Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Inferno
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Canto V
Canto quinto, nel quale mostra del secondo cerchio de l'inferno, e tratta de la pena del vizio de la lussuria ne la persona di più famosi gentili uomini.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, inf. 5.26 (disegno, 1485/90)
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Così discesi del cerchio primaiogiù nel secondo, che men loco cinghiae tanto più dolor, che punge a guaio.Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:essamina le colpe ne l'intrata;giudica e manda secondo ch'avvinghia.Dico che quando l'anima mal natali vien dinanzi, tutta si confessa;e quel conoscitor de le peccatavede qual loco d'inferno è da essa;cignesi con la coda tante voltequantunque gradi vuol che giù sia messa.Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:vanno a vicenda ciascuna al giudizio,dicono e odono e poi son giù volte.«O tu che vieni al doloroso ospizio»,disse Minòs a me quando mi vide,lasciando l'atto di cotanto offizio,«guarda com' entri e di cui tu ti fide;non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!».E 'l duca mio a lui: «Perché pur gride?Non impedir lo suo fatale andare:vuolsi così colà dove si puoteciò che si vuole, e più non dimandare».Or incomincian le dolenti notea farmisi sentire; or son venutolà dove molto pianto mi percuote.Io venni in loco d'ogne luce muto,che mugghia come fa mar per tempesta,se da contrari venti è combattuto.La bufera infernal, che mai non resta,mena li spirti con la sua rapina;voltando e percotendo li molesta.Quando giungon davanti a la ruina,quivi le strida, il compianto, il lamento;bestemmian quivi la virtù divina.Intesi ch'a così fatto tormentoenno dannati i peccator carnali,che la ragion sommettono al talento.E come li stornei ne portan l'alinel freddo tempo, a schiera larga e piena,così quel fiato li spiriti malidi qua, di là, di giù, di sù li mena;nulla speranza li conforta mai,non che di posa, ma di minor pena.E come i gru van cantando lor lai,faccendo in aere di sé lunga riga,così vid' io venir, traendo guai,ombre portate da la detta briga;per ch'i' dissi: «Maestro, chi son quellegenti che l'aura nera sì gastiga?».«La prima di color di cui novelletu vuo' saper», mi disse quelli allotta,«fu imperadrice di molte favelle.A vizio di lussuria fu sì rotta,che libito fé licito in sua legge,per tòrre il biasmo in che era condotta.Ell' è Semiramìs, di cui si leggeche succedette a Nino e fu sua sposa:tenne la terra che 'l Soldan corregge.L'altra è colei che s'ancise amorosa,e ruppe fede al cener di Sicheo;poi è Cleopatràs lussurïosa.Elena vedi, per cui tanto reotempo si volse, e vedi 'l grande Achille,che con amore al fine combatteo.Vedi Parìs, Tristano»; e più di milleombre mostrommi e nominommi a dito,ch'amor di nostra vita dipartille.Poscia ch'io ebbi 'l mio dottore uditonomar le donne antiche e ' cavalieri,pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.I' cominciai: «Poeta, volontieriparlerei a quei due che 'nsieme vanno,e paion sì al vento esser leggeri».Ed elli a me: «Vedrai quando sarannopiù presso a noi; e tu allor li priegaper quello amor che i mena, ed ei verranno».Sì tosto come il vento a noi li piega,mossi la voce: «O anime affannate,venite a noi parlar, s'altri nol niega!».Quali colombe dal disio chiamatecon l'ali alzate e ferme al dolce nidovegnon per l'aere, dal voler portate;cotali uscir de la schiera ov' è Dido,a noi venendo per l'aere maligno,sì forte fu l'affettüoso grido.«O animal grazïoso e benignoche visitando vai per l'aere personoi che tignemmo il mondo di sanguigno,se fosse amico il re de l'universo,noi pregheremmo lui de la tua pace,poi c'hai pietà del nostro mal perverso.Di quel che udire e che parlar vi piace,noi udiremo e parleremo a voi,mentre che 'l vento, come fa, ci tace.Siede la terra dove nata fuisu la marina dove 'l Po discendeper aver pace co' seguaci sui.Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,prese costui de la bella personache mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.Amor, ch'a nullo amato amar perdona,mi prese del costui piacer sì forte,che, come vedi, ancor non m'abbandona.Amor condusse noi ad una morte.Caina attende chi a vita ci spense».Queste parole da lor ci fuor porte.Quand' io intesi quell' anime offense,china' il viso, e tanto il tenni basso,fin che 'l poeta mi disse: «Che pense?».Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,quanti dolci pensier, quanto disiomenò costoro al doloroso passo!».Poi mi rivolsi a loro e parla' io,e cominciai: «Francesca, i tuoi martìria lagrimar mi fanno tristo e pio.Ma dimmi: al tempo d'i dolci sospiri,a che e come concedette amoreche conosceste i dubbiosi disiri?».E quella a me: «Nessun maggior doloreche ricordarsi del tempo felicene la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore.Ma s'a conoscer la prima radicedel nostro amor tu hai cotanto affetto,dirò come colui che piange e dice.Noi leggiavamo un giorno per dilettodi Lancialotto come amor lo strinse;soli eravamo e sanza alcun sospetto.Per più fïate li occhi ci sospinsequella lettura, e scolorocci il viso;ma solo un punto fu quel che ci vinse.Quando leggemmo il disïato risoesser basciato da cotanto amante,questi, che mai da me non fia diviso,la bocca mi basciò tutto tremante.Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse:quel giorno più non vi leggemmo avante».Mentre che l'uno spirto questo disse,l'altro piangëa; sì che di pietadeio venni men così com' io morisse.E caddi come corpo morto cade. |