Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Inferno
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Canto XVII
Canto XVII, nel quale si tratta del discendimento nel luogo detto Malebolge, che è l'ottavo cerchio de l'inferno; ancora fa proemio alquanto di quelli che sono nel settimo circulo; e quivi si truova il demonio Gerione sopra 'l quale passaro il fiume; e quivi parlò Dante ad alcuni prestatori e usurai del settimo cerchio.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, inf. 17.78 (disegno, 1485/90)
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«Ecco la fiera con la coda aguzza,che passa i monti e rompe i muri e l'armi!Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza!».Sì cominciò lo mio duca a parlarmi;e accennolle che venisse a proda,vicino al fin d'i passeggiati marmi.E quella sozza imagine di frodasen venne, e arrivò la testa e 'l busto,ma 'n su la riva non trasse la coda.La faccia sua era faccia d'uom giusto,tanto benigna avea di fuor la pelle,e d'un serpente tutto l'altro fusto;due branche avea pilose insin l'ascelle;lo dosso e 'l petto e ambedue le costedipinti avea di nodi e di rotelle.Con più color, sommesse e sovrapostenon fer mai drappi Tartari né Turchi,né fuor tai tele per Aragne imposte.Come talvolta stanno a riva i burchi,che parte sono in acqua e parte in terra,e come là tra li Tedeschi lurchilo bivero s'assetta a far sua guerra,così la fiera pessima si stavasu l'orlo ch'è di pietra e 'l sabbion serra.Nel vano tutta sua coda guizzava,torcendo in sù la venenosa forcach'a guisa di scorpion la punta armava.Lo duca disse: «Or convien che si torcala nostra via un poco insino a quellabestia malvagia che colà si corca».Però scendemmo a la destra mammella,e diece passi femmo in su lo stremo,per ben cessar la rena e la fiammella.E quando noi a lei venuti semo,poco più oltre veggio in su la renagente seder propinqua al loco scemo.Quivi 'l maestro «Acciò che tutta pienaesperïenza d'esto giron porti»,mi disse, «va, e vedi la lor mena.Li tuoi ragionamenti sian là corti;mentre che torni, parlerò con questa,che ne conceda i suoi omeri forti».Così ancor su per la strema testadi quel settimo cerchio tutto soloandai, dove sedea la gente mesta.Per li occhi fora scoppiava lor duolo;di qua, di là soccorrien con le maniquando a' vapori, e quando al caldo suolo:non altrimenti fan di state i canior col ceffo or col piè, quando son morsio da pulci o da mosche o da tafani.Poi che nel viso a certi li occhi porsi,ne' quali 'l doloroso foco casca,non ne conobbi alcun; ma io m'accorsiche dal collo a ciascun pendea una tascach'avea certo colore e certo segno,e quindi par che 'l loro occhio si pasca.E com' io riguardando tra lor vegno,in una borsa gialla vidi azzurroche d'un leone avea faccia e contegno.Poi, procedendo di mio sguardo il curro,vidine un'altra come sangue rossa,mostrando un'oca bianca più che burro.E un che d'una scrofa azzurra e grossasegnato avea lo suo sacchetto bianco,mi disse: «Che fai tu in questa fossa?Or te ne va; e perché se' vivo anco,sappi che 'l mio vicin Vitalïanosederà qui dal mio sinistro fianco.Con questi Fiorentin son padoano:spesse fïate mi 'ntronan li orecchigridando: «Vegna 'l cavalier sovrano,che recherà la tasca con tre becchi!»».Qui distorse la bocca e di fuor trassela lingua, come bue che 'l naso lecchi.E io, temendo no 'l più star crucciasselui che di poco star m'avea 'mmonito,torna'mi in dietro da l'anime lasse.Trova' il duca mio ch'era salitogià su la groppa del fiero animale,e disse a me: «Or sie forte e ardito.Omai si scende per sì fatte scale;monta dinanzi, ch'i' voglio esser mezzo,sì che la coda non possa far male».Qual è colui che sì presso ha 'l riprezzode la quartana, c'ha già l'unghie smorte,e triema tutto pur guardando 'l rezzo,tal divenn' io a le parole porte;ma vergogna mi fé le sue minacce,che innanzi a buon segnor fa servo forte.I' m'assettai in su quelle spallacce;sì volli dir, ma la voce non vennecom' io credetti: Fa che tu m'abbracce.Ma esso, ch'altra volta mi sovvennead altro forse, tosto ch'i' montaicon le braccia m'avvinse e mi sostenne;e disse: «Gerïon, moviti omai:le rote larghe, e lo scender sia poco;pensa la nova soma che tu hai».Come la navicella esce di locoin dietro in dietro, sì quindi si tolse;e poi ch'al tutto si sentì a gioco,là 'v' era 'l petto, la coda rivolse,e quella tesa, come anguilla, mosse,e con le branche l'aere a sé raccolse.Maggior paura non credo che fossequando Fetonte abbandonò li freni,per che 'l ciel, come pare ancor, si cosse;né quando Icaro misero le renisentì spennar per la scaldata cera,gridando il padre a lui «Mala via tieni!»,che fu la mia, quando vidi ch'i' erane l'aere d'ogne parte, e vidi spentaogne veduta fuor che de la fera.Ella sen va notando lenta lenta;rota e discende, ma non me n'accorgose non che al viso e di sotto mi venta.Io sentia già da la man destra il gorgofar sotto noi un orribile scroscio,per che con li occhi 'n giù la testa sporgo.Allor fu' io più timido a lo stoscio,però ch'i' vidi fuochi e senti' pianti;ond' io tremando tutto mi raccoscio.E vidi poi, ché nol vedea davanti,lo scendere e 'l girar per li gran maliche s'appressavan da diversi canti.Come 'l falcon ch'è stato assai su l'ali,che sanza veder logoro o uccellofa dire al falconiere «Omè, tu cali!»,discende lasso onde si move isnello,per cento rote, e da lunge si ponedal suo maestro, disdegnoso e fello;così ne puose al fondo Gerïoneal piè al piè de la stagliata rocca,e, discarcate le nostre persone,si dileguò come da corda cocca. |