Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Inferno
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Canto VI
Canto sesto, nel quale mostra del terzo cerchio de l'inferno e tratta del punimento del vizio de la gola, e massimamente in persona d'un fiorentino chiamato Ciacco; in confusione di tutt'i buffoni tratta del dimonio Cerbero e narra in forma di predicere più cose a divenire a la città di Fiorenza.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, inf. 6.13 (disegno, 1485/90)
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Al tornar de la mente, che si chiusedinanzi a la pietà d'i due cognati,che di trestizia tutto mi confuse,novi tormenti e novi tormentatimi veggio intorno, come ch'io mi movae ch'io mi volga, e come che io guati.Io sono al terzo cerchio, de la piovaetterna, maladetta, fredda e greve;regola e qualità mai non l'è nova.Grandine grossa, acqua tinta e neveper l'aere tenebroso si riversa;pute la terra che questo riceve.Cerbero, fiera crudele e diversa,con tre gole caninamente latrasovra la gente che quivi è sommersa.Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,e 'l ventre largo, e unghiate le mani;graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.Urlar li fa la pioggia come cani;de l'un de' lati fanno a l'altro schermo;volgonsi spesso i miseri profani.Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,le bocche aperse e mostrocci le sanne;non avea membro che tenesse fermo.E 'l duca mio distese le sue spanne,prese la terra, e con piene le pugnala gittò dentro a le bramose canne.Qual è quel cane ch'abbaiando agogna,e si racqueta poi che 'l pasto morde,ché solo a divorarlo intende e pugna,cotai si fecer quelle facce lordede lo demonio Cerbero, che 'ntronal'anime sì, ch'esser vorrebber sorde.Noi passavam su per l'ombre che adonala greve pioggia, e ponavam le piantesovra lor vanità che par persona.Elle giacean per terra tutte quante,fuor d'una ch'a seder si levò, rattoch'ella ci vide passarsi davante.«O tu che se' per questo 'nferno tratto»,mi disse, «riconoscimi, se sai:tu fosti, prima ch'io disfatto, fatto».E io a lui: «L'angoscia che tu haiforse ti tira fuor de la mia mente,sì che non par ch'i' ti vedessi mai.Ma dimmi chi tu se' che 'n sì dolenteloco se' messo, e hai sì fatta pena,che, s'altra è maggio, nulla è sì spiacente».Ed elli a me: «La tua città, ch'è pienad'invidia sì che già trabocca il sacco,seco mi tenne in la vita serena.Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:per la dannosa colpa de la gola,come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.E io anima trista non son sola,ché tutte queste a simil pena stannoper simil colpa». E più non fé parola.Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affannomi pesa sì, ch'a lagrimar mi 'nvita;ma dimmi, se tu sai, a che verrannoli cittadin de la città partita;s'alcun v'è giusto; e dimmi la cagioneper che l'ha tanta discordia assalita».E quelli a me: «Dopo lunga tencioneverranno al sangue, e la parte selvaggiacaccerà l'altra con molta offensione.Poi appresso convien che questa caggiainfra tre soli, e che l'altra sormonticon la forza di tal che testé piaggia.Alte terrà lungo tempo le fronti,tenendo l'altra sotto gravi pesi,come che di ciò pianga o che n'aonti.Giusti son due, e non vi sono intesi;superbia, invidia e avarizia sonole tre faville c'hanno i cuori accesi».Qui puose fine al lagrimabil suono.E io a lui: «Ancor vo' che mi 'nsegnie che di più parlar mi facci dono.Farinata e 'l Tegghiaio, che fuor sì degni,Iacopo Rusticucci, Arrigo e 'l Moscae li altri ch'a ben far puoser li 'ngegni,dimmi ove sono e fa ch'io li conosca;ché gran disio mi stringe di saverese 'l ciel li addolcia o lo 'nferno li attosca».E quelli: «Ei son tra l'anime più nere;diverse colpe giù li grava al fondo:se tanto scendi, là i potrai vedere.Ma quando tu sarai nel dolce mondo,priegoti ch'a la mente altrui mi rechi:più non ti dico e più non ti rispondo».Li diritti occhi torse allora in biechi;guardommi un poco e poi chinò la testa:cadde con essa a par de li altri ciechi.E 'l duca disse a me: «Più non si destadi qua dal suon de l'angelica tromba,quando verrà la nimica podesta:ciascun rivederà la trista tomba,ripiglierà sua carne e sua figura,udirà quel ch'in etterno rimbomba».Sì trapassammo per sozza misturade l'ombre e de la pioggia, a passi lenti,toccando un poco la vita futura;per ch'io dissi: «Maestro, esti tormenticrescerann' ei dopo la gran sentenza,o fier minori, o saran sì cocenti?».Ed elli a me: «Ritorna a tua scïenza,che vuol, quanto la cosa è più perfetta,più senta il bene, e così la doglienza.Tutto che questa gente maladettain vera perfezion già mai non vada,di là più che di qua essere aspetta».Noi aggirammo a tondo quella strada,parlando più assai ch'i' non ridico;venimmo al punto dove si digrada:quivi trovammo Pluto, il gran nemico. |