Silvio Pellico
1789 - 1854
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Le mie prigioni
1832
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Capo LXVIII.
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UNA sera, Oroboni ed io stavamo alla finestra, e ci dolevamo a vicenda d'essere affamati. Alzammo alquanto la voce, e le sentinelle gridarono. Il soprintendente, che per mala ventura passava da quella parte, si credette in dovere di far chiamare Schiller e di rampognarlo fieramente, che non vigilasse meglio a tenerci in silenzio.Schiller venne con grand'ira a lagnarsene da me, e m'intimò di non parlar più mai dalla finestra. Voleva ch'io glielo promettessi.– No, risposi, non ve lo voglio promettere.– Oh der Teufel! der Teufel! gridò, a me s'ha a dire: non voglio! a me che ricevo una maledetta strapazzata per causa di lei!– M'incresce, caro Schiller, della strapazzata che avete ricevuta, me n'incresce davvero; ma non voglio promettere ciò che sento che non manterrei.– E perché non lo manterrebbe? [235]– Perchè non potrei; perchè la solitudine continua è tormento sì crudele per me, che non resisterò mai al bisogno di mettere qualche voce da' polmoni, d'invitare il mio vicino a rispondermi. E se il vicino tacesse, volgerei la parola alle sbarre della mia finestra, alle colline che mi stanno in faccia, agli uccelli che volano.– Der Teufel! e non mi vuol promettere?– No, no, no! sclamai. –Gettò a terra il romoroso mazzo delle chiavi, e ripeté: – Der Teufel! der Teufel! Indi proruppe abbracciandomi:– Ebbene, ho io a cessare d'essere uomo per quella canaglia di chiavi? Ella è un signore come va, ed ho gusto che non mi voglia promettere ciò che non manterrebbe. Farei lo stesso anch'io. – Raccolsi le chiavi e gliele diedi.– Queste chiavi, gli dissi, non sono poi tanto canaglia, poichè non possono, d'un onesto caporale qual siete, fare un malvagio sgherro.– E se credessi che potessero far tanto, rispose, le porterei a' miei superiori, e direi: se non mi vogliono dare altro pane che quello del carnefice, andrò a dimandare l'elemosina. –Trasse di tasca il fazzoletto, s'asciugò gli [236] occhi poi li tenne alzati, giungendo le mani in atto di preghiera. Io giunsi le mie, e pregai al pari di lui in silenzio. Ei capiva ch'io facea voti per esso, com'io capiva ch'ei ne facea per me.Andando via, mi disse sotto voce: – Quando ella conversa col conte Oroboni, parli sommesso più che può. Farà così due beni: uno di risparmiarmi le grida del signor soprintendente, l'altro di non far forse capire qualche discorso... debbo dirlo?... qualche discorso che, riferito, irritasse sempre più chi può punire. –L'assicurai che dalle nostre labbra non usciva mai parola, che, riferita a chicchessia, potesse offendere.Non avevamo infatti d'uopo d'avvertimenti, per esser cauti. Due prigionieri che vengono a comunicazione tra loro, sanno benissimo crearsi un gergo, col quale dir tutto, senza esser capiti da qualsiasi ascoltatore. |