Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Inferno
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Canto XXXI
Canto XXXI, ove tratta de' giganti che guardano il pozzo de l'inferno, ed è il nono cerchio.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, inf. 31.33 (disegno, 1485/90)
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Una medesma lingua pria mi morse,sì che mi tinse l'una e l'altra guancia,e poi la medicina mi riporse;così od' io che solea far la lanciad'Achille e del suo padre esser cagioneprima di trista e poi di buona mancia.Noi demmo il dosso al misero vallonesu per la ripa che 'l cinge dintorno,attraversando sanza alcun sermone.Quiv' era men che notte e men che giorno,sì che 'l viso m'andava innanzi poco;ma io senti' sonare un alto corno,tanto ch'avrebbe ogne tuon fatto fioco,che, contra sé la sua via seguitando,dirizzò li occhi miei tutti ad un loco.Dopo la dolorosa rotta, quandoCarlo Magno perdé la santa gesta,non sonò sì terribilmente Orlando.Poco portäi in là volta la testa,che me parve veder molte alte torri;ond' io: «Maestro, dì, che terra è questa?».Ed elli a me: «Però che tu trascorriper le tenebre troppo da la lungi,avvien che poi nel maginare abborri.Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi,quanto 'l senso s'inganna di lontano;però alquanto più te stesso pungi».Poi caramente mi prese per manoe disse: «Pria che noi siam più avanti,acciò che 'l fatto men ti paia strano,sappi che non son torri, ma giganti,e son nel pozzo intorno da la ripada l'umbilico in giuso tutti quanti».Come quando la nebbia si dissipa,lo sguardo a poco a poco raffiguraciò che cela 'l vapor che l'aere stipa,così forando l'aura grossa e scura,più e più appressando ver' la sponda,fuggiemi errore e cresciemi paura;però che, come su la cerchia tondaMontereggion di torri si corona,così la proda che 'l pozzo circondatorreggiavan di mezza la personali orribili giganti, cui minacciaGiove del cielo ancora quando tuona.E io scorgeva già d'alcun la faccia,le spalle e 'l petto e del ventre gran parte,e per le coste giù ambo le braccia.Natura certo, quando lasciò l'artedi sì fatti animali, assai fé beneper tòrre tali essecutori a Marte.E s'ella d'elefanti e di balenenon si pente, chi guarda sottilmente,più giusta e più discreta la ne tene;ché dove l'argomento de la mentes'aggiugne al mal volere e a la possa,nessun riparo vi può far la gente.La faccia sua mi parea lunga e grossacome la pina di San Pietro a Roma,e a sua proporzione eran l'altre ossa;sì che la ripa, ch'era perizomadal mezzo in giù, ne mostrava ben tantodi sovra, che di giugnere a la chiomatre Frison s'averien dato mal vanto;però ch'i' ne vedea trenta gran palmidal loco in giù dov' omo affibbia 'l manto.«Raphèl maì amècche zabì almi»,cominciò a gridar la fiera bocca,cui non si convenia più dolci salmi.E 'l duca mio ver' lui: «Anima sciocca,tienti col corno, e con quel ti disfogaquand' ira o altra passïon ti tocca!Cércati al collo, e troverai la sogache 'l tien legato, o anima confusa,e vedi lui che 'l gran petto ti doga».Poi disse a me: «Elli stessi s'accusa;questi è Nembrotto per lo cui mal cotopur un linguaggio nel mondo non s'usa.Lasciànlo stare e non parliamo a vòto;ché così è a lui ciascun linguaggiocome 'l suo ad altrui, ch'a nullo è noto».Facemmo adunque più lungo vïaggio,vòlti a sinistra; e al trar d'un balestrotrovammo l'altro assai più fero e maggio.A cigner lui qual che fosse 'l maestro,non so io dir, ma el tenea soccintodinanzi l'altro e dietro il braccio destrod'una catena che 'l tenea avvintodal collo in giù, sì che 'n su lo scopertosi ravvolgëa infino al giro quinto.«Questo superbo volle esser espertodi sua potenza contra 'l sommo Giove»,disse 'l mio duca, «ond' elli ha cotal merto.Fïalte ha nome, e fece le gran provequando i giganti fer paura a' dèi;le braccia ch'el menò, già mai non move».E io a lui: «S'esser puote, io vorreiche de lo smisurato Brïareoesperïenza avesser li occhi mei».Ond' ei rispuose: «Tu vedrai Anteopresso di qui che parla ed è disciolto,che ne porrà nel fondo d'ogne reo.Quel che tu vuo' veder, più là è moltoed è legato e fatto come questo,salvo che più feroce par nel volto».Non fu tremoto già tanto rubesto,che scotesse una torre così forte,come Fïalte a scuotersi fu presto.Allor temett' io più che mai la morte,e non v'era mestier più che la dotta,s'io non avessi viste le ritorte.Noi procedemmo più avante allotta,e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle,sanza la testa, uscia fuor de la grotta.«O tu che ne la fortunata valleche fece Scipïon di gloria reda,quand' Anibàl co' suoi diede le spalle,recasti già mille leon per preda,e che, se fossi stato a l'alta guerrade' tuoi fratelli, ancor par che si credach'avrebber vinto i figli de la terra:mettine giù, e non ten vegna schifo,dove Cocito la freddura serra.Non ci fare ire a Tizio né a Tifo:questi può dar di quel che qui si brama;però ti china e non torcer lo grifo.Ancor ti può nel mondo render fama,ch'el vive, e lunga vita ancor aspettase 'nnanzi tempo grazia a sé nol chiama».Così disse 'l maestro; e quelli in frettale man distese, e prese 'l duca mio,ond' Ercule sentì già grande stretta.Virgilio, quando prender si sentio,disse a me: «Fatti qua, sì ch'io ti prenda»;poi fece sì ch'un fascio era elli e io.Qual pare a riguardar la Carisendasotto 'l chinato, quando un nuvol vadasovr' essa sì, ched ella incontro penda:tal parve Antëo a me che stava a badadi vederlo chinare, e fu tal orach'i' avrei voluto ir per altra strada.Ma lievemente al fondo che divoraLucifero con Giuda, ci sposò;né, sì chinato, lì fece dimora,e come albero in nave si levò. |