Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Purgatorio
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Canto XXXIII
Canto XXXIII, il quale si è l'ultimo de la seconda cantica, ove si racconta sì come Beatrice dichiaroe a Dante quelle cose ch'elli vide, trattando e dimostrando le future vendette e de la ingiuria nel predetto carro del grifone; e infine, veduti li quattro fiumi del Paradiso, escono verso il cielo.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, pur. 33 (disegno, 1485/90)
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Deus, venerunt gentes, alternandoor tre or quattro dolce salmodia,le donne incominciaro, e lagrimando;e Bëatrice, sospirosa e pia,quelle ascoltava sì fatta, che pocopiù a la croce si cambiò Maria.Ma poi che l'altre vergini dier locoa lei di dir, levata dritta in pè,rispuose, colorata come foco:Modicum, et non videbitis me;et iterum, sorelle mie dilette,modicum, et vos videbitis me.Poi le si mise innanzi tutte e sette,e dopo sé, solo accennando, mosseme e la donna e 'l savio che ristette.Così sen giva; e non credo che fosselo decimo suo passo in terra posto,quando con li occhi li occhi mi percosse;e con tranquillo aspetto «Vien più tosto»,mi disse, «tanto che, s'io parlo teco,ad ascoltarmi tu sie ben disposto».Sì com' io fui, com' io dovëa, seco,dissemi: «Frate, perché non t'attentia domandarmi omai venendo meco?».Come a color che troppo reverentidinanzi a suo maggior parlando sono,che non traggon la voce viva ai denti,avvenne a me, che sanza intero suonoincominciai: «Madonna, mia bisognavoi conoscete, e ciò ch'ad essa è buono».Ed ella a me: «Da tema e da vergognavoglio che tu omai ti disviluppe,sì che non parli più com' om che sogna.Sappi che 'l vaso che 'l serpente ruppe,fu e non è; ma chi n'ha colpa, credache vendetta di Dio non teme suppe.Non sarà tutto tempo sanza redal'aguglia che lasciò le penne al carro,per che divenne mostro e poscia preda;ch'io veggio certamente, e però il narro,a darne tempo già stelle propinque,secure d'ogn' intoppo e d'ogne sbarro,nel quale un cinquecento diece e cinque,messo di Dio, anciderà la fuiacon quel gigante che con lei delinque.E forse che la mia narrazion buia,qual Temi e Sfinge, men ti persuade,perch' a lor modo lo 'ntelletto attuia;ma tosto fier li fatti le Naiade,che solveranno questo enigma fortesanza danno di pecore o di biade.Tu nota; e sì come da me son porte,così queste parole segna a' vividel viver ch'è un correre a la morte.E aggi a mente, quando tu le scrivi,di non celar qual hai vista la piantach'è or due volte dirubata quivi.Qualunque ruba quella o quella schianta,con bestemmia di fatto offende a Dio,che solo a l'uso suo la creò santa.Per morder quella, in pena e in disiocinquemilia anni e più l'anima primabramò colui che 'l morso in sé punio.Dorme lo 'ngegno tuo, se non estimaper singular cagione esser eccelsalei tanto e sì travolta ne la cima.E se stati non fossero acqua d'Elsali pensier vani intorno a la tua mente,e 'l piacer loro un Piramo a la gelsa,per tante circostanze solamentela giustizia di Dio, ne l'interdetto,conosceresti a l'arbor moralmente.Ma perch' io veggio te ne lo 'ntellettofatto di pietra e, impetrato, tinto,sì che t'abbaglia il lume del mio detto,voglio anco, e se non scritto, almen dipinto,che 'l te ne porti dentro a te per quelloche si reca il bordon di palma cinto».E io: «Sì come cera da suggello,che la figura impressa non trasmuta,segnato è or da voi lo mio cervello.Ma perché tanto sovra mia vedutavostra parola disïata vola,che più la perde quanto più s'aiuta?».«Perché conoschi», disse, «quella scuolac'hai seguitata, e veggi sua dottrinacome può seguitar la mia parola;e veggi vostra via da la divinadistar cotanto, quanto si discordada terra il ciel che più alto festina».Ond' io rispuosi lei: «Non mi ricordach'i' stranïasse me già mai da voi,né honne coscïenza che rimorda».«E se tu ricordar non te ne puoi»,sorridendo rispuose, «or ti rammentacome bevesti di Letè ancoi;e se dal fummo foco s'argomenta,cotesta oblivïon chiaro conchiudecolpa ne la tua voglia altrove attenta.Veramente oramai saranno nudele mie parole, quanto converrassiquelle scovrire a la tua vista rude».E più corusco e con più lenti passiteneva il sole il cerchio di merigge,che qua e là, come li aspetti, fassi,quando s'affisser, sì come s'affiggechi va dinanzi a gente per iscortase trova novitate o sue vestigge,le sette donne al fin d'un'ombra smorta,qual sotto foglie verdi e rami nigrisovra suoi freddi rivi l'alpe porta.Dinanzi ad esse Ëufratès e Tigriveder mi parve uscir d'una fontana,e, quasi amici, dipartirsi pigri.«O luce, o gloria de la gente umana,che acqua è questa che qui si dispiegada un principio e sé da sé lontana?».Per cotal priego detto mi fu: «PriegaMatelda che 'l ti dica». E qui rispuose,come fa chi da colpa si dislega,la bella donna: «Questo e altre cosedette li son per me; e son sicurache l'acqua di Letè non gliel nascose».E Bëatrice: «Forse maggior cura,che spesse volte la memoria priva,fatt' ha la mente sua ne li occhi oscura.Ma vedi Eünoè che là diriva:menalo ad esso, e come tu se' usa,la tramortita sua virtù ravviva».Come anima gentil, che non fa scusa,ma fa sua voglia de la voglia altruitosto che è per segno fuor dischiusa;così, poi che da essa preso fui,la bella donna mossesi, e a Staziodonnescamente disse: «Vien con lui».S'io avessi, lettor, più lungo spazioda scrivere, i' pur cantere' in partelo dolce ber che mai non m'avria sazio;ma perché piene son tutte le carteordite a questa cantica seconda,non mi lascia più ir lo fren de l'arte.Io ritornai da la santissima ondarifatto sì come piante novellerinovellate di novella fronda,puro e disposto a salire a le stelle. |