Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Inferno
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Canto VII
Canto settimo, dove si dimostra del quarto cerchio de l'inferno e alquanto del quinto; qui pone la pena del peccato de l'avarizia e del vizio de la prodigalità; e del dimonio Pluto; e quello che è fortuna.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, inf. 7.25 (disegno, 1485/90)
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«Pape Satàn, pape Satàn aleppe!»,cominciò Pluto con la voce chioccia;e quel savio gentil, che tutto seppe,disse per confortarmi: «Non ti nocciala tua paura; ché, poder ch'elli abbia,non ci torrà lo scender questa roccia».Poi si rivolse a quella 'nfiata labbia,e disse: «Taci, maladetto lupo!consuma dentro te con la tua rabbia.Non è sanza cagion l'andare al cupo:vuolsi ne l'alto, là dove Michelefé la vendetta del superbo strupo».Quali dal vento le gonfiate velecaggiono avvolte, poi che l'alber fiacca,tal cadde a terra la fiera crudele.Così scendemmo ne la quarta lacca,pigliando più de la dolente ripache 'l mal de l'universo tutto insacca.Ahi giustizia di Dio! tante chi stipanove travaglie e pene quant' io viddi?e perché nostra colpa sì ne scipa?Come fa l'onda là sovra Cariddi,che si frange con quella in cui s'intoppa,così convien che qui la gente riddi.Qui vid' i' gente più ch'altrove troppa,e d'una parte e d'altra, con grand' urli,voltando pesi per forza di poppa.Percotëansi 'ncontro; e poscia pur lìsi rivolgea ciascun, voltando a retro,gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?».Così tornavan per lo cerchio tetroda ogne mano a l'opposito punto,gridandosi anche loro ontoso metro;poi si volgea ciascun, quand' era giunto,per lo suo mezzo cerchio a l'altra giostra.E io, ch'avea lo cor quasi compunto,dissi: «Maestro mio, or mi dimostrache gente è questa, e se tutti fuor cherciquesti chercuti a la sinistra nostra».Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guercisì de la mente in la vita primaia,che con misura nullo spendio ferci.Assai la voce lor chiaro l'abbaia,quando vegnono a' due punti del cerchiodove colpa contraria li dispaia.Questi fuor cherci, che non han coperchiopiloso al capo, e papi e cardinali,in cui usa avarizia il suo soperchio».E io: «Maestro, tra questi cotalidovre' io ben riconoscere alcuniche furo immondi di cotesti mali».Ed elli a me: «Vano pensiero aduni:la sconoscente vita che i fé sozzi,ad ogne conoscenza or li fa bruni.In etterno verranno a li due cozzi:questi resurgeranno del sepulcrocol pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.Mal dare e mal tener lo mondo pulcroha tolto loro, e posti a questa zuffa:qual ella sia, parole non ci appulcro.Or puoi, figliuol, veder la corta buffad'i ben che son commessi a la fortuna,per che l'umana gente si rabbuffa;ché tutto l'oro ch'è sotto la lunae che già fu, di quest' anime stanchenon poterebbe farne posare una».«Maestro mio», diss' io, «or mi dì anche:questa fortuna di che tu mi tocche,che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?».E quelli a me: «Oh creature sciocche,quanta ignoranza è quella che v'offende!Or vo' che tu mia sentenza ne 'mbocche.Colui lo cui saver tutto trascende,fece li cieli e diè lor chi conducesì, ch'ogne parte ad ogne parte splende,distribuendo igualmente la luce.Similemente a li splendor mondaniordinò general ministra e duceche permutasse a tempo li ben vanidi gente in gente e d'uno in altro sangue,oltre la difension d'i senni umani;per ch'una gente impera e l'altra langue,seguendo lo giudicio di costei,che è occulto come in erba l'angue.Vostro saver non ha contasto a lei:questa provede, giudica, e perseguesuo regno come il loro li altri dèi.Le sue permutazion non hanno triegue:necessità la fa esser veloce;sì spesso vien chi vicenda consegue.Quest' è colei ch'è tanto posta in crocepur da color che le dovrien dar lode,dandole biasmo a torto e mala voce;ma ella s'è beata e ciò non ode:con l'altre prime creature lietavolve sua spera e beata si gode.Or discendiamo omai a maggior pieta;già ogne stella cade che salivaquand' io mi mossi, e 'l troppo star si vieta».Noi ricidemmo il cerchio a l'altra rivasovr' una fonte che bolle e riversaper un fossato che da lei deriva.L'acqua era buia assai più che persa;e noi, in compagnia de l'onde bige,intrammo giù per una via diversa.In la palude va c'ha nome Stigequesto tristo ruscel, quand' è discesoal piè de le maligne piagge grige.E io, che di mirare stava inteso,vidi genti fangose in quel pantano,ignude tutte, con sembiante offeso.Queste si percotean non pur con mano,ma con la testa e col petto e coi piedi,troncandosi co' denti a brano a brano.Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedil'anime di color cui vinse l'ira;e anche vo' che tu per certo crediche sotto l'acqua è gente che sospira,e fanno pullular quest' acqua al summo,come l'occhio ti dice, u' che s'aggira.Fitti nel limo dicon: «Tristi fummone l'aere dolce che dal sol s'allegra,portando dentro accidïoso fummo:or ci attristiam ne la belletta negra».Quest' inno si gorgoglian ne la strozza,ché dir nol posson con parola integra».Così girammo de la lorda pozzagrand' arco tra la ripa secca e 'l mézzo,con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.Venimmo al piè d'una torre al da sezzo. |