Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Inferno
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Canto XVI
Canto XVI, ove tratta di quello medesimo girone e di quello medesimo cerchio e di quello medesimo peccato.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, inf. 16.39 (disegno, 1485/90)
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Già era in loco onde s'udia 'l rimbombode l'acqua che cadea ne l'altro giro,simile a quel che l'arnie fanno rombo,quando tre ombre insieme si partiro,correndo, d'una torma che passavasotto la pioggia de l'aspro martiro.Venian ver' noi, e ciascuna gridava:«Sòstati tu ch'a l'abito ne sembriesser alcun di nostra terra prava».Ahimè, che piaghe vidi ne' lor membri,ricenti e vecchie, da le fiamme incese!Ancor men duol pur ch'i' me ne rimembri.A le lor grida il mio dottor s'attese;volse 'l viso ver' me, e «Or aspetta»,disse, «a costor si vuole esser cortese.E se non fosse il foco che saettala natura del loco, i' dicereiche meglio stesse a te che a lor la fretta».Ricominciar, come noi restammo, eil'antico verso; e quando a noi fuor giunti,fenno una rota di sé tutti e trei.Qual sogliono i campion far nudi e unti,avvisando lor presa e lor vantaggio,prima che sien tra lor battuti e punti,così rotando, ciascuno il visaggiodrizzava a me, sì che 'n contraro il collofaceva ai piè continüo vïaggio.E «Se miseria d'esto loco sollorende in dispetto noi e nostri prieghi»,cominciò l'uno, «e 'l tinto aspetto e brollo,la fama nostra il tuo animo pieghia dirne chi tu se', che i vivi piedicosì sicuro per lo 'nferno freghi.Questi, l'orme di cui pestar mi vedi,tutto che nudo e dipelato vada,fu di grado maggior che tu non credi:nepote fu de la buona Gualdrada;Guido Guerra ebbe nome, e in sua vitafece col senno assai e con la spada.L'altro, ch'appresso me la rena trita,è Tegghiaio Aldobrandi, la cui vocenel mondo sù dovria esser gradita.E io, che posto son con loro in croce,Iacopo Rusticucci fui, e certola fiera moglie più ch'altro mi nuoce».S'i' fossi stato dal foco coperto,gittato mi sarei tra lor di sotto,e credo che 'l dottor l'avria sofferto;ma perch' io mi sarei brusciato e cotto,vinse paura la mia buona vogliache di loro abbracciar mi facea ghiotto.Poi cominciai: «Non dispetto, ma dogliala vostra condizion dentro mi fisse,tanta che tardi tutta si dispoglia,tosto che questo mio segnor mi disseparole per le quali i' mi pensaiche qual voi siete, tal gente venisse.Di vostra terra sono, e sempre mail'ovra di voi e li onorati nomicon affezion ritrassi e ascoltai.Lascio lo fele e vo per dolci pomipromessi a me per lo verace duca;ma 'nfino al centro pria convien ch'i' tomi».«Se lungamente l'anima conducale membra tue», rispuose quelli ancora,«e se la fama tua dopo te luca,cortesia e valor dì se dimorane la nostra città sì come suole,o se del tutto se n'è gita fora;ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duolecon noi per poco e va là coi compagni,assai ne cruccia con le sue parole».«La gente nuova e i sùbiti guadagniorgoglio e dismisura han generata,Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni».Così gridai con la faccia levata;e i tre, che ciò inteser per risposta,guardar l'un l'altro com' al ver si guata.«Se l'altre volte sì poco ti costa»,rispuoser tutti, «il satisfare altrui,felice te se sì parli a tua posta!Però, se campi d'esti luoghi buie torni a riveder le belle stelle,quando ti gioverà dicere «I' fui»,fa che di noi a la gente favelle».Indi rupper la rota, e a fuggirsiali sembiar le gambe loro isnelle.Un amen non saria possuto dirsitosto così com' e' fuoro spariti;per ch'al maestro parve di partirsi.Io lo seguiva, e poco eravam iti,che 'l suon de l'acqua n'era sì vicino,che per parlar saremmo a pena uditi.Come quel fiume c'ha proprio camminoprima dal Monte Viso 'nver' levante,da la sinistra costa d'Apennino,che si chiama Acquacheta suso, avanteche si divalli giù nel basso letto,e a Forlì di quel nome è vacante,rimbomba là sovra San Benedettode l'Alpe per cadere ad una scesaove dovea per mille esser recetto;così, giù d'una ripa discoscesa,trovammo risonar quell' acqua tinta,sì che 'n poc' ora avria l'orecchia offesa.Io avea una corda intorno cinta,e con essa pensai alcuna voltaprender la lonza a la pelle dipinta.Poscia ch'io l'ebbi tutta da me sciolta,sì come 'l duca m'avea comandato,porsila a lui aggroppata e ravvolta.Ond' ei si volse inver' lo destro lato,e alquanto di lunge da la spondala gittò giuso in quell' alto burrato.E' pur convien che novità risponda,dicea fra me medesmo, al novo cennoche 'l maestro con l'occhio sì seconda.Ahi quanto cauti li uomini esser diennopresso a color che non veggion pur l'ovra,ma per entro i pensier miran col senno!El disse a me: «Tosto verrà di sovraciò ch'io attendo e che il tuo pensier sogna;tosto convien ch'al tuo viso si scovra».Sempre a quel ver c'ha faccia di menzognade' l'uom chiuder le labbra fin ch'el puote,però che sanza colpa fa vergogna;ma qui tacer nol posso; e per le notedi questa comedìa, lettor, ti giuro,s'elle non sien di lunga grazia vòte,ch'i' vidi per quell' aere grosso e scurovenir notando una figura in suso,maravigliosa ad ogne cor sicuro,sì come torna colui che va giusotalora a solver l'àncora ch'aggrappao scoglio o altro che nel mare è chiuso,che 'n sù si stende e da piè si rattrappa. |