Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Inferno
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Canto XXVII
Canto XXVII, dove tratta di que' medesimi aguatatori e falsi consiglieri d'inganni in persona del conte Guido da Montefeltro.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, inf. 27.19 (disegno, 1485/90)
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Già era dritta in sù la fiamma e quetaper non dir più, e già da noi sen giacon la licenza del dolce poeta,quand' un'altra, che dietro a lei venìa,ne fece volger li occhi a la sua cimaper un confuso suon che fuor n'uscia.Come 'l bue cicilian che mugghiò primacol pianto di colui, e ciò fu dritto,che l'avea temperato con sua lima,mugghiava con la voce de l'afflitto,sì che, con tutto che fosse di rame,pur el pareva dal dolor trafitto;così, per non aver via né foramedal principio nel foco, in suo linguaggiosi convertïan le parole grame.Ma poscia ch'ebber colto lor vïaggiosu per la punta, dandole quel guizzoche dato avea la lingua in lor passaggio,udimmo dire: «O tu a cu' io drizzola voce e che parlavi mo lombardo,dicendo «Istra ten va, più non t'adizzo»,perch' io sia giunto forse alquanto tardo,non t'incresca restare a parlar meco;vedi che non incresce a me, e ardo!Se tu pur mo in questo mondo ciecocaduto se' di quella dolce terralatina ond' io mia colpa tutta reco,dimmi se Romagnuoli han pace o guerra;ch'io fui d'i monti là intra Orbinoe 'l giogo di che Tever si diserra».Io era in giuso ancora attento e chino,quando il mio duca mi tentò di costa,dicendo: «Parla tu; questi è latino».E io, ch'avea già pronta la risposta,sanza indugio a parlare incominciai:«O anima che se' là giù nascosta,Romagna tua non è, e non fu mai,sanza guerra ne' cuor de' suoi tiranni;ma 'n palese nessuna or vi lasciai.Ravenna sta come stata è molt' anni:l'aguglia da Polenta la si cova,sì che Cervia ricuopre co' suoi vanni.La terra che fé già la lunga provae di Franceschi sanguinoso mucchio,sotto le branche verdi si ritrova.E 'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio,che fecer di Montagna il mal governo,là dove soglion fan d'i denti succhio.Le città di Lamone e di Santernoconduce il lïoncel dal nido bianco,che muta parte da la state al verno.E quella cu' il Savio bagna il fianco,così com' ella sie' tra 'l piano e 'l monte,tra tirannia si vive e stato franco.Ora chi se', ti priego che ne conte;non esser duro più ch'altri sia stato,se 'l nome tuo nel mondo tegna fronte».Poscia che 'l foco alquanto ebbe rugghiatoal modo suo, l'aguta punta mossedi qua, di là, e poi diè cotal fiato:«S'i' credesse che mia risposta fossea persona che mai tornasse al mondo,questa fiamma staria sanza più scosse;ma però che già mai di questo fondonon tornò vivo alcun, s'i' odo il vero,sanza tema d'infamia ti rispondo.Io fui uom d'arme, e poi fui cordigliero,credendomi, sì cinto, fare ammenda;e certo il creder mio venìa intero,se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!,che mi rimise ne le prime colpe;e come e quare, voglio che m'intenda.Mentre ch'io forma fui d'ossa e di polpeche la madre mi diè, l'opere mienon furon leonine, ma di volpe.Li accorgimenti e le coperte vieio seppi tutte, e sì menai lor arte,ch'al fine de la terra il suono uscie.Quando mi vidi giunto in quella partedi mia etade ove ciascun dovrebbecalar le vele e raccoglier le sarte,ciò che pria mi piacëa, allor m'increbbe,e pentuto e confesso mi rendei;ahi miser lasso! e giovato sarebbe.Lo principe d'i novi Farisei,avendo guerra presso a Laterano,e non con Saracin né con Giudei,ché ciascun suo nimico era cristiano,e nessun era stato a vincer Acriné mercatante in terra di Soldano,né sommo officio né ordini sacriguardò in sé, né in me quel capestroche solea fare i suoi cinti più macri.Ma come Costantin chiese Silvestrod'entro Siratti a guerir de la lebbre,così mi chiese questi per maestroa guerir de la sua superba febbre;domandommi consiglio, e io tacettiperché le sue parole parver ebbre.E' poi ridisse: «Tuo cuor non sospetti;finor t'assolvo, e tu m'insegna faresì come Penestrino in terra getti.Lo ciel poss' io serrare e diserrare,come tu sai; però son due le chiaviche 'l mio antecessor non ebbe care».Allor mi pinser li argomenti gravilà 've 'l tacer mi fu avviso 'l peggio,e dissi: «Padre, da che tu mi lavidi quel peccato ov' io mo cader deggio,lunga promessa con l'attender cortoti farà trïunfar ne l'alto seggio».Francesco venne poi, com' io fu' morto,per me; ma un d'i neri cherubinili disse: «Non portar: non mi far torto.Venir se ne dee giù tra ' miei meschiniperché diede 'l consiglio frodolente,dal quale in qua stato li sono a' crini;ch'assolver non si può chi non si pente,né pentere e volere insieme puossiper la contradizion che nol consente».Oh me dolente! come mi riscossiquando mi prese dicendomi: «Forsetu non pensavi ch'io löico fossi!».A Minòs mi portò; e quelli attorseotto volte la coda al dosso duro;e poi che per gran rabbia la si morse,disse: «Questi è d'i rei del foco furo»;per ch'io là dove vedi son perduto,e sì vestito, andando, mi rancuro».Quand' elli ebbe 'l suo dir così compiuto,la fiamma dolorando si partio,torcendo e dibattendo 'l corno aguto.Noi passamm' oltre, e io e 'l duca mio,su per lo scoglio infino in su l'altr' arcoche cuopre 'l fosso in che si paga il fioa quei che scommettendo acquistan carco. |