Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Purgatorio
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Canto XXIX
Canto XXIX, dove si tratta sì come l'auttore contristato si conduoleva e come vide li sette doni del Santo Spirito e Cristo e la celestiale corte in forma di certe figure.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, pur. 29 (disegno, 1485/90)
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Cantando come donna innamorata,continüò col fin di sue parole:Beati quorum tecta sunt peccata!.E come ninfe che si givan soleper le salvatiche ombre, disïandoqual di veder, qual di fuggir lo sole,allor si mosse contra 'l fiume, andandosu per la riva; e io pari di lei,picciol passo con picciol seguitando.Non eran cento tra ' suoi passi e ' miei,quando le ripe igualmente dier volta,per modo ch'a levante mi rendei.Né ancor fu così nostra via molta,quando la donna tutta a me si torse,dicendo: «Frate mio, guarda e ascolta».Ed ecco un lustro sùbito trascorseda tutte parti per la gran foresta,tal che di balenar mi mise in forse.Ma perché 'l balenar, come vien, resta,e quel, durando, più e più splendeva,nel mio pensier dicea: Che cosa è questa?.E una melodia dolce correvaper l'aere luminoso; onde buon zelomi fé riprender l'ardimento d'Eva,che là dove ubidia la terra e 'l cielo,femmina, sola e pur testé formata,non sofferse di star sotto alcun velo;sotto 'l qual se divota fosse stata,avrei quelle ineffabili deliziesentite prima e più lunga fïata.Mentr' io m'andava tra tante primiziede l'etterno piacer tutto sospeso,e disïoso ancora a più letizie,dinanzi a noi, tal quale un foco acceso,ci si fé l'aere sotto i verdi rami;e 'l dolce suon per canti era già inteso.O sacrosante Vergini, se fami,freddi o vigilie mai per voi soffersi,cagion mi sprona ch'io mercé vi chiami.Or convien che Elicona per me versi,e Uranìe m'aiuti col suo coroforti cose a pensar mettere in versi.Poco più oltre, sette alberi d'orofalsava nel parere il lungo trattodel mezzo ch'era ancor tra noi e loro;ma quand' i' fui sì presso di lor fatto,che l'obietto comun, che 'l senso inganna,non perdea per distanza alcun suo atto,la virtù ch'a ragion discorso ammanna,sì com' elli eran candelabri apprese,e ne le voci del cantare Osanna.Di sopra fiammeggiava il bello arnesepiù chiaro assai che luna per serenodi mezza notte nel suo mezzo mese.Io mi rivolsi d'ammirazion pienoal buon Virgilio, ed esso mi rispuosecon vista carca di stupor non meno.Indi rendei l'aspetto a l'alte coseche si movieno incontr' a noi sì tardi,che foran vinte da novelle spose.La donna mi sgridò: «Perché pur ardisì ne l'affetto de le vive luci,e ciò che vien di retro a lor non guardi?».Genti vid' io allor, come a lor duci,venire appresso, vestite di bianco;e tal candor di qua già mai non fuci.L'acqua imprendëa dal sinistro fianco,e rendea me la mia sinistra costa,s'io riguardava in lei, come specchio anco.Quand' io da la mia riva ebbi tal posta,che solo il fiume mi facea distante,per veder meglio ai passi diedi sosta,e vidi le fiammelle andar davante,lasciando dietro a sé l'aere dipinto,e di tratti pennelli avean sembiante;sì che lì sopra rimanea distintodi sette liste, tutte in quei colorionde fa l'arco il Sole e Delia il cinto.Questi ostendali in dietro eran maggioriche la mia vista; e, quanto a mio avviso,diece passi distavan quei di fori.Sotto così bel ciel com' io diviso,ventiquattro seniori, a due a due,coronati venien di fiordaliso.Tutti cantavan: «Benedicta tuene le figlie d'Adamo, e benedettesieno in etterno le bellezze tue!».Poscia che i fiori e l'altre fresche erbettea rimpetto di me da l'altra spondalibere fuor da quelle genti elette,sì come luce luce in ciel seconda,vennero appresso lor quattro animali,coronati ciascun di verde fronda.Ognuno era pennuto di sei ali;le penne piene d'occhi; e li occhi d'Argo,se fosser vivi, sarebber cotali.A descriver lor forme più non spargorime, lettor; ch'altra spesa mi strigne,tanto ch'a questa non posso esser largo;ma leggi Ezechïel, che li dipignecome li vide da la fredda partevenir con vento e con nube e con igne;e quali i troverai ne le sue carte,tali eran quivi, salvo ch'a le penneGiovanni è meco e da lui si diparte.Lo spazio dentro a lor quattro contenneun carro, in su due rote, trïunfale,ch'al collo d'un grifon tirato venne.Esso tendeva in sù l'una e l'altra aletra la mezzana e le tre e tre liste,sì ch'a nulla, fendendo, facea male.Tanto salivan che non eran viste;le membra d'oro avea quant' era uccello,e bianche l'altre, di vermiglio miste.Non che Roma di carro così bellorallegrasse Affricano, o vero Augusto,ma quel del Sol saria pover con ello;quel del Sol che, svïando, fu combustoper l'orazion de la Terra devota,quando fu Giove arcanamente giusto.Tre donne in giro da la destra rotavenian danzando; l'una tanto rossach'a pena fora dentro al foco nota;l'altr' era come se le carni e l'ossafossero state di smeraldo fatte;la terza parea neve testé mossa;e or parëan da la bianca tratte,or da la rossa; e dal canto di questal'altre toglien l'andare e tarde e ratte.Da la sinistra quattro facean festa,in porpore vestite, dietro al modod'una di lor ch'avea tre occhi in testa.Appresso tutto il pertrattato nodovidi due vecchi in abito dispari,ma pari in atto e onesto e sodo.L'un si mostrava alcun de' famigliaridi quel sommo Ipocràte che naturaa li animali fé ch'ell' ha più cari;mostrava l'altro la contraria curacon una spada lucida e aguta,tal che di qua dal rio mi fé paura.Poi vidi quattro in umile paruta;e di retro da tutti un vecchio solovenir, dormendo, con la faccia arguta.E questi sette col primaio stuoloerano abitüati, ma di giglidintorno al capo non facëan brolo,anzi di rose e d'altri fior vermigli;giurato avria poco lontano aspettoche tutti ardesser di sopra da' cigli.E quando il carro a me fu a rimpetto,un tuon s'udì, e quelle genti degneparvero aver l'andar più interdetto,fermandosi ivi con le prime insegne. |