Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Paradiso
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Canto VI
Canto VI, dove, nel cielo di Mercurio, Iustiniano imperadore sotto brevità narra tutti li grandi fatti operati per li Romani sotto la 'nsegna de l'aquila, da l'avvenimento di Enea in Italia infino al tempo di Longobardi; e alcune cose si dicono qui in laude di Romeo visconte del conte Ramondo Berlinghieri di Proenza.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, par. 6 (disegno, 1485/90)
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«Poscia che Costantin l'aquila volsecontr' al corso del ciel, ch'ella seguiodietro a l'antico che Lavina tolse,cento e cent' anni e più l'uccel di Dione lo stremo d'Europa si ritenne,vicino a' monti de' quai prima uscìo;e sotto l'ombra de le sacre pennegovernò 'l mondo lì di mano in mano,e, sì cangiando, in su la mia pervenne.Cesare fui e son Iustinïano,che, per voler del primo amor ch'i' sento,d'entro le leggi trassi il troppo e 'l vano.E prima ch'io a l'ovra fossi attento,una natura in Cristo esser, non piùe,credea, e di tal fede era contento;ma 'l benedetto Agapito, che fuesommo pastore, a la fede sincerami dirizzò con le parole sue.Io li credetti; e ciò che 'n sua fede era,vegg' io or chiaro sì, come tu vediogni contradizione e falsa e vera.Tosto che con la Chiesa mossi i piedi,a Dio per grazia piacque di spirarmil'alto lavoro, e tutto 'n lui mi diedi;e al mio Belisar commendai l'armi,cui la destra del ciel fu sì congiunta,che segno fu ch'i' dovessi posarmi.Or qui a la question prima s'appuntala mia risposta; ma sua condizionemi stringe a seguitare alcuna giunta,perché tu veggi con quanta ragionesi move contr' al sacrosanto segnoe chi 'l s'appropria e chi a lui s'oppone.Vedi quanta virtù l'ha fatto degnodi reverenza; e cominciò da l'orache Pallante morì per darli regno.Tu sai ch'el fece in Alba sua dimoraper trecento anni e oltre, infino al fineche i tre a' tre pugnar per lui ancora.E sai ch'el fé dal mal de le Sabineal dolor di Lucrezia in sette regi,vincendo intorno le genti vicine.Sai quel ch'el fé portato da li egregiRomani incontro a Brenno, incontro a Pirro,incontro a li altri principi e collegi;onde Torquato e Quinzio, che dal cirronegletto fu nomato, i Deci e ' Fabiebber la fama che volontier mirro.Esso atterrò l'orgoglio de li Aràbiche di retro ad Anibale passarol'alpestre rocce, Po, di che tu labi.Sott' esso giovanetti trïunfaroScipïone e Pompeo; e a quel collesotto 'l qual tu nascesti parve amaro.Poi, presso al tempo che tutto 'l ciel volleredur lo mondo a suo modo sereno,Cesare per voler di Roma il tolle.E quel che fé da Varo infino a Reno,Isara vide ed Era e vide Sennae ogne valle onde Rodano è pieno.Quel che fé poi ch'elli uscì di Ravennae saltò Rubicon, fu di tal volo,che nol seguiteria lingua né penna.Inver' la Spagna rivolse lo stuolo,poi ver' Durazzo, e Farsalia percossesì ch'al Nil caldo si sentì del duolo.Antandro e Simeonta, onde si mosse,rivide e là dov' Ettore si cuba;e mal per Tolomeo poscia si scosse.Da indi scese folgorando a Iuba;onde si volse nel vostro occidente,ove sentia la pompeana tuba.Di quel che fé col baiulo seguente,Bruto con Cassio ne l'inferno latra,e Modena e Perugia fu dolente.Piangene ancor la trista Cleopatra,che, fuggendoli innanzi, dal colubrola morte prese subitana e atra.Con costui corse infino al lito rubro;con costui puose il mondo in tanta pace,che fu serrato a Giano il suo delubro.Ma ciò che 'l segno che parlar mi facefatto avea prima e poi era fatturoper lo regno mortal ch'a lui soggiace,diventa in apparenza poco e scuro,se in mano al terzo Cesare si miracon occhio chiaro e con affetto puro;ché la viva giustizia che mi spira,li concedette, in mano a quel ch'i' dico,gloria di far vendetta a la sua ira.Or qui t'ammira in ciò ch'io ti replìco:poscia con Tito a far vendetta corsede la vendetta del peccato antico.E quando il dente longobardo morsela Santa Chiesa, sotto le sue aliCarlo Magno, vincendo, la soccorse.Omai puoi giudicar di quei cotalich'io accusai di sopra e di lor falli,che son cagion di tutti vostri mali.L'uno al pubblico segno i gigli giallioppone, e l'altro appropria quello a parte,sì ch'è forte a veder chi più si falli.Faccian li Ghibellin, faccian lor artesott' altro segno, ché mal segue quellosempre chi la giustizia e lui diparte;e non l'abbatta esto Carlo novellocoi Guelfi suoi, ma tema de li artiglich'a più alto leon trasser lo vello.Molte fïate già pianser li figliper la colpa del padre, e non si credache Dio trasmuti l'armi per suoi gigli!Questa picciola stella si corredad'i buoni spirti che son stati attiviperché onore e fama li succeda:e quando li disiri poggian quivi,sì disvïando, pur convien che i raggidel vero amore in sù poggin men vivi.Ma nel commensurar d'i nostri gaggicol merto è parte di nostra letizia,perché non li vedem minor né maggi.Quindi addolcisce la viva giustiziain noi l'affetto sì, che non si puotetorcer già mai ad alcuna nequizia.Diverse voci fanno dolci note;così diversi scanni in nostra vitarendon dolce armonia tra queste rote.E dentro a la presente margaritaluce la luce di Romeo, di cuifu l'ovra grande e bella mal gradita.Ma i Provenzai che fecer contra luinon hanno riso; e però mal camminaqual si fa danno del ben fare altrui.Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina,Ramondo Beringhiere, e ciò li feceRomeo, persona umìle e peregrina.E poi il mosser le parole biecea dimandar ragione a questo giusto,che li assegnò sette e cinque per diece,indi partissi povero e vetusto;e se 'l mondo sapesse il cor ch'elli ebbemendicando sua vita a frusto a frusto,assai lo loda, e più lo loderebbe». |