Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Paradiso
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Canto VIII
Canto VIII, nel quale si manifestano alcune questioni per Carlo giovane, re d'Ungheria, il quale si mostroe nel circulo di Venere; e qui comincia la terza parte di questa cantica.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, par. 8 (disegno, 1485/90)
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Solea creder lo mondo in suo pericloche la bella Ciprigna il folle amoreraggiasse, volta nel terzo epiciclo;per che non pur a lei faceano onoredi sacrificio e di votivo gridole genti antiche ne l'antico errore;ma Dïone onoravano e Cupido,quella per madre sua, questo per figlio,e dicean ch'el sedette in grembo a Dido;e da costei ond' io principio pigliopigliavano il vocabol de la stellache 'l sol vagheggia or da coppa or da ciglio.Io non m'accorsi del salire in ella;ma d'esservi entro mi fé assai fedela donna mia ch'i' vidi far più bella.E come in fiamma favilla si vede,e come in voce voce si discerne,quand' una è ferma e altra va e riede,vid' io in essa luce altre lucernemuoversi in giro più e men correnti,al modo, credo, di lor viste interne.Di fredda nube non disceser venti,o visibili o no, tanto festini,che non paressero impediti e lentia chi avesse quei lumi diviniveduti a noi venir, lasciando il giropria cominciato in li alti Serafini;e dentro a quei che più innanzi apparirosonava Osanna sì, che unque poidi rïudir non fui sanza disiro.Indi si fece l'un più presso a noie solo incominciò: «Tutti sem prestial tuo piacer, perché di noi ti gioi.Noi ci volgiam coi principi celestid'un giro e d'un girare e d'una sete,ai quali tu del mondo già dicesti:Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete;e sem sì pien d'amor, che, per piacerti,non fia men dolce un poco di quïete».Poscia che li occhi miei si fuoro offertia la mia donna reverenti, ed essafatti li avea di sé contenti e certi,rivolsersi a la luce che promessatanto s'avea, e «Deh, chi siete?» fuela voce mia di grande affetto impressa.E quanta e quale vid' io lei far piùeper allegrezza nova che s'accrebbe,quando parlai, a l'allegrezze sue!Così fatta, mi disse: «Il mondo m'ebbegiù poco tempo; e se più fosse stato,molto sarà di mal, che non sarebbe.La mia letizia mi ti tien celatoche mi raggia dintorno e mi nascondequasi animal di sua seta fasciato.Assai m'amasti, e avesti ben onde;che s'io fossi giù stato, io ti mostravadi mio amor più oltre che le fronde.Quella sinistra riva che si lavadi Rodano poi ch'è misto con Sorga,per suo segnore a tempo m'aspettava,e quel corno d'Ausonia che s'imborgadi Bari e di Gaeta e di Catona,da ove Tronto e Verde in mare sgorga.Fulgeami già in fronte la coronadi quella terra che 'l Danubio rigapoi che le ripe tedesche abbandona.E la bella Trinacria, che caligatra Pachino e Peloro, sopra 'l golfoche riceve da Euro maggior briga,non per Tifeo ma per nascente solfo,attesi avrebbe li suoi regi ancora,nati per me di Carlo e di Ridolfo,se mala segnoria, che sempre accorali popoli suggetti, non avessemosso Palermo a gridar: «Mora, mora!».E se mio frate questo antivedesse,l'avara povertà di Catalognagià fuggeria, perché non li offendesse;ché veramente proveder bisognaper lui, o per altrui, sì ch'a sua barcacarcata più d'incarco non si pogna.La sua natura, che di larga parcadiscese, avria mestier di tal miliziache non curasse di mettere in arca».«Però ch'i' credo che l'alta letiziache 'l tuo parlar m'infonde, segnor mio,là 've ogne ben si termina e s'inizia,per te si veggia come la vegg' io,grata m'è più; e anco quest' ho caroperché 'l discerni rimirando in Dio.Fatto m'hai lieto, e così mi fa chiaro,poi che, parlando, a dubitar m'hai mossocom' esser può, di dolce seme, amaro».Questo io a lui; ed elli a me: «S'io possomostrarti un vero, a quel che tu dimanditerrai lo viso come tien lo dosso.Lo ben che tutto il regno che tu scandivolge e contenta, fa esser virtutesua provedenza in questi corpi grandi.E non pur le nature provedutesono in la mente ch'è da sé perfetta,ma esse insieme con la lor salute:per che quantunque quest' arco saettadisposto cade a proveduto fine,sì come cosa in suo segno diretta.Se ciò non fosse, il ciel che tu cammineproducerebbe sì li suoi effetti,che non sarebbero arti, ma ruine;e ciò esser non può, se li 'ntellettiche muovon queste stelle non son manchi,e manco il primo, che non li ha perfetti.Vuo' tu che questo ver più ti s'imbianchi?».E io: «Non già; ché impossibil veggioche la natura, in quel ch'è uopo, stanchi».Ond' elli ancora: «Or dì: sarebbe il peggioper l'omo in terra, se non fosse cive?».«Sì», rispuos' io; «e qui ragion non cheggio».«E puot' elli esser, se giù non si vivediversamente per diversi offici?Non, se 'l maestro vostro ben vi scrive».Sì venne deducendo infino a quici;poscia conchiuse: «Dunque esser diverseconvien di vostri effetti le radici:per ch'un nasce Solone e altro Serse,altro Melchisedèch e altro quelloche, volando per l'aere, il figlio perse.La circular natura, ch'è suggelloa la cera mortal, fa ben sua arte,ma non distingue l'un da l'altro ostello.Quinci addivien ch'Esaù si diparteper seme da Iacòb; e vien Quirinoda sì vil padre, che si rende a Marte.Natura generata il suo camminosimil farebbe sempre a' generanti,se non vincesse il proveder divino.Or quel che t'era dietro t'è davanti:ma perché sappi che di te mi giova,un corollario voglio che t'ammanti.Sempre natura, se fortuna trovadiscorde a sé, com' ogne altra sementefuor di sua regïon, fa mala prova.E se 'l mondo là giù ponesse menteal fondamento che natura pone,seguendo lui, avria buona la gente.Ma voi torcete a la religïonetal che fia nato a cignersi la spada,e fate re di tal ch'è da sermone;onde la traccia vostra è fuor di strada». |