Dante Alighieri
1265 - 1321
|
La Divina commedia
Paradiso
|
______________________________________________________________________________
|
|
|
Canto XX
Canto XX, nel quale ancora suonano nel becco de l'Aquila certe parole per le quali apprende di conoscere alcuni di quelli spirti de li quali quella Aquila è composta.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, par. 20 (disegno, 1485/90)
|
369121518212427303336394245485154576063666972757881848790939699102105108111114117120123126129132135138141144147 |
Quando colui che tutto 'l mondo allumade l'emisperio nostro sì discende,che 'l giorno d'ogne parte si consuma,lo ciel, che sol di lui prima s'accende,subitamente si rifà parventeper molte luci, in che una risplende;e questo atto del ciel mi venne a mente,come 'l segno del mondo e de' suoi ducinel benedetto rostro fu tacente;però che tutte quelle vive luci,vie più lucendo, cominciaron cantida mia memoria labili e caduci.O dolce amor che di riso t'ammanti,quanto parevi ardente in que' flailli,ch'avieno spirto sol di pensier santi!Poscia che i cari e lucidi lapilliond' io vidi ingemmato il sesto lumepuoser silenzio a li angelici squilli,udir mi parve un mormorar di fiumeche scende chiaro giù di pietra in pietra,mostrando l'ubertà del suo cacume.E come suono al collo de la cetraprende sua forma, e sì com' al pertugiode la sampogna vento che penètra,così, rimosso d'aspettare indugio,quel mormorar de l'aguglia salissisu per lo collo, come fosse bugio.Fecesi voce quivi, e quindi uscissiper lo suo becco in forma di parole,quali aspettava il core ov' io le scrissi.«La parte in me che vede e pate il solene l'aguglie mortali», incominciommi,«or fisamente riguardar si vole,perché d'i fuochi ond' io figura fommi,quelli onde l'occhio in testa mi scintilla,e' di tutti lor gradi son li sommi.Colui che luce in mezzo per pupilla,fu il cantor de lo Spirito Santo,che l'arca traslatò di villa in villa:ora conosce il merto del suo canto,in quanto effetto fu del suo consiglio,per lo remunerar ch'è altrettanto.Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio,colui che più al becco mi s'accosta,la vedovella consolò del figlio:ora conosce quanto caro costanon seguir Cristo, per l'esperïenzadi questa dolce vita e de l'opposta.E quel che segue in la circunferenzadi che ragiono, per l'arco superno,morte indugiò per vera penitenza:ora conosce che 'l giudicio etternonon si trasmuta, quando degno precofa crastino là giù de l'odïerno.L'altro che segue, con le leggi e meco,sotto buona intenzion che fé mal frutto,per cedere al pastor si fece greco:ora conosce come il mal deduttodal suo bene operar non li è nocivo,avvegna che sia 'l mondo indi distrutto.E quel che vedi ne l'arco declivo,Guiglielmo fu, cui quella terra plorache piagne Carlo e Federigo vivo:ora conosce come s'innamoralo ciel del giusto rege, e al sembiantedel suo fulgore il fa vedere ancora.Chi crederebbe giù nel mondo erranteche Rifëo Troiano in questo tondofosse la quinta de le luci sante?Ora conosce assai di quel che 'l mondoveder non può de la divina grazia,ben che sua vista non discerna il fondo».Quale allodetta che 'n aere si spaziaprima cantando, e poi tace contentade l'ultima dolcezza che la sazia,tal mi sembiò l'imago de la 'mprentade l'etterno piacere, al cui disiociascuna cosa qual ell' è diventa.E avvegna ch'io fossi al dubbiar miolì quasi vetro a lo color ch'el veste,tempo aspettar tacendo non patio,ma de la bocca, «Che cose son queste?»,mi pinse con la forza del suo peso:per ch'io di coruscar vidi gran feste.Poi appresso, con l'occhio più acceso,lo benedetto segno mi rispuoseper non tenermi in ammirar sospeso:«Io veggio che tu credi queste coseperch' io le dico, ma non vedi come;sì che, se son credute, sono ascose.Fai come quei che la cosa per nomeapprende ben, ma la sua quiditateveder non può se altri non la prome.Regnum celorum vïolenza pateda caldo amore e da viva speranza,che vince la divina volontate:non a guisa che l'omo a l'om sobranza,ma vince lei perché vuole esser vinta,e, vinta, vince con sua beninanza.La prima vita del ciglio e la quintati fa maravigliar, perché ne vedila regïon de li angeli dipinta.D'i corpi suoi non uscir, come credi,Gentili, ma Cristiani, in ferma fedequel d'i passuri e quel d'i passi piedi.Ché l'una de lo 'nferno, u' non si riedegià mai a buon voler, tornò a l'ossa;e ciò di viva spene fu mercede:di viva spene, che mise la possane' prieghi fatti a Dio per suscitarla,sì che potesse sua voglia esser mossa.L'anima glorïosa onde si parla,tornata ne la carne, in che fu poco,credette in lui che potëa aiutarla;e credendo s'accese in tanto focodi vero amor, ch'a la morte secondafu degna di venire a questo gioco.L'altra, per grazia che da sì profondafontana stilla, che mai creaturanon pinse l'occhio infino a la prima onda,tutto suo amor là giù pose a drittura:per che, di grazia in grazia, Dio li apersel'occhio a la nostra redenzion futura;ond' ei credette in quella, e non sofferseda indi il puzzo più del paganesmo;e riprendiene le genti perverse.Quelle tre donne li fur per battesmoche tu vedesti da la destra rota,dinanzi al battezzar più d'un millesmo.O predestinazion, quanto remotaè la radice tua da quelli aspettiche la prima cagion non veggion tota!E voi, mortali, tenetevi strettia giudicar: ché noi, che Dio vedemo,non conosciamo ancor tutti li eletti;ed ènne dolce così fatto scemo,perché il ben nostro in questo ben s'affina,che quel che vole Iddio, e noi volemo».Così da quella imagine divina,per farmi chiara la mia corta vista,data mi fu soave medicina.E come a buon cantor buon citaristafa seguitar lo guizzo de la corda,in che più di piacer lo canto acquista,sì, mentre ch'e' parlò, sì mi ricordach'io vidi le due luci benedette,pur come batter d'occhi si concorda,con le parole mover le fiammette. |