,e fanno un gibbo che si chiama Catria,di sotto al quale è consecrato un ermo,che suole esser disposto a sola latria».Così ricominciommi il terzo sermo;e poi, continüando, disse: «Quivial servigio di Dio mi fe' sì fermo,che pur con cibi di liquor d'ulivilievemente passava caldi e geli,contento ne' pensier contemplativi.Render solea quel chiostro a questi cielifertilemente; e ora è fatto vano,sì che tosto convien che si riveli.In quel loco fu' io Pietro Damiano,e Pietro Peccator fu' ne la casadi Nostra Donna in sul lito adriano.Poca vita mortal m'era rimasa,quando fui chiesto e tratto a quel cappello,che pur di male in peggio si travasa.Venne Cefàs e venne il gran vasellode lo Spirito Santo, magri e scalzi,prendendo il cibo da qualunque ostello.Or voglion quinci e quindi chi rincalzili moderni pastori e chi li meni,tanto son gravi, e chi di rietro li alzi.Cuopron d'i manti loro i palafreni,sì che due bestie van sott' una pelle:oh pazïenza che tanto sostieni!».A questa voce vid' io più fiammelledi grado in grado scendere e girarsi,e ogne giro le facea più belle.Dintorno a questa vennero e fermarsi,e fero un grido di sì alto suono,che non potrebbe qui assomigliarsi;né io lo 'ntesi, sì mi vinse il tuono. |