Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Inferno
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Canto XXVI
Canto XXVI, nel quale si tratta de l'ottava bolgia contro a quelli che mettono aguati e danno frodolenti consigli; e in prima sgrida contro a' fiorentini e tacitamente predice del futuro e in persona d'Ulisse e Diomedes pone loro pene.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, inf. 26.52 (disegno, 1485/90)
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Godi, Fiorenza, poi che se' sì grandeche per mare e per terra batti l'ali,e per lo 'nferno tuo nome si spande!Tra li ladron trovai cinque cotalituoi cittadini onde mi ven vergogna,e tu in grande orranza non ne sali.Ma se presso al mattin del ver si sogna,tu sentirai, di qua da picciol tempo,di quel che Prato, non ch'altri, t'agogna.E se già fosse, non saria per tempo.Così foss' ei, da che pur esser dee!ché più mi graverà, com' più m'attempo.Noi ci partimmo, e su per le scaleeche n'avea fatto iborni a scender pria,rimontò 'l duca mio e trasse mee;e proseguendo la solinga via,tra le schegge e tra ' rocchi de lo scogliolo piè sanza la man non si spedia.Allor mi dolsi, e ora mi ridoglioquando drizzo la mente a ciò ch'io vidi,e più lo 'ngegno affreno ch'i' non soglio,perché non corra che virtù nol guidi;sì che, se stella bona o miglior cosam'ha dato 'l ben, ch'io stessi nol m'invidi.Quante 'l villan ch'al poggio si riposa,nel tempo che colui che 'l mondo schiarala faccia sua a noi tien meno ascosa,come la mosca cede a la zanzara,vede lucciole giù per la vallea,forse colà dov' e' vendemmia e ara:di tante fiamme tutta risplendeal'ottava bolgia, sì com' io m'accorsitosto che fui là 've 'l fondo parea.E qual colui che si vengiò con li orsivide 'l carro d'Elia al dipartire,quando i cavalli al cielo erti levorsi,che nol potea sì con li occhi seguire,ch'el vedesse altro che la fiamma sola,sì come nuvoletta, in sù salire:tal si move ciascuna per la goladel fosso, ché nessuna mostra 'l furto,e ogne fiamma un peccatore invola.Io stava sovra 'l ponte a veder surto,sì che s'io non avessi un ronchion preso,caduto sarei giù sanz' esser urto.E 'l duca che mi vide tanto atteso,disse: «Dentro dai fuochi son li spirti;catun si fascia di quel ch'elli è inceso».«Maestro mio», rispuos' io, «per udirtison io più certo; ma già m'era avvisoche così fosse, e già voleva dirti:chi è 'n quel foco che vien sì divisodi sopra, che par surger de la piradov' Eteòcle col fratel fu miso?».Rispuose a me: «Là dentro si martiraUlisse e Dïomede, e così insiemea la vendetta vanno come a l'ira;e dentro da la lor fiamma si gemel'agguato del caval che fé la portaonde uscì de' Romani il gentil seme.Piangevisi entro l'arte per che, morta,Deïdamìa ancor si duol d'Achille,e del Palladio pena vi si porta».«S'ei posson dentro da quelle favilleparlar», diss' io, «maestro, assai ten priegoe ripriego, che 'l priego vaglia mille,che non mi facci de l'attender niegofin che la fiamma cornuta qua vegna;vedi che del disio ver' lei mi piego!».Ed elli a me: «La tua preghiera è degnadi molta loda, e io però l'accetto;ma fa che la tua lingua si sostegna.Lascia parlare a me, ch'i' ho concettociò che tu vuoi; ch'ei sarebbero schivi,perch' e' fuor greci, forse del tuo detto».Poi che la fiamma fu venuta quividove parve al mio duca tempo e loco,in questa forma lui parlare audivi:«O voi che siete due dentro ad un foco,s'io meritai di voi mentre ch'io vissi,s'io meritai di voi assai o pocoquando nel mondo li alti versi scrissi,non vi movete; ma l'un di voi dicadove, per lui, perduto a morir gissi».Lo maggior corno de la fiamma anticacominciò a crollarsi mormorando,pur come quella cui vento affatica;indi la cima qua e là menando,come fosse la lingua che parlasse,gittò voce di fuori e disse: «Quandomi diparti' da Circe, che sottrasseme più d'un anno là presso a Gaeta,prima che sì Enëa la nomasse,né dolcezza di figlio, né la pietadel vecchio padre, né 'l debito amorelo qual dovea Penelopè far lieta,vincer potero dentro a me l'ardorech'i' ebbi a divenir del mondo espertoe de li vizi umani e del valore;ma misi me per l'alto mare apertosol con un legno e con quella compagnapicciola da la qual non fui diserto.L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna,fin nel Morrocco, e l'isola d'i Sardi,e l'altre che quel mare intorno bagna.Io e ' compagni eravam vecchi e tardiquando venimmo a quella foce strettadov' Ercule segnò li suoi riguardiacciò che l'uom più oltre non si metta;da la man destra mi lasciai Sibilia,da l'altra già m'avea lasciata Setta.«O frati», dissi «che per cento miliaperigli siete giunti a l'occidente,a questa tanto picciola vigiliad'i nostri sensi ch'è del rimanentenon vogliate negar l'esperïenza,di retro al sol, del mondo sanza gente.Considerate la vostra semenza:fatti non foste a viver come bruti,ma per seguir virtute e canoscenza».Li miei compagni fec' io sì aguti,con questa orazion picciola, al cammino,che a pena poscia li avrei ritenuti;e volta nostra poppa nel mattino,de' remi facemmo ali al folle volo,sempre acquistando dal lato mancino.Tutte le stelle già de l'altro polovedea la notte, e 'l nostro tanto basso,che non surgëa fuor del marin suolo.Cinque volte racceso e tante cassolo lume era di sotto da la luna,poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,quando n'apparve una montagna, brunaper la distanza, e parvemi alta tantoquanto veduta non avëa alcuna.Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;ché de la nova terra un turbo nacquee percosse del legno il primo canto.Tre volte il fé girar con tutte l'acque;a la quarta levar la poppa in susoe la prora ire in giù, com' altrui piacque,infin che 'l mar fu sovra noi richiuso». |