Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Inferno
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Canto XXIX
Canto XXIX, ove tratta de la decima bolgia, dove si puniscono i falsi fabricatori di qualunque opera, e isgrida e riprende l'autore i Sanesi.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, inf. 29.46 (disegno, 1485/90)
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La molta gente e le diverse piagheavean le luci mie sì inebrïate,che de lo stare a piangere eran vaghe.Ma Virgilio mi disse: «Che pur guate?perché la vista tua pur si soffolgelà giù tra l'ombre triste smozzicate?Tu non hai fatto sì a l'altre bolge;pensa, se tu annoverar le credi,che miglia ventidue la valle volge.E già la luna è sotto i nostri piedi;lo tempo è poco omai che n'è concesso,e altro è da veder che tu non vedi».«Se tu avessi», rispuos' io appresso,«atteso a la cagion per ch'io guardava,forse m'avresti ancor lo star dimesso».Parte sen giva, e io retro li andava,lo duca, già faccendo la risposta,e soggiugnendo: «Dentro a quella cavadov' io tenea or li occhi sì a posta,credo ch'un spirto del mio sangue piangala colpa che là giù cotanto costa».Allor disse 'l maestro: «Non si frangalo tuo pensier da qui innanzi sovr' ello.Attendi ad altro, ed ei là si rimanga;ch'io vidi lui a piè del ponticellomostrarti e minacciar forte col dito,e udi' 'l nominar Geri del Bello.Tu eri allor sì del tutto impeditosovra colui che già tenne Altaforte,che non guardasti in là, sì fu partito».«O duca mio, la vïolenta morteche non li è vendicata ancor», diss' io,«per alcun che de l'onta sia consorte,fece lui disdegnoso; ond' el sen giosanza parlarmi, sì com' ïo estimo:e in ciò m'ha el fatto a sé più pio».Così parlammo infino al loco primoche de lo scoglio l'altra valle mostra,se più lume vi fosse, tutto ad imo.Quando noi fummo sor l'ultima chiostradi Malebolge, sì che i suoi conversipotean parere a la veduta nostra,lamenti saettaron me diversi,che di pietà ferrati avean li strali;ond' io li orecchi con le man copersi.Qual dolor fora, se de li spedalidi Valdichiana tra 'l luglio e 'l settembree di Maremma e di Sardigna i malifossero in una fossa tutti 'nsembre,tal era quivi, e tal puzzo n'uscivaqual suol venir de le marcite membre.Noi discendemmo in su l'ultima rivadel lungo scoglio, pur da man sinistra;e allor fu la mia vista più vivagiù ver' lo fondo, la 've la ministrade l'alto Sire infallibil giustiziapunisce i falsador che qui registra.Non credo ch'a veder maggior tristiziafosse in Egina il popol tutto infermo,quando fu l'aere sì pien di malizia,che li animali, infino al picciol vermo,cascaron tutti, e poi le genti antiche,secondo che i poeti hanno per fermo,si ristorar di seme di formiche;ch'era a veder per quella oscura vallelanguir li spirti per diverse biche.Qual sovra 'l ventre e qual sovra le spallel'un de l'altro giacea, e qual carponesi trasmutava per lo tristo calle.Passo passo andavam sanza sermone,guardando e ascoltando li ammalati,che non potean levar le lor persone.Io vidi due sedere a sé poggiati,com' a scaldar si poggia tegghia a tegghia,dal capo al piè di schianze macolati;e non vidi già mai menare stregghiaa ragazzo aspettato dal segnorso,né a colui che mal volontier vegghia,come ciascun menava spesso il morsode l'unghie sopra sé per la gran rabbiadel pizzicor, che non ha più soccorso;e sì traevan giù l'unghie la scabbia,come coltel di scardova le scaglieo d'altro pesce che più larghe l'abbia.«O tu che con le dita ti dismaglie»,cominciò 'l duca mio a l'un di loro,«e che fai d'esse talvolta tanaglie,dinne s'alcun Latino è tra costoroche son quinc' entro, se l'unghia ti bastietternalmente a cotesto lavoro».«Latin siam noi, che tu vedi sì guastiqui ambedue», rispuose l'un piangendo;«ma tu chi se' che di noi dimandasti?».E 'l duca disse: «I' son un che discendocon questo vivo giù di balzo in balzo,e di mostrar lo 'nferno a lui intendo».Allor si ruppe lo comun rincalzo;e tremando ciascuno a me si volsecon altri che l'udiron di rimbalzo.Lo buon maestro a me tutto s'accolse,dicendo: «Dì a lor ciò che tu vuoli»;e io incominciai, poscia ch'ei volse:«Se la vostra memoria non s'imbolinel primo mondo da l'umane menti,ma s'ella viva sotto molti soli,ditemi chi voi siete e di che genti;la vostra sconcia e fastidiosa penadi palesarvi a me non vi spaventi».«Io fui d'Arezzo, e Albero da Siena»,rispuose l'un, «mi fé mettere al foco;ma quel per ch'io mori' qui non mi mena.Vero è ch'i' dissi lui, parlando a gioco:«I' mi saprei levar per l'aere a volo»;e quei, ch'avea vaghezza e senno poco,volle ch'i' li mostrassi l'arte; e soloperch' io nol feci Dedalo, mi feceardere a tal che l'avea per figliuolo.Ma ne l'ultima bolgia de le dieceme per l'alchìmia che nel mondo usaidannò Minòs, a cui fallar non lece».E io dissi al poeta: «Or fu già maigente sì vana come la sanese?Certo non la francesca sì d'assai!».Onde l'altro lebbroso, che m'intese,rispuose al detto mio: «Tra'mene Striccache seppe far le temperate spese,e Niccolò che la costuma riccadel garofano prima discoversene l'orto dove tal seme s'appicca;e tra'ne la brigata in che disperseCaccia d'Ascian la vigna e la gran fonda,e l'Abbagliato suo senno proferse.Ma perché sappi chi sì ti secondacontra i Sanesi, aguzza ver' me l'occhio,sì che la faccia mia ben ti risponda:sì vedrai ch'io son l'ombra di Capocchio,che falsai li metalli con l'alchìmia;e te dee ricordar, se ben t'adocchio,com' io fui di natura buona scimia». |