Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Inferno
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Canto XXVIII
Canto XXVIII, nel quale tratta le qualitadi de la nona bolgia, dove l'auttore vide punire coloro che commisero scandali, e' seminatori di scisma e discordia e d'ogne altro male operare.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, inf. 28.34 (disegno, 1485/90)
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Chi poria mai pur con parole scioltedicer del sangue e de le piaghe a pienoch'i' ora vidi, per narrar più volte?Ogne lingua per certo verria menoper lo nostro sermone e per la mentec'hanno a tanto comprender poco seno.S'el s'aunasse ancor tutta la genteche già, in su la fortunata terradi Puglia, fu del suo sangue dolenteper li Troiani e per la lunga guerrache de l'anella fé sì alte spoglie,come Livïo scrive, che non erra,con quella che sentio di colpi doglieper contastare a Ruberto Guiscardo;e l'altra il cui ossame ancor s'accogliea Ceperan, là dove fu bugiardociascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,dove sanz' arme vinse il vecchio Alardo;e qual forato suo membro e qual mozzomostrasse, d'aequar sarebbe nullail modo de la nona bolgia sozzo.Già veggia, per mezzul perdere o lulla,com' io vidi un, così non si pertugia,rotto dal mento infin dove si trulla.Tra le gambe pendevan le minugia;la corata pareva e 'l tristo saccoche merda fa di quel che si trangugia.Mentre che tutto in lui veder m'attacco,guardommi e con le man s'aperse il petto,dicendo: «Or vedi com' io mi dilacco!vedi come storpiato è Mäometto!Dinanzi a me sen va piangendo Alì,fesso nel volto dal mento al ciuffetto.E tutti li altri che tu vedi qui,seminator di scandalo e di scismafuor vivi, e però son fessi così.Un diavolo è qua dietro che n'accismasì crudelmente, al taglio de la spadarimettendo ciascun di questa risma,quand' avem volta la dolente strada;però che le ferite son richiuseprima ch'altri dinanzi li rivada.Ma tu chi se' che 'n su lo scoglio muse,forse per indugiar d'ire a la penach'è giudicata in su le tue accuse?».«Né morte 'l giunse ancor, né colpa 'l mena»,rispuose 'l mio maestro, «a tormentarlo;ma per dar lui esperïenza piena,a me, che morto son, convien menarloper lo 'nferno qua giù di giro in giro;e quest' è ver così com' io ti parlo».Più fuor di cento che, quando l'udiro,s'arrestaron nel fosso a riguardarmiper maraviglia, oblïando il martiro.«Or dì a fra Dolcin dunque che s'armi,tu che forse vedra' il sole in breve,s'ello non vuol qui tosto seguitarmi,sì di vivanda, che stretta di nevenon rechi la vittoria al Noarese,ch'altrimenti acquistar non saria leve».Poi che l'un piè per girsene sospese,Mäometto mi disse esta parola;indi a partirsi in terra lo distese.Un altro, che forata avea la golae tronco 'l naso infin sotto le ciglia,e non avea mai ch'una orecchia sola,ristato a riguardar per maravigliacon li altri, innanzi a li altri aprì la canna,ch'era di fuor d'ogne parte vermiglia,e disse: «O tu cui colpa non condannae cu' io vidi su in terra latina,se troppa simiglianza non m'inganna,rimembriti di Pier da Medicina,se mai torni a veder lo dolce pianoche da Vercelli a Marcabò dichina.E fa saper a' due miglior da Fano,a messer Guido e anco ad Angiolello,che, se l'antiveder qui non è vano,gittati saran fuor di lor vaselloe mazzerati presso a la Cattolicaper tradimento d'un tiranno fello.Tra l'isola di Cipri e di Maiolicanon vide mai sì gran fallo Nettuno,non da pirate, non da gente argolica.Quel traditor che vede pur con l'uno,e tien la terra che tale qui mecovorrebbe di vedere esser digiuno,farà venirli a parlamento seco;poi farà sì, ch'al vento di Focaranon sarà lor mestier voto né preco».E io a lui: «Dimostrami e dichiara,se vuo' ch'i' porti sù di te novella,chi è colui da la veduta amara».Allor puose la mano a la mascellad'un suo compagno e la bocca li aperse,gridando: «Questi è desso, e non favella.Questi, scacciato, il dubitar sommersein Cesare, affermando che 'l fornitosempre con danno l'attender sofferse».Oh quanto mi pareva sbigottitocon la lingua tagliata ne la strozzaCurïo, ch'a dir fu così ardito!E un ch'avea l'una e l'altra man mozza,levando i moncherin per l'aura fosca,sì che 'l sangue facea la faccia sozza,gridò: «Ricordera'ti anche del Mosca,che disse, lasso!, «Capo ha cosa fatta»,che fu mal seme per la gente tosca».E io li aggiunsi: «E morte di tua schiatta»;per ch'elli, accumulando duol con duolo,sen gio come persona trista e matta.Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,e vidi cosa ch'io avrei paura,sanza più prova, di contarla solo;se non che coscïenza m'assicura,la buona compagnia che l'uom francheggiasotto l'asbergo del sentirsi pura.Io vidi certo, e ancor par ch'io 'l veggia,un busto sanza capo andar sì comeandavan li altri de la trista greggia;e 'l capo tronco tenea per le chiome,pesol con mano a guisa di lanterna:e quel mirava noi e dicea: «Oh me!».Di sé facea a sé stesso lucerna,ed eran due in uno e uno in due;com' esser può, quei sa che sì governa.Quando diritto al piè del ponte fue,levò 'l braccio alto con tutta la testaper appressarne le parole sue,che fuoro: «Or vedi la pena molesta,tu che, spirando, vai veggendo i morti:vedi s'alcuna è grande come questa.E perché tu di me novella porti,sappi ch'i' son Bertram dal Bornio, quelliche diedi al re giovane i ma' conforti.Io feci il padre e 'l figlio in sé ribelli;Achitofèl non fé più d'Absalonee di Davìd coi malvagi punzelli.Perch' io parti' così giunte persone,partito porto il mio cerebro, lasso!,dal suo principio ch'è in questo troncone.Così s'osserva in me lo contrapasso». |