Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Purgatorio
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Canto XXXII
Canto XXXII, dove si tratta come Beatrice comandò a l'auttore che scrivesse li miracoli che vide in quel luogo, e come elli con le donne seguio il carro, e l'aguglia percosse il carro, e una volpe sen fuggio, e de la puttana e del gigante.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, pur. 32 (disegno, 1485/90)
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Tant' eran li occhi miei fissi e attentia disbramarsi la decenne sete,che li altri sensi m'eran tutti spenti.Ed essi quinci e quindi avien paretedi non caler – così lo santo risoa sé traéli con l'antica rete! – ;quando per forza mi fu vòlto il visover' la sinistra mia da quelle dee,perch' io udi' da loro un «Troppo fiso!»;e la disposizion ch'a veder èene li occhi pur testé dal sol percossi,sanza la vista alquanto esser mi fée.Ma poi ch'al poco il viso riformossi(e dico al poco' per rispetto al moltosensibile onde a forza mi rimossi),vidi 'n sul braccio destro esser rivoltolo glorïoso essercito, e tornarsicol sole e con le sette fiamme al volto.Come sotto li scudi per salvarsivolgesi schiera, e sé gira col segno,prima che possa tutta in sé mutarsi;quella milizia del celeste regnoche procedeva, tutta trapassonnepria che piegasse il carro il primo legno.Indi a le rote si tornar le donne,e 'l grifon mosse il benedetto carcosì, che però nulla penna crollonne.La bella donna che mi trasse al varcoe Stazio e io seguitavam la rotache fé l'orbita sua con minore arco.Sì passeggiando l'alta selva vòta,colpa di quella ch'al serpente crese,temprava i passi un'angelica nota.Forse in tre voli tanto spazio presedisfrenata saetta, quanto eramorimossi, quando Bëatrice scese.Io senti' mormorare a tutti «Adamo»;poi cerchiaro una pianta dispogliatadi foglie e d'altra fronda in ciascun ramo.La coma sua, che tanto si dilatapiù quanto più è sù, fora da l'Indine' boschi lor per altezza ammirata.«Beato se', grifon, che non discindicol becco d'esto legno dolce al gusto,poscia che mal si torce il ventre quindi».Così dintorno a l'albero robustogridaron li altri; e l'animal binato:«Sì si conserva il seme d'ogne giusto».E vòlto al temo ch'elli avea tirato,trasselo al piè de la vedova frasca,e quel di lei a lei lasciò legato.Come le nostre piante, quando cascagiù la gran luce mischiata con quellache raggia dietro a la celeste lasca,turgide fansi, e poi si rinovelladi suo color ciascuna, pria che 'l solegiunga li suoi corsier sotto altra stella;men che di rose e più che di vïolecolore aprendo, s'innovò la pianta,che prima avea le ramora sì sole.Io non lo 'ntesi, né qui non si cantal'inno che quella gente allor cantaro,né la nota soffersi tutta quanta.S'io potessi ritrar come assonnaroli occhi spietati udendo di Siringa,li occhi a cui pur vegghiar costò sì caro;come pintor che con essempro pinga,disegnerei com' io m'addormentai;ma qual vuol sia che l'assonnar ben finga.Però trascorro a quando mi svegliai,e dico ch'un splendor mi squarciò 'l velodel sonno, e un chiamar: «Surgi: che fai?».Quali a veder de' fioretti del meloche del suo pome li angeli fa ghiottie perpetüe nozze fa nel cielo,Pietro e Giovanni e Iacopo condottie vinti, ritornaro a la parolada la qual furon maggior sonni rotti,e videro scemata loro scuolacosì di Moïsè come d'Elia,e al maestro suo cangiata stola;tal torna' io, e vidi quella piasovra me starsi che conducitricefu de' miei passi lungo 'l fiume pria.E tutto in dubbio dissi: «Ov' è Beatrice?».Ond' ella: «Vedi lei sotto la frondanova sedere in su la sua radice.Vedi la compagnia che la circonda:li altri dopo 'l grifon sen vanno susocon più dolce canzone e più profonda».E se più fu lo suo parlar diffuso,non so, però che già ne li occhi m'eraquella ch'ad altro intender m'avea chiuso.Sola sedeasi in su la terra vera,come guardia lasciata lì del plaustroche legar vidi a la biforme fera.In cerchio le facevan di sé claustrole sette ninfe, con quei lumi in manoche son sicuri d'Aquilone e d'Austro.«Qui sarai tu poco tempo silvano;e sarai meco sanza fine civedi quella Roma onde Cristo è romano.Però, in pro del mondo che mal vive,al carro tieni or li occhi, e quel che vedi,ritornato di là, fa che tu scrive».Così Beatrice; e io, che tutto ai piedid'i suoi comandamenti era divoto,la mente e li occhi ov' ella volle diedi.Non scese mai con sì veloce motofoco di spessa nube, quando pioveda quel confine che più va remoto,com' io vidi calar l'uccel di Gioveper l'alber giù, rompendo de la scorza,non che d'i fiori e de le foglie nove;e ferì 'l carro di tutta sua forza;ond' el piegò come nave in fortuna,vinta da l'onda, or da poggia, or da orza.Poscia vidi avventarsi ne la cunadel trïunfal veiculo una volpeche d'ogne pasto buon parea digiuna;ma, riprendendo lei di laide colpe,la donna mia la volse in tanta futaquanto sofferser l'ossa sanza polpe.Poscia per indi ond' era pria venuta,l'aguglia vidi scender giù ne l'arcadel carro e lasciar lei di sé pennuta;e qual esce di cuor che si rammarca,tal voce uscì del cielo e cotal disse:«O navicella mia, com' mal se' carca!».Poi parve a me che la terra s'aprissetr'ambo le ruote, e vidi uscirne un dragoche per lo carro sù la coda fisse;e come vespa che ritragge l'ago,a sé traendo la coda maligna,trasse del fondo, e gissen vago vago.Quel che rimase, come da gramignavivace terra, da la piuma, offertaforse con intenzion sana e benigna,si ricoperse, e funne ricopertae l'una e l'altra rota e 'l temo, in tantoche più tiene un sospir la bocca aperta.Trasformato così 'l dificio santomise fuor teste per le parti sue,tre sovra 'l temo e una in ciascun canto.Le prime eran cornute come bue,ma le quattro un sol corno avean per fronte:simile mostro visto ancor non fue.Sicura, quasi rocca in alto monte,seder sovresso una puttana scioltam'apparve con le ciglia intorno pronte;e come perché non li fosse tolta,vidi di costa a lei dritto un gigante;e basciavansi insieme alcuna volta.Ma perché l'occhio cupido e vagantea me rivolse, quel feroce drudola flagellò dal capo infin le piante;poi, di sospetto pieno e d'ira crudo,disciolse il mostro, e trassel per la selva,tanto che sol di lei mi fece scudoa la puttana e a la nova belva. |