Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Inferno
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Canto XVIII
Canto XVIII, ove si descrive come è fatto il luogo di Malebolge e tratta de' ruffiani e ingannatori e lusinghieri, ove dinomina in questa setta messer Venedico Caccianemico da Bologna e Giasone greco e Alessio de li Interminelli da Lucca, e tratta come sono state loro pene.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, inf. 18.79 (disegno, 1485/90)
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Luogo è in inferno detto Malebolge,tutto di pietra di color ferrigno,come la cerchia che dintorno il volge.Nel dritto mezzo del campo malignovaneggia un pozzo assai largo e profondo,di cui suo loco dicerò l'ordigno.Quel cinghio che rimane adunque è tondotra 'l pozzo e 'l piè de l'alta ripa dura,e ha distinto in dieci valli il fondo.Quale, dove per guardia de le murapiù e più fossi cingon li castelli,la parte dove son rende figura,tale imagine quivi facean quelli;e come a tai fortezze da' lor soglia la ripa di fuor son ponticelli,così da imo de la roccia scoglimovien che ricidien li argini e ' fossiinfino al pozzo che i tronca e raccogli.In questo luogo, de la schiena scossidi Gerïon, trovammoci; e 'l poetatenne a sinistra, e io dietro mi mossi.A la man destra vidi nova pieta,novo tormento e novi frustatori,di che la prima bolgia era repleta.Nel fondo erano ignudi i peccatori;dal mezzo in qua ci venien verso 'l volto,di là con noi, ma con passi maggiori,come i Roman per l'essercito molto,l'anno del giubileo, su per lo pontehanno a passar la gente modo colto,che da l'un lato tutti hanno la fronteverso 'l castello e vanno a Santo Pietro,da l'altra sponda vanno verso 'l monte.Di qua, di là, su per lo sasso tetrovidi demon cornuti con gran ferze,che li battien crudelmente di retro.Ahi come facean lor levar le berzea le prime percosse! già nessunole seconde aspettava né le terze.Mentr' io andava, li occhi miei in unofuro scontrati; e io sì tosto dissi:«Già di veder costui non son digiuno».Per ch'ïo a figurarlo i piedi affissi;e 'l dolce duca meco si ristette,e assentio ch'alquanto in dietro gissi.E quel frustato celar si credettebassando 'l viso; ma poco li valse,ch'io dissi: «O tu che l'occhio a terra gette,se le fazion che porti non son false,Venedico se' tu Caccianemico.Ma che ti mena a sì pungenti salse?».Ed elli a me: «Mal volontier lo dico;ma sforzami la tua chiara favella,che mi fa sovvenir del mondo antico.I' fui colui che la Ghisolabellacondussi a far la voglia del marchese,come che suoni la sconcia novella.E non pur io qui piango bolognese;anzi n'è questo loco tanto pieno,che tante lingue non son ora appresea dicer sipa tra Sàvena e Reno;e se di ciò vuoi fede o testimonio,rècati a mente il nostro avaro seno».Così parlando il percosse un demoniode la sua scurïada, e disse: «Via,ruffian! qui non son femmine da conio».I' mi raggiunsi con la scorta mia;poscia con pochi passi divenimmolà 'v' uno scoglio de la ripa uscia.Assai leggeramente quel salimmo;e vòlti a destra su per la sua scheggia,da quelle cerchie etterne ci partimmo.Quando noi fummo là dov' el vaneggiadi sotto per dar passo a li sferzati,lo duca disse: «Attienti, e fa che feggialo viso in te di quest' altri mal nati,ai quali ancor non vedesti la facciaperò che son con noi insieme andati».Del vecchio ponte guardavam la tracciache venìa verso noi da l'altra banda,e che la ferza similmente scaccia.E 'l buon maestro, sanza mia dimanda,mi disse: «Guarda quel grande che vene,e per dolor non par lagrime spanda:quanto aspetto reale ancor ritene!Quelli è Iasón, che per cuore e per sennoli Colchi del monton privati féne.Ello passò per l'isola di Lennopoi che l'ardite femmine spietatetutti li maschi loro a morte dienno.Ivi con segni e con parole ornateIsifile ingannò, la giovinettache prima avea tutte l'altre ingannate.Lasciolla quivi, gravida, soletta;tal colpa a tal martiro lui condanna;e anche di Medea si fa vendetta.Con lui sen va chi da tal parte inganna;e questo basti de la prima vallesapere e di color che 'n sé assanna».Già eravam là 've lo stretto callecon l'argine secondo s'incrocicchia,e fa di quello ad un altr' arco spalle.Quindi sentimmo gente che si nicchiane l'altra bolgia e che col muso scuffa,e sé medesma con le palme picchia.Le ripe eran grommate d'una muffa,per l'alito di giù che vi s'appasta,che con li occhi e col naso facea zuffa.Lo fondo è cupo sì, che non ci bastaloco a veder sanza montare al dossode l'arco, ove lo scoglio più sovrasta.Quivi venimmo; e quindi giù nel fossovidi gente attuffata in uno stercoche da li uman privadi parea mosso.E mentre ch'io là giù con l'occhio cerco,vidi un col capo sì di merda lordo,che non parëa s'era laico o cherco.Quei mi sgridò: «Perché se' tu sì gordodi riguardar più me che li altri brutti?».E io a lui: «Perché, se ben ricordo,già t'ho veduto coi capelli asciutti,e se' Alessio Interminei da Lucca:però t'adocchio più che li altri tutti».Ed elli allor, battendosi la zucca:«Qua giù m'hanno sommerso le lusingheond' io non ebbi mai la lingua stucca».Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe»,mi disse, «il viso un poco più avante,sì che la faccia ben con l'occhio attinghedi quella sozza e scapigliata fanteche là si graffia con l'unghie merdose,e or s'accoscia e ora è in piedi stante.Taïde è, la puttana che rispuoseal drudo suo quando disse Ho io graziegrandi apo te?: Anzi maravigliose!.E quinci sian le nostre viste sazie». |