Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Inferno
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Canto XXV
Canto XXV, dove si tratta di quella medesima materia che detta è nel capitolo dinanzi a questo, e tratta contr' a' fiorentini, ma in prima sgrida contro a la città di Pistoia; ed è quella medesima bolgia.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, inf. 25.46 (disegno, 1485/90)
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Al fine de le sue parole il ladrole mani alzò con amendue le fiche,gridando: «Togli, Dio, ch'a te le squadro!».Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,perch' una li s'avvolse allora al collo,come dicesse Non vo' che più diche;e un'altra a le braccia, e rilegollo,ribadendo sé stessa sì dinanzi,che non potea con esse dare un crollo.Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzid'incenerarti sì che più non duri,poi che 'n mal fare il seme tuo avanzi?Per tutt' i cerchi de lo 'nferno scurinon vidi spirto in Dio tanto superbo,non quel che cadde a Tebe giù da' muri.El si fuggì che non parlò più verbo;e io vidi un centauro pien di rabbiavenir chiamando: «Ov' è, ov' è l'acerbo?».Maremma non cred' io che tante n'abbia,quante bisce elli avea su per la groppainfin ove comincia nostra labbia.Sovra le spalle, dietro da la coppa,con l'ali aperte li giacea un draco;e quello affuoca qualunque s'intoppa.Lo mio maestro disse: «Questi è Caco,che, sotto 'l sasso di monte Aventino,di sangue fece spesse volte laco.Non va co' suoi fratei per un cammino,per lo furto che frodolente fecedel grande armento ch'elli ebbe a vicino;onde cessar le sue opere biecesotto la mazza d'Ercule, che forsegliene diè cento, e non sentì le diece».Mentre che sì parlava, ed el trascorse,e tre spiriti venner sotto noi,de' quai né io né 'l duca mio s'accorse,se non quando gridar: «Chi siete voi?»;per che nostra novella si ristette,e intendemmo pur ad essi poi.Io non li conoscea; ma ei seguette,come suol seguitar per alcun caso,che l'un nomar un altro convenette,dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»;per ch'io, acciò che 'l duca stesse attento,mi puosi 'l dito su dal mento al naso.Se tu se' or, lettore, a creder lentociò ch'io dirò, non sarà maraviglia,ché io che 'l vidi, a pena il mi consento.Com' io tenea levate in lor le ciglia,e un serpente con sei piè si lanciadinanzi a l'uno, e tutto a lui s'appiglia.Co' piè di mezzo li avvinse la panciae con li anterïor le braccia prese;poi li addentò e l'una e l'altra guancia;li diretani a le cosce distese,e miseli la coda tra 'mbeduee dietro per le ren sù la ritese.Ellera abbarbicata mai non fuead alber sì, come l'orribil fieraper l'altrui membra avviticchiò le sue.Poi s'appiccar, come di calda cerafossero stati, e mischiar lor colore,né l'un né l'altro già parea quel ch'era:come procede innanzi da l'ardore,per lo papiro suso, un color brunoche non è nero ancora e 'l bianco more.Li altri due 'l riguardavano, e ciascunogridava: «Omè, Agnel, come ti muti!Vedi che già non se' né due né uno».Già eran li due capi un divenuti,quando n'apparver due figure mistein una faccia, ov' eran due perduti.Fersi le braccia due di quattro liste;le cosce con le gambe e 'l ventre e 'l cassodivenner membra che non fuor mai viste.Ogne primaio aspetto ivi era casso:due e nessun l'imagine perversaparea; e tal sen gio con lento passo.Come 'l ramarro sotto la gran fersadei dì canicular, cangiando sepe,folgore par se la via attraversa,sì pareva, venendo verso l'epede li altri due, un serpentello acceso,livido e nero come gran di pepe;e quella parte onde prima è presonostro alimento, a l'un di lor trafisse;poi cadde giuso innanzi lui disteso.Lo trafitto 'l mirò, ma nulla disse;anzi, co' piè fermati, sbadigliavapur come sonno o febbre l'assalisse.Elli 'l serpente e quei lui riguardava;l'un per la piaga e l'altro per la boccafummavan forte, e 'l fummo si scontrava.Taccia Lucano ormai là dov' e' toccadel misero Sabello e di Nasidio,e attenda a udir quel ch'or si scocca.Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio,ché se quello in serpente e quella in fonteconverte poetando, io non lo 'nvidio;ché due nature mai a fronte a frontenon trasmutò sì ch'amendue le formea cambiar lor matera fosser pronte.Insieme si rispuosero a tai norme,che 'l serpente la coda in forca fesse,e 'l feruto ristrinse insieme l'orme.Le gambe con le cosce seco stesses'appiccar sì, che 'n poco la giunturanon facea segno alcun che si paresse.Togliea la coda fessa la figurache si perdeva là, e la sua pellesi facea molle, e quella di là dura.Io vidi intrar le braccia per l'ascelle,e i due piè de la fiera, ch'eran corti,tanto allungar quanto accorciavan quelle.Poscia li piè di rietro, insieme attorti,diventaron lo membro che l'uom cela,e 'l misero del suo n'avea due porti.Mentre che 'l fummo l'uno e l'altro veladi color novo, e genera 'l pel susoper l'una parte e da l'altra il dipela,l'un si levò e l'altro cadde giuso,non torcendo però le lucerne empie,sotto le quai ciascun cambiava muso.Quel ch'era dritto, il trasse ver' le tempie,e di troppa matera ch'in là venneuscir li orecchi de le gote scempie;ciò che non corse in dietro e si ritennedi quel soverchio, fé naso a la facciae le labbra ingrossò quanto convenne.Quel che giacëa, il muso innanzi caccia,e li orecchi ritira per la testacome face le corna la lumaccia;e la lingua, ch'avëa unita e prestaprima a parlar, si fende, e la forcutane l'altro si richiude; e 'l fummo resta.L'anima ch'era fiera divenuta,suffolando si fugge per la valle,e l'altro dietro a lui parlando sputa.Poscia li volse le novelle spalle,e disse a l'altro: «I' vo' che Buoso corra,com' ho fatt' io, carpon per questo calle».Così vid' io la settima zavorramutare e trasmutare; e qui mi scusila novità se fior la penna abborra.E avvegna che li occhi miei confusifossero alquanto e l'animo smagato,non poter quei fuggirsi tanto chiusi,ch'i' non scorgessi ben Puccio Sciancato;ed era quel che sol, di tre compagniche venner prima, non era mutato;l'altr' era quel che tu, Gaville, piagni. |