Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Paradiso
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Canto XXXIII
Canto XXXIII, il quale è l'ultimo de la terza cantica e ultima; nel quale canto santo Bernardo in figura de l'auttore fa una orazione a la Vergine Maria, pregandola che sé e la Divina Maestade si lasci vedere visibilemente.
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«Vergine Madre, figlia del tuo figlio,umile e alta più che creatura,termine fisso d'etterno consiglio,tu se' colei che l'umana naturanobilitasti sì, che 'l suo fattorenon disdegnò di farsi sua fattura.Nel ventre tuo si raccese l'amore,per lo cui caldo ne l'etterna pacecosì è germinato questo fiore.Qui se' a noi meridïana facedi caritate, e giuso, intra ' mortali,se' di speranza fontana vivace.Donna, se' tanto grande e tanto vali,che qual vuol grazia e a te non ricorre,sua disïanza vuol volar sanz' ali.La tua benignità non pur soccorrea chi domanda, ma molte fïateliberamente al dimandar precorre.In te misericordia, in te pietate,in te magnificenza, in te s'adunaquantunque in creatura è di bontate.Or questi, che da l'infima lacunade l'universo infin qui ha vedutele vite spiritali ad una ad una,supplica a te, per grazia, di virtutetanto, che possa con li occhi levarsipiù alto verso l'ultima salute.E io, che mai per mio veder non arsipiù ch'i' fo per lo suo, tutti miei prieghiti porgo, e priego che non sieno scarsi,perché tu ogne nube li disleghidi sua mortalità co' prieghi tuoi,sì che 'l sommo piacer li si dispieghi.Ancor ti priego, regina, che puoiciò che tu vuoli, che conservi sani,dopo tanto veder, li affetti suoi.Vinca tua guardia i movimenti umani:vedi Beatrice con quanti beatiper li miei prieghi ti chiudon le mani!».Li occhi da Dio diletti e venerati,fissi ne l'orator, ne dimostraroquanto i devoti prieghi le son grati;indi a l'etterno lume s'addrizzaro,nel qual non si dee creder che s'inviiper creatura l'occhio tanto chiaro.E io ch'al fine di tutt' i disiiappropinquava, sì com' io dovea,l'ardor del desiderio in me finii.Bernardo m'accennava, e sorridea,perch' io guardassi suso; ma io eragià per me stesso tal qual ei volea:ché la mia vista, venendo sincera,e più e più intrava per lo raggiode l'alta luce che da sé è vera.Da quinci innanzi il mio veder fu maggioche 'l parlar mostra, ch'a tal vista cede,e cede la memoria a tanto oltraggio.Qual è colüi che sognando vede,che dopo 'l sogno la passione impressarimane, e l'altro a la mente non riede,cotal son io, ché quasi tutta cessamia visïone, e ancor mi distillanel core il dolce che nacque da essa.Così la neve al sol si disigilla;così al vento ne le foglie levisi perdea la sentenza di Sibilla.O somma luce che tanto ti levida' concetti mortali, a la mia menteripresta un poco di quel che parevi,e fa la lingua mia tanto possente,ch'una favilla sol de la tua gloriapossa lasciare a la futura gente;ché, per tornare alquanto a mia memoriae per sonare un poco in questi versi,più si conceperà di tua vittoria.Io credo, per l'acume ch'io soffersidel vivo raggio, ch'i' sarei smarrito,se li occhi miei da lui fossero aversi.E' mi ricorda ch'io fui più arditoper questo a sostener, tanto ch'i' giunsil'aspetto mio col valore infinito.Oh abbondante grazia ond' io presunsificcar lo viso per la luce etterna,tanto che la veduta vi consunsi!Nel suo profondo vidi che s'interna,legato con amore in un volume,ciò che per l'universo si squaderna:sustanze e accidenti e lor costumequasi conflati insieme, per tal modoche ciò ch'i' dico è un semplice lume.La forma universal di questo nodocredo ch'i' vidi, perché più di largo,dicendo questo, mi sento ch'i' godo.Un punto solo m'è maggior letargoche venticinque secoli a la 'mpresache fé Nettuno ammirar l'ombra d'Argo.Così la mente mia, tutta sospesa,mirava fissa, immobile e attenta,e sempre di mirar faceasi accesa.A quella luce cotal si diventa,che volgersi da lei per altro aspettoè impossibil che mai si consenta;però che 'l ben, ch'è del volere obietto,tutto s'accoglie in lei, e fuor di quellaè defettivo ciò ch'è lì perfetto.Omai sarà più corta mia favella,pur a quel ch'io ricordo, che d'un fanteche bagni ancor la lingua a la mammella.Non perché più ch'un semplice sembiantefosse nel vivo lume ch'io mirava,che tal è sempre qual s'era davante;ma per la vista che s'avvaloravain me guardando, una sola parvenza,mutandom' io, a me si travagliava.Ne la profonda e chiara sussistenzade l'alto lume parvermi tre giridi tre colori e d'una contenenza;e l'un da l'altro come iri da iriparea reflesso, e 'l terzo parea focoche quinci e quindi igualmente si spiri.Oh quanto è corto il dire e come fiocoal mio concetto! e questo, a quel ch'i' vidi,è tanto, che non basta a dicer poco.O luce etterna che sola in te sidi,sola t'intendi, e da te intellettae intendente te ami e arridi!Quella circulazion che sì concettapareva in te come lume reflesso,da li occhi miei alquanto circunspetta,dentro da sé, del suo colore stesso,mi parve pinta de la nostra effige:per che 'l mio viso in lei tutto era messo.Qual è 'l geomètra che tutto s'affigeper misurar lo cerchio, e non ritrova,pensando, quel principio ond' elli indige,tal era io a quella vista nova:veder voleva come si convennel'imago al cerchio e come vi s'indova;ma non eran da ciò le proprie penne:se non che la mia mente fu percossada un fulgore in che sua voglia venne.A l'alta fantasia qui mancò possa;ma già volgeva il mio disio e 'l velle,sì come rota ch'igualmente è mossa,l'amor che move il sole e l'altre stelle. |