Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Purgatorio
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Canto XXX
Canto XXX, dove narra come Beatrice apparve a Dante e Virgilio il lasciò, e lo recitare per l'alta donna de la incostanza e difetto di Dante, e qui l'auttore piange i suoi difetti con vergogna compuntiva.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, pur. 30 (disegno, 1485/90)
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Quando il settentrïon del primo cielo,che né occaso mai seppe né ortoné d'altra nebbia che di colpa velo,e che faceva lì ciascun accortodi suo dover, come 'l più basso facequal temon gira per venire a porto,fermo s'affisse: la gente verace,venuta prima tra 'l grifone ed esso,al carro volse sé come a sua pace;e un di loro, quasi da ciel messo,Veni, sponsa, de Libano cantandogridò tre volte, e tutti li altri appresso.Quali i beati al novissimo bandosurgeran presti ognun di sua caverna,la revestita voce alleluiando,cotali in su la divina basternasi levar cento, ad vocem tanti senis,ministri e messaggier di vita etterna.Tutti dicean: Benedictus qui venis!,e fior gittando e di sopra e dintorno,Manibus, oh, date lilïa plenis!.Io vidi già nel cominciar del giornola parte orïental tutta rosata,e l'altro ciel di bel sereno addorno;e la faccia del sol nascere ombrata,sì che per temperanza di vaporil'occhio la sostenea lunga fïata:così dentro una nuvola di fioriche da le mani angeliche salivae ricadeva in giù dentro e di fori,sovra candido vel cinta d'ulivadonna m'apparve, sotto verde mantovestita di color di fiamma viva.E lo spirito mio, che già cotantotempo era stato ch'a la sua presenzanon era di stupor, tremando, affranto,sanza de li occhi aver più conoscenza,per occulta virtù che da lei mosse,d'antico amor sentì la gran potenza.Tosto che ne la vista mi percossel'alta virtù che già m'avea trafittoprima ch'io fuor di püerizia fosse,volsimi a la sinistra col respittocol quale il fantolin corre a la mammaquando ha paura o quando elli è afflitto,per dicere a Virgilio: Men che drammadi sangue m'è rimaso che non tremi:conosco i segni de l'antica fiamma.Ma Virgilio n'avea lasciati scemidi sé, Virgilio dolcissimo patre,Virgilio a cui per mia salute die'mi;né quantunque perdeo l'antica matre,valse a le guance nette di rugiada,che, lagrimando, non tornasser atre.«Dante, perché Virgilio se ne vada,non pianger anco, non piangere ancora;ché pianger ti conven per altra spada».Quasi ammiraglio che in poppa e in proraviene a veder la gente che ministraper li altri legni, e a ben far l'incora;in su la sponda del carro sinistra,quando mi volsi al suon del nome mio,che di necessità qui si registra,vidi la donna che pria m'appariovelata sotto l'angelica festa,drizzar li occhi ver' me di qua dal rio.Tutto che 'l vel che le scendea di testa,cerchiato de le fronde di Minerva,non la lasciasse parer manifesta,regalmente ne l'atto ancor protervacontinüò come colui che dicee 'l più caldo parlar dietro reserva:«Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.Come degnasti d'accedere al monte?non sapei tu che qui è l'uom felice?».Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;ma veggendomi in esso, i trassi a l'erba,tanta vergogna mi gravò la fronte.Così la madre al figlio par superba,com' ella parve a me; perché d'amarosente il sapor de la pietade acerba.Ella si tacque; e li angeli cantarodi sùbito In te, Domine, speravi;ma oltre pedes meos non passaro.Sì come neve tra le vive traviper lo dosso d'Italia si congela,soffiata e stretta da li venti schiavi,poi, liquefatta, in sé stessa trapela,pur che la terra che perde ombra spiri,sì che par foco fonder la candela;così fui sanza lagrime e sospirianzi 'l cantar di quei che notan sempredietro a le note de li etterni giri;ma poi che 'ntesi ne le dolci temprelor compatire a me, par che se dettoavesser: Donna, perché sì lo stempre?,lo gel che m'era intorno al cor ristretto,spirito e acqua fessi, e con angosciade la bocca e de li occhi uscì del petto.Ella, pur ferma in su la detta cosciadel carro stando, a le sustanze pievolse le sue parole così poscia:«Voi vigilate ne l'etterno die,sì che notte né sonno a voi non furapasso che faccia il secol per sue vie;onde la mia risposta è con più curache m'intenda colui che di là piagne,perché sia colpa e duol d'una misura.Non pur per ovra de le rote magne,che drizzan ciascun seme ad alcun finesecondo che le stelle son compagne,ma per larghezza di grazie divine,che sì alti vapori hanno a lor piova,che nostre viste là non van vicine,questi fu tal ne la sua vita novavirtüalmente, ch'ogne abito destrofatto averebbe in lui mirabil prova.Ma tanto più maligno e più silvestrosi fa 'l terren col mal seme e non cólto,quant' elli ha più di buon vigor terrestro.Alcun tempo il sostenni col mio volto:mostrando li occhi giovanetti a lui,meco il menava in dritta parte vòlto.Sì tosto come in su la soglia fuidi mia seconda etade e mutai vita,questi si tolse a me, e diessi altrui.Quando di carne a spirto era salita,e bellezza e virtù cresciuta m'era,fu' io a lui men cara e men gradita;e volse i passi suoi per via non vera,imagini di ben seguendo false,che nulla promession rendono intera.Né l'impetrare ispirazion mi valse,con le quali e in sogno e altrimentilo rivocai: sì poco a lui ne calse!Tanto giù cadde, che tutti argomentia la salute sua eran già corti,fuor che mostrarli le perdute genti.Per questo visitai l'uscio d'i morti,e a colui che l'ha qua sù condotto,li prieghi miei, piangendo, furon porti.Alto fato di Dio sarebbe rotto,se Letè si passasse e tal vivandafosse gustata sanza alcuno scottodi pentimento che lagrime spanda». |