Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Paradiso
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Canto XIX
Canto XIX, nel quale li spiriti ch'erano ne la stella di Iove insieme conglutinati in forma d'aguglia, ad una voce solvono uno grande dubbio, e abominano e infamano tutti li re cristiani che regnavano ne l'anno di Cristo MCCC.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, par. 19 (disegno, 1485/90)
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Parea dinanzi a me con l'ali apertela bella image che nel dolce fruiliete facevan l'anime conserte;parea ciascuna rubinetto in cuiraggio di sole ardesse sì acceso,che ne' miei occhi rifrangesse lui.E quel che mi convien ritrar testeso,non portò voce mai, né scrisse incostro,né fu per fantasia già mai compreso;ch'io vidi e anche udi' parlar lo rostro,e sonar ne la voce e «io» e «mio»,quand' era nel concetto e noi e nostro.E cominciò: «Per esser giusto e pioson io qui essaltato a quella gloriache non si lascia vincere a disio;e in terra lasciai la mia memoriasì fatta, che le genti lì malvagecommendan lei, ma non seguon la storia».Così un sol calor di molte bragesi fa sentir, come di molti amoriusciva solo un suon di quella image.Ond' io appresso: «O perpetüi fioride l'etterna letizia, che pur unoparer mi fate tutti vostri odori,solvetemi, spirando, il gran digiunoche lungamente m'ha tenuto in fame,non trovandoli in terra cibo alcuno.Ben so io che, se 'n cielo altro reamela divina giustizia fa suo specchio,che 'l vostro non l'apprende con velame.Sapete come attento io m'apparecchioad ascoltar; sapete qual è quellodubbio che m'è digiun cotanto vecchio».Quasi falcone ch'esce del cappello,move la testa e con l'ali si plaude,voglia mostrando e faccendosi bello,vid' io farsi quel segno, che di laudede la divina grazia era contesto,con canti quai si sa chi là sù gaude.Poi cominciò: «Colui che volse il sestoa lo stremo del mondo, e dentro ad essodistinse tanto occulto e manifesto,non poté suo valor sì fare impressoin tutto l'universo, che 'l suo verbonon rimanesse in infinito eccesso.E ciò fa certo che 'l primo superbo,che fu la somma d'ogne creatura,per non aspettar lume, cadde acerbo;e quinci appar ch'ogne minor naturaè corto recettacolo a quel beneche non ha fine e sé con sé misura.Dunque vostra veduta, che conveneesser alcun de' raggi de la mentedi che tutte le cose son ripiene,non pò da sua natura esser possentetanto, che suo principio discernamolto di là da quel che l'è parvente.Però ne la giustizia sempiternala vista che riceve il vostro mondo,com' occhio per lo mare, entro s'interna;che, ben che da la proda veggia il fondo,in pelago nol vede; e nondimenoèli, ma cela lui l'esser profondo.Lume non è, se non vien dal serenoche non si turba mai; anzi è tenèbraod ombra de la carne o suo veleno.Assai t'è mo aperta la latebrache t'ascondeva la giustizia viva,di che facei question cotanto crebra;ché tu dicevi: «Un uom nasce a la rivade l'Indo, e quivi non è chi ragionidi Cristo né chi legga né chi scriva;e tutti suoi voleri e atti buonisono, quanto ragione umana vede,sanza peccato in vita o in sermoni.Muore non battezzato e sanza fede:ov' è questa giustizia che 'l condanna?ov' è la colpa sua, se ei non crede?».Or tu chi se', che vuo' sedere a scranna,per giudicar di lungi mille migliacon la veduta corta d'una spanna?Certo a colui che meco s'assottiglia,se la Scrittura sovra voi non fosse,da dubitar sarebbe a maraviglia.Oh terreni animali! oh menti grosse!La prima volontà, ch'è da sé buona,da sé, ch'è sommo ben, mai non si mosse.Cotanto è giusto quanto a lei consuona:nullo creato bene a sé la tira,ma essa, radïando, lui cagiona».Quale sovresso il nido si rigirapoi c'ha pasciuti la cicogna i figli,e come quel ch'è pasto la rimira;cotal si fece, e sì leväi i cigli,la benedetta imagine, che l'alimovea sospinte da tanti consigli.Roteando cantava, e dicea: «Qualison le mie note a te, che non le 'ntendi,tal è il giudicio etterno a voi mortali».Poi si quetaro quei lucenti incendide lo Spirito Santo ancor nel segnoche fé i Romani al mondo reverendi,esso ricominciò: «A questo regnonon salì mai chi non credette 'n Cristo,né pria né poi ch'el si chiavasse al legno.Ma vedi: molti gridan «Cristo, Cristo!»,che saranno in giudicio assai men propea lui, che tal che non conosce Cristo;e tai Cristian dannerà l'Etïòpe,quando si partiranno i due collegi,l'uno in etterno ricco e l'altro inòpe.Che poran dir li Perse a' vostri regi,come vedranno quel volume apertonel qual si scrivon tutti suoi dispregi?Lì si vedrà, tra l'opere d'Alberto,quella che tosto moverà la penna,per che 'l regno di Praga fia diserto.Lì si vedrà il duol che sovra Sennainduce, falseggiando la moneta,quel che morrà di colpo di cotenna.Lì si vedrà la superbia ch'asseta,che fa lo Scotto e l'Inghilese folle,sì che non può soffrir dentro a sua meta.Vedrassi la lussuria e 'l viver molledi quel di Spagna e di quel di Boemme,che mai valor non conobbe né volle.Vedrassi al Ciotto di Ierusalemmesegnata con un i la sua bontate,quando 'l contrario segnerà un emme.Vedrassi l'avarizia e la viltatedi quei che guarda l'isola del foco,ove Anchise finì la lunga etate;e a dare ad intender quanto è poco,la sua scrittura fian lettere mozze,che noteranno molto in parvo loco.E parranno a ciascun l'opere sozzedel barba e del fratel, che tanto egregianazione e due corone han fatte bozze.E quel di Portogallo e di Norvegialì si conosceranno, e quel di Rasciache male ha visto il conio di Vinegia.Oh beata Ungheria, se non si lasciapiù malmenare! e beata Navarra,se s'armasse del monte che la fascia!E creder de' ciascun che già, per arradi questo, Niccosïa e Famagostaper la lor bestia si lamenti e garra,che dal fianco de l'altre non si scosta». |