Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Paradiso
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Canto XXII
Canto XXII, nel quale si tratta di quelli medesimi che nel precedente capitolo, qui sotto il titolo di Santo Maccario e di Santo Romoaldo; e infine dispitta il mondo e la sua picciolezza e le cose mondane, ripetendo e mostrando tutti li pianeti per li quali è intrato; ed entra con Beatrice nel segno d'i Gemini; e qui prende l'ottava parte di questa terza cantica.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, par. 22 (disegno, 1485/90)
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Oppresso di stupore, a la mia guidami volsi, come parvol che ricorresempre colà dove più si confida;e quella, come madre che soccorresùbito al figlio palido e anelocon la sua voce, che 'l suol ben disporre,mi disse: «Non sai tu che tu se' in cielo?e non sai tu che 'l cielo è tutto santo,e ciò che ci si fa vien da buon zelo?Come t'avrebbe trasmutato il canto,e io ridendo, mo pensar lo puoi,poscia che 'l grido t'ha mosso cotanto;nel qual, se 'nteso avessi i prieghi suoi,già ti sarebbe nota la vendettache tu vedrai innanzi che tu muoi.La spada di qua sù non taglia in frettané tardo, ma' ch'al parer di coluiche disïando o temendo l'aspetta.Ma rivolgiti omai inverso altrui;ch'assai illustri spiriti vedrai,se com' io dico l'aspetto redui».Come a lei piacque, li occhi ritornai,e vidi cento sperule che 'nsiemepiù s'abbellivan con mutüi rai.Io stava come quei che 'n sé repremela punta del disio, e non s'attentadi domandar, sì del troppo si teme;e la maggiore e la più luculentadi quelle margherite innanzi fessi,per far di sé la mia voglia contenta.Poi dentro a lei udi': «Se tu vedessicom' io la carità che tra noi arde,li tuoi concetti sarebbero espressi.Ma perché tu, aspettando, non tardea l'alto fine, io ti farò rispostapur al pensier, da che sì ti riguarde.Quel monte a cui Cassino è ne la costafu frequentato già in su la cimada la gente ingannata e mal disposta;e quel son io che sù vi portai primalo nome di colui che 'n terra addussela verità che tanto ci soblima;e tanta grazia sopra me relusse,ch'io ritrassi le ville circunstantida l'empio cólto che 'l mondo sedusse.Questi altri fuochi tutti contemplantiuomini fuoro, accesi di quel caldoche fa nascere i fiori e ' frutti santi.Qui è Maccario, qui è Romoaldo,qui son li frati miei che dentro ai chiostrifermar li piedi e tennero il cor saldo».E io a lui: «L'affetto che dimostrimeco parlando, e la buona sembianzach'io veggio e noto in tutti li ardor vostri,così m'ha dilatata mia fidanza,come 'l sol fa la rosa quando apertatanto divien quant' ell' ha di possanza.Però ti priego, e tu, padre, m'accertas'io posso prender tanta grazia, ch'ioti veggia con imagine scoverta».Ond' elli: «Frate, il tuo alto disios'adempierà in su l'ultima spera,ove s'adempion tutti li altri e 'l mio.Ivi è perfetta, matura e interaciascuna disïanza; in quella solaè ogne parte là ove sempr' era,perché non è in loco e non s'impola;e nostra scala infino ad essa varca,onde così dal viso ti s'invola.Infin là sù la vide il patriarcaIacobbe porger la superna parte,quando li apparve d'angeli sì carca.Ma, per salirla, mo nessun diparteda terra i piedi, e la regola miarimasa è per danno de le carte.Le mura che solieno esser badiafatte sono spelonche, e le cocollesacca son piene di farina ria.Ma grave usura tanto non si tollecontra 'l piacer di Dio, quanto quel fruttoche fa il cor de' monaci sì folle;ché quantunque la Chiesa guarda, tuttoè de la gente che per Dio dimanda;non di parenti né d'altro più brutto.La carne d'i mortali è tanto blanda,che giù non basta buon cominciamentodal nascer de la quercia al far la ghianda.Pier cominciò sanz' oro e sanz' argento,e io con orazione e con digiuno,e Francesco umilmente il suo convento;e se guardi 'l principio di ciascuno,poscia riguardi là dov' è trascorso,tu vederai del bianco fatto bruno.Veramente Iordan vòlto retrorsopiù fu, e 'l mar fuggir, quando Dio volse,mirabile a veder che qui 'l soccorso».Così mi disse, e indi si raccolseal suo collegio, e 'l collegio si strinse;poi, come turbo, in sù tutto s'avvolse.La dolce donna dietro a lor mi pinsecon un sol cenno su per quella scala,sì sua virtù la mia natura vinse;né mai qua giù dove si monta e calanaturalmente, fu sì ratto motoch'agguagliar si potesse a la mia ala.S'io torni mai, lettore, a quel divototrïunfo per lo quale io piango spessole mie peccata e 'l petto mi percuoto,tu non avresti in tanto tratto e messonel foco il dito, in quant' io vidi 'l segnoche segue il Tauro e fui dentro da esso.O glorïose stelle, o lume pregnodi gran virtù, dal quale io riconoscotutto, qual che si sia, il mio ingegno,con voi nasceva e s'ascondeva voscoquelli ch'è padre d'ogne mortal vita,quand' io senti' di prima l'aere tosco;e poi, quando mi fu grazia largitad'entrar ne l'alta rota che vi gira,la vostra regïon mi fu sortita.A voi divotamente ora sospiral'anima mia, per acquistar virtuteal passo forte che a sé la tira.«Tu se' sì presso a l'ultima salute»,cominciò Bëatrice, «che tu deiaver le luci tue chiare e acute;e però, prima che tu più t'inlei,rimira in giù, e vedi quanto mondosotto li piedi già esser ti fei;sì che 'l tuo cor, quantunque può, giocondos'appresenti a la turba trïunfanteche lieta vien per questo etera tondo».Col viso ritornai per tutte quantele sette spere, e vidi questo globotal, ch'io sorrisi del suo vil sembiante;e quel consiglio per migliore approboche l'ha per meno; e chi ad altro pensachiamar si puote veramente probo.Vidi la figlia di Latona incensasanza quell' ombra che mi fu cagioneper che già la credetti rara e densa.L'aspetto del tuo nato, Iperïone,quivi sostenni, e vidi com' si movecirca e vicino a lui Maia e Dïone.Quindi m'apparve il temperar di Giovetra 'l padre e 'l figlio; e quindi mi fu chiaroil varïar che fanno di lor dove;e tutti e sette mi si dimostraroquanto son grandi e quanto son velocie come sono in distante riparo.L'aiuola che ci fa tanto feroci,volgendom' io con li etterni Gemelli,tutta m'apparve da' colli a le foci;poscia rivolsi li occhi a li occhi belli. |