Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Inferno
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Canto IV
Canto quarto, nel quale mostra del primo cerchio de l'inferno, luogo detto Limbo, e quivi tratta de la pena de' non battezzati e de' valenti uomini, li quali moriron innanzi l'avvenimento di Gesù Cristo e non conobbero debitamente Idio; e come Iesù Cristo trasse di questo luogo molte anime.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, inf. 4.106 (disegno, 1485/90)
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Ruppemi l'alto sonno ne la testaun greve truono, sì ch'io mi riscossicome persona ch'è per forza desta;e l'occhio riposato intorno mossi,dritto levato, e fiso riguardaiper conoscer lo loco dov' io fossi.Vero è che 'n su la proda mi trovaide la valle d'abisso dolorosache 'ntrono accoglie d'infiniti guai.Oscura e profonda era e nebulosatanto che, per ficcar lo viso a fondo,io non vi discernea alcuna cosa.«Or discendiam qua giù nel cieco mondo»,cominciò il poeta tutto smorto.«Io sarò primo, e tu sarai secondo».E io, che del color mi fui accorto,dissi: «Come verrò, se tu paventiche suoli al mio dubbiare esser conforto?».Ed elli a me: «L'angoscia de le gentiche son qua giù, nel viso mi dipignequella pietà che tu per tema senti.Andiam, ché la via lunga ne sospigne».Così si mise e così mi fé intrarenel primo cerchio che l'abisso cigne.Quivi, secondo che per ascoltare,non avea pianto mai che di sospiriche l'aura etterna facevan tremare;ciò avvenia di duol sanza martìri,ch'avean le turbe, ch'eran molte e grandi,d'infanti e di femmine e di viri.Lo buon maestro a me: «Tu non dimandiche spiriti son questi che tu vedi?Or vo' che sappi, innanzi che più andi,ch'ei non peccaro; e s'elli hanno mercedi,non basta, perché non ebber battesmo,ch'è porta de la fede che tu credi;e s'e' furon dinanzi al cristianesmo,non adorar debitamente a Dio:e di questi cotai son io medesmo.Per tai difetti, non per altro rio,semo perduti, e sol di tanto offesiche sanza speme vivemo in disio».Gran duol mi prese al cor quando lo 'ntesi,però che gente di molto valoreconobbi che 'n quel limbo eran sospesi.«Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore»,comincia' io per voler esser certodi quella fede che vince ogne errore:«uscicci mai alcuno, o per suo mertoo per altrui, che poi fosse beato?».E quei che 'ntese il mio parlar coverto,rispuose: «Io era nuovo in questo stato,quando ci vidi venire un possente,con segno di vittoria coronato.Trasseci l'ombra del primo parente,d'Abèl suo figlio e quella di Noè,di Moïsè legista e ubidente;Abraàm patrïarca e Davìd re,Israèl con lo padre e co' suoi natie con Rachele, per cui tanto fé,e altri molti, e feceli beati.E vo' che sappi che, dinanzi ad essi,spiriti umani non eran salvati».Non lasciavam l'andar perch' ei dicessi,ma passavam la selva tuttavia,la selva, dico, di spiriti spessi.Non era lunga ancor la nostra viadi qua dal sonno, quand' io vidi un fococh'emisperio di tenebre vincia.Di lungi n'eravamo ancora un poco,ma non sì ch'io non discernessi in partech'orrevol gente possedea quel loco.«O tu ch'onori scïenzïa e arte,questi chi son c'hanno cotanta onranza,che dal modo de li altri li diparte?».E quelli a me: «L'onrata nominanzache di lor suona sù ne la tua vita,grazïa acquista in ciel che sì li avanza».Intanto voce fu per me udita:«Onorate l'altissimo poeta;l'ombra sua torna, ch'era dipartita».Poi che la voce fu restata e queta,vidi quattro grand' ombre a noi venire:sembianz' avevan né trista né lieta.Lo buon maestro cominciò a dire:«Mira colui con quella spada in mano,che vien dinanzi ai tre sì come sire:quelli è Omero poeta sovrano;l'altro è Orazio satiro che vene;Ovidio è 'l terzo, e l'ultimo Lucano.Però che ciascun meco si convenenel nome che sonò la voce sola,fannomi onore, e di ciò fanno bene».Così vid' i' adunar la bella scoladi quel segnor de l'altissimo cantoche sovra li altri com' aquila vola.Da ch'ebber ragionato insieme alquanto,volsersi a me con salutevol cenno,e 'l mio maestro sorrise di tanto;e più d'onore ancora assai mi fenno,ch'e' sì mi fecer de la loro schiera,sì ch'io fui sesto tra cotanto senno.Così andammo infino a la lumera,parlando cose che 'l tacere è bello,sì com' era 'l parlar colà dov' era.Venimmo al piè d'un nobile castello,sette volte cerchiato d'alte mura,difeso intorno d'un bel fiumicello.Questo passammo come terra dura;per sette porte intrai con questi savi:giugnemmo in prato di fresca verdura.Genti v'eran con occhi tardi e gravi,di grande autorità ne' lor sembianti:parlavan rado, con voci soavi.Traemmoci così da l'un de' canti,in loco aperto, luminoso e alto,sì che veder si potien tutti quanti.Colà diritto, sovra 'l verde smalto,mi fuor mostrati li spiriti magni,che del vedere in me stesso m'essalto.I' vidi Eletra con molti compagni,tra ' quai conobbi Ettòr ed Enea,Cesare armato con li occhi grifagni.Vidi Cammilla e la Pantasilea;da l'altra parte vidi 'l re Latinoche con Lavina sua figlia sedea.Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia;e solo, in parte, vidi 'l Saladino.Poi ch'innalzai un poco più le ciglia,vidi 'l maestro di color che sannoseder tra filosofica famiglia.Tutti lo miran, tutti onor li fanno:quivi vid' ïo Socrate e Platone,che 'nnanzi a li altri più presso li stanno;Democrito che 'l mondo a caso pone,Dïogenès, Anassagora e Tale,Empedoclès, Eraclito e Zenone;e vidi il buono accoglitor del quale,Dïascoride dico; e vidi Orfeo,Tulïo e Lino e Seneca morale;Euclide geomètra e Tolomeo,Ipocràte, Avicenna e Galïeno,Averoìs, che 'l gran comento feo.Io non posso ritrar di tutti a pieno,però che sì mi caccia il lungo tema,che molte volte al fatto il dir vien meno.La sesta compagnia in due si scema:per altra via mi mena il savio duca,fuor de la queta, ne l'aura che trema.E vegno in parte ove non è che luca. |