Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Purgatorio
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Canto XXXI
Canto XXXI, ove si tratta sì come Beatrice riprende l'auttore de le commesse colpe, e come la donna che avante li apparve il bagna.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, pur. 31 (disegno, 1485/90)
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«O tu che se' di là dal fiume sacro»,volgendo suo parlare a me per punta,che pur per taglio m'era paruto acro,ricominciò, seguendo sanza cunta,«dì, dì se questo è vero: a tanta accusatua confession conviene esser congiunta».Era la mia virtù tanto confusa,che la voce si mosse, e pria si spenseche da li organi suoi fosse dischiusa.Poco sofferse; poi disse: «Che pense?Rispondi a me; ché le memorie tristein te non sono ancor da l'acqua offense».Confusione e paura insieme mistemi pinsero un tal «sì» fuor de la bocca,al quale intender fuor mestier le viste.Come balestro frange, quando scoccada troppa tesa, la sua corda e l'arco,e con men foga l'asta il segno tocca,sì scoppia' io sottesso grave carco,fuori sgorgando lagrime e sospiri,e la voce allentò per lo suo varco.Ond' ella a me: «Per entro i mie' disiri,che ti menavano ad amar lo benedi là dal qual non è a che s'aspiri,quai fossi attraversati o quai catenetrovasti, per che del passare innanzidovessiti così spogliar la spene?E quali agevolezze o quali avanzine la fronte de li altri si mostraro,per che dovessi lor passeggiare anzi?».Dopo la tratta d'un sospiro amaro,a pena ebbi la voce che rispuose,e le labbra a fatica la formaro.Piangendo dissi: «Le presenti cosecol falso lor piacer volser miei passi,tosto che 'l vostro viso si nascose».Ed ella: «Se tacessi o se negassiciò che confessi, non fora men notala colpa tua: da tal giudice sassi!Ma quando scoppia de la propria gotal'accusa del peccato, in nostra corterivolge sé contra 'l taglio la rota.Tuttavia, perché mo vergogna portedel tuo errore, e perché altra volta,udendo le serene, sie più forte,pon giù il seme del piangere e ascolta:sì udirai come in contraria partemover dovieti mia carne sepolta.Mai non t'appresentò natura o artepiacer, quanto le belle membra in ch'iorinchiusa fui, e che so' 'n terra sparte;e se 'l sommo piacer sì ti fallioper la mia morte, qual cosa mortaledovea poi trarre te nel suo disio?Ben ti dovevi, per lo primo stralede le cose fallaci, levar susodi retro a me che non era più tale.Non ti dovea gravar le penne in giuso,ad aspettar più colpo, o pargolettao altra novità con sì breve uso.Novo augelletto due o tre aspetta;ma dinanzi da li occhi d'i pennutirete si spiega indarno o si saetta».Quali fanciulli, vergognando, muticon li occhi a terra stannosi, ascoltandoe sé riconoscendo e ripentuti,tal mi stav' io; ed ella disse: «Quandoper udir se' dolente, alza la barba,e prenderai più doglia riguardando».Con men di resistenza si dibarbarobusto cerro, o vero al nostral ventoo vero a quel de la terra di Iarba,ch'io non levai al suo comando il mento;e quando per la barba il viso chiese,ben conobbi il velen de l'argomento.E come la mia faccia si distese,posarsi quelle prime creatureda loro aspersïon l'occhio comprese;e le mie luci, ancor poco sicure,vider Beatrice volta in su la fierach'è sola una persona in due nature.Sotto 'l suo velo e oltre la riveravincer pariemi più sé stessa antica,vincer che l'altre qui, quand' ella c'era.Di penter sì mi punse ivi l'ortica,che di tutte altre cose qual mi torsepiù nel suo amor, più mi si fé nemica.Tanta riconoscenza il cor mi morse,ch'io caddi vinto; e quale allora femmi,salsi colei che la cagion mi porse.Poi, quando il cor virtù di fuor rendemmi,la donna ch'io avea trovata solasopra me vidi, e dicea: «Tiemmi, tiemmi!».Tratto m'avea nel fiume infin la gola,e tirandosi me dietro sen givasovresso l'acqua lieve come scola.Quando fui presso a la beata riva,Asperges me sì dolcemente udissi,che nol so rimembrar, non ch'io lo scriva.La bella donna ne le braccia aprissi;abbracciommi la testa e mi sommerseove convenne ch'io l'acqua inghiottissi.Indi mi tolse, e bagnato m'offersedentro a la danza de le quattro belle;e ciascuna del braccio mi coperse.«Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle;pria che Beatrice discendesse al mondo,fummo ordinate a lei per sue ancelle.Merrenti a li occhi suoi; ma nel giocondolume ch'è dentro aguzzeranno i tuoile tre di là, che miran più profondo».Così cantando cominciaro; e poial petto del grifon seco menarmi,ove Beatrice stava volta a noi.Disser: «Fa che le viste non risparmi;posto t'avem dinanzi a li smeraldiond' Amor già ti trasse le sue armi».Mille disiri più che fiamma caldistrinsermi li occhi a li occhi rilucenti,che pur sopra 'l grifone stavan saldi.Come in lo specchio il sol, non altrimentila doppia fiera dentro vi raggiava,or con altri, or con altri reggimenti.Pensa, lettor, s'io mi maravigliava,quando vedea la cosa in sé star queta,e ne l'idolo suo si trasmutava.Mentre che piena di stupore e lietal'anima mia gustava di quel ciboche, saziando di sé, di sé asseta,sé dimostrando di più alto tribone li atti, l'altre tre si fero avanti,danzando al loro angelico caribo.«Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi»,era la sua canzone, «al tuo fedeleche, per vederti, ha mossi passi tanti!Per grazia fa noi grazia che disvelea lui la bocca tua, sì che discernala seconda bellezza che tu cele».O isplendor di viva luce etterna,chi palido si fece sotto l'ombrasì di Parnaso, o bevve in sua cisterna,che non paresse aver la mente ingombra,tentando a render te qual tu parestilà dove armonizzando il ciel t'adombra,quando ne l'aere aperto ti solvesti? |