Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Inferno
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Canto XXX
Canto XXX, ove tratta di quella medesima materia e gente.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, inf. 30 (disegno, 1485/90)
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Nel tempo che Iunone era crucciataper Semelè contra 'l sangue tebano,come mostrò una e altra fïata,Atamante divenne tanto insano,che veggendo la moglie con due figliandar carcata da ciascuna mano,gridò: «Tendiam le reti, sì ch'io piglila leonessa e ' leoncini al varco»;e poi distese i dispietati artigli,prendendo l'un ch'avea nome Learco,e rotollo e percosselo ad un sasso;e quella s'annegò con l'altro carco.E quando la fortuna volse in bassol'altezza de' Troian che tutto ardiva,sì che 'nsieme col regno il re fu casso,Ecuba trista, misera e cattiva,poscia che vide Polissena morta,e del suo Polidoro in su la rivadel mar si fu la dolorosa accorta,forsennata latrò sì come cane;tanto il dolor le fé la mente torta.Ma né di Tebe furie né troianesi vider mäi in alcun tanto crude,non punger bestie, nonché membra umane,quant' io vidi in due ombre smorte e nude,che mordendo correvan di quel modoche 'l porco quando del porcil si schiude.L'una giunse a Capocchio, e in sul nododel collo l'assannò, sì che, tirando,grattar li fece il ventre al fondo sodo.E l'Aretin che rimase, tremandomi disse: «Quel folletto è Gianni Schicchi,e va rabbioso altrui così conciando».«Oh», diss' io lui, «se l'altro non ti ficchili denti a dosso, non ti sia faticaa dir chi è, pria che di qui si spicchi».Ed elli a me: «Quell' è l'anima anticadi Mirra scellerata, che divenneal padre, fuor del dritto amore, amica.Questa a peccar con esso così venne,falsificando sé in altrui forma,come l'altro che là sen va, sostenne,per guadagnar la donna de la torma,falsificare in sé Buoso Donati,testando e dando al testamento norma».E poi che i due rabbiosi fuor passatisovra cu' io avea l'occhio tenuto,rivolsilo a guardar li altri mal nati.Io vidi un, fatto a guisa di lëuto,pur ch'elli avesse avuta l'anguinaiatronca da l'altro che l'uomo ha forcuto.La grave idropesì, che sì dispaiale membra con l'omor che mal converte,che 'l viso non risponde a la ventraia,faceva lui tener le labbra apertecome l'etico fa, che per la setel'un verso 'l mento e l'altro in sù rinverte.«O voi che sanz' alcuna pena siete,e non so io perché, nel mondo gramo»,diss' elli a noi, «guardate e attendetea la miseria del maestro Adamo;io ebbi, vivo, assai di quel ch'i' volli,e ora, lasso!, un gocciol d'acqua bramo.Li ruscelletti che d'i verdi collidel Casentin discendon giuso in Arno,faccendo i lor canali freddi e molli,sempre mi stanno innanzi, e non indarno,ché l'imagine lor vie più m'asciugache 'l male ond' io nel volto mi discarno.La rigida giustizia che mi frugatragge cagion del loco ov' io peccaia metter più li miei sospiri in fuga.Ivi è Romena, là dov' io falsaila lega suggellata del Batista;per ch'io il corpo sù arso lasciai.Ma s'io vedessi qui l'anima tristadi Guido o d'Alessandro o di lor frate,per Fonte Branda non darei la vista.Dentro c'è l'una già, se l'arrabbiateombre che vanno intorno dicon vero;ma che mi val, c'ho le membra legate?S'io fossi pur di tanto ancor leggeroch'i' potessi in cent' anni andare un'oncia,io sarei messo già per lo sentiero,cercando lui tra questa gente sconcia,con tutto ch'ella volge undici miglia,e men d'un mezzo di traverso non ci ha.Io son per lor tra sì fatta famiglia;e' m'indussero a batter li fiorinich'avevan tre carati di mondiglia».E io a lui: «Chi son li due tapiniche fumman come man bagnate 'l verno,giacendo stretti a' tuoi destri confini?».«Qui li trovai – e poi volta non dierno – »,rispuose, «quando piovvi in questo greppo,e non credo che dieno in sempiterno.L'una è la falsa ch'accusò Gioseppo;l'altr' è 'l falso Sinon greco di Troia:per febbre aguta gittan tanto leppo».E l'un di lor, che si recò a noiaforse d'esser nomato sì oscuro,col pugno li percosse l'epa croia.Quella sonò come fosse un tamburo;e mastro Adamo li percosse il voltocol braccio suo, che non parve men duro,dicendo a lui: «Ancor che mi sia toltolo muover per le membra che son gravi,ho io il braccio a tal mestiere sciolto».Ond' ei rispuose: «Quando tu andavial fuoco, non l'avei tu così presto;ma sì e più l'avei quando coniavi».E l'idropico: «Tu di' ver di questo:ma tu non fosti sì ver testimoniolà 've del ver fosti a Troia richesto».«S'io dissi falso, e tu falsasti il conio»,disse Sinon; «e son qui per un fallo,e tu per più ch'alcun altro demonio!».«Ricorditi, spergiuro, del cavallo»,rispuose quel ch'avëa infiata l'epa;«e sieti reo che tutto il mondo sallo!».«E te sia rea la sete onde ti crepa»,disse 'l Greco, «la lingua, e l'acqua marciache 'l ventre innanzi a li occhi sì t'assiepa!».Allora il monetier: «Così si squarciala bocca tua per tuo mal come suole;ché, s'i' ho sete e omor mi rinfarcia,tu hai l'arsura e 'l capo che ti duole,e per leccar lo specchio di Narcisso,non vorresti a 'nvitar molte parole».Ad ascoltarli er' io del tutto fisso,quando 'l maestro mi disse: «Or pur mira,che per poco che teco non mi risso!».Quand' io 'l senti' a me parlar con ira,volsimi verso lui con tal vergogna,ch'ancor per la memoria mi si gira.Qual è colui che suo dannaggio sogna,che sognando desidera sognare,sì che quel ch'è, come non fosse, agogna,tal mi fec' io, non possendo parlare,che disïava scusarmi, e scusavame tuttavia, e nol mi credea fare.«Maggior difetto men vergogna lava»,disse 'l maestro, «che 'l tuo non è stato;però d'ogne trestizia ti disgrava.E fa ragion ch'io ti sia sempre allato,se più avvien che fortuna t'accogliadove sien genti in simigliante piato:ché voler ciò udire è bassa voglia». |