Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Paradiso
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Canto XXVI
Canto XXVI, nel quale l'auttore ne conforta seguitare lo innefabile amore, e dove trova Adamo il nostro primo padre, dicente a lui il tempo de la sua felicitade e infelicitade.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, par. 26 (disegno, 1485/90)
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Mentr' io dubbiava per lo viso spento,de la fulgida fiamma che lo spenseuscì un spiro che mi fece attento,dicendo: «Intanto che tu ti risensede la vista che haï in me consunta,ben è che ragionando la compense.Comincia dunque; e dì ove s'appuntal'anima tua, e fa ragion che siala vista in te smarrita e non defunta:perché la donna che per questa diaregïon ti conduce, ha ne lo sguardola virtù ch'ebbe la man d'Anania».Io dissi: «Al suo piacere e tosto e tardovegna remedio a li occhi, che fuor portequand' ella entrò col foco ond' io sempr' ardo.Lo ben che fa contenta questa corte,Alfa e O è di quanta scritturami legge Amore o lievemente o forte».Quella medesma voce che pauratolta m'avea del sùbito abbarbaglio,di ragionare ancor mi mise in cura;e disse: «Certo a più angusto vaglioti conviene schiarar: dicer convientichi drizzò l'arco tuo a tal berzaglio».E io: «Per filosofici argomentie per autorità che quinci scendecotale amor convien che in me si 'mprenti:ché 'l bene, in quanto ben, come s'intende,così accende amore, e tanto maggioquanto più di bontate in sé comprende.Dunque a l'essenza ov' è tanto avvantaggio,che ciascun ben che fuor di lei si trovaaltro non è ch'un lume di suo raggio,più che in altra convien che si movala mente, amando, di ciascun che cerneil vero in che si fonda questa prova.Tal vero a l'intelletto mïo sternecolui che mi dimostra il primo amoredi tutte le sustanze sempiterne.Sternel la voce del verace autore,che dice a Moïsè, di sé parlando:Io ti farò vedere ogne valore.Sternilmi tu ancora, incominciandol'alto preconio che grida l'arcanodi qui là giù sovra ogne altro bando».E io udi': «Per intelletto umanoe per autoritadi a lui concorded'i tuoi amori a Dio guarda il sovrano.Ma dì ancor se tu senti altre cordetirarti verso lui, sì che tu suonecon quanti denti questo amor ti morde».Non fu latente la santa intenzionede l'aguglia di Cristo, anzi m'accorsidove volea menar mia professione.Però ricominciai: «Tutti quei morsiche posson far lo cor volgere a Dio,a la mia caritate son concorsi:ché l'essere del mondo e l'esser mio,la morte ch'el sostenne perch' io viva,e quel che spera ogne fedel com' io,con la predetta conoscenza viva,tratto m'hanno del mar de l'amor torto,e del diritto m'han posto a la riva.Le fronde onde s'infronda tutto l'ortode l'ortolano etterno, am' io cotantoquanto da lui a lor di bene è porto».Sì com' io tacqui, un dolcissimo cantorisonò per lo cielo, e la mia donnadicea con li altri: «Santo, santo, santo!».E come a lume acuto si disonnaper lo spirto visivo che ricorrea lo splendor che va di gonna in gonna,e lo svegliato ciò che vede aborre,sì nescïa è la sùbita vigiliafin che la stimativa non soccorre;così de li occhi miei ogne quisquiliafugò Beatrice col raggio d'i suoi,che rifulgea da più di mille milia:onde mei che dinanzi vidi poi;e quasi stupefatto domandaid'un quarto lume ch'io vidi tra noi.E la mia donna: «Dentro da quei raivagheggia il suo fattor l'anima primache la prima virtù creasse mai».Come la fronda che flette la cimanel transito del vento, e poi si levaper la propria virtù che la soblima,fec' io in tanto in quant' ella diceva,stupendo, e poi mi rifece sicuroun disio di parlare ond' ïo ardeva.E cominciai: «O pomo che maturosolo prodotto fosti, o padre anticoa cui ciascuna sposa è figlia e nuro,divoto quanto posso a te supplìcoperché mi parli: tu vedi mia voglia,e per udirti tosto non la dico».Talvolta un animal coverto broglia,sì che l'affetto convien che si paiaper lo seguir che face a lui la 'nvoglia;e similmente l'anima primaiami facea trasparer per la covertaquant' ella a compiacermi venìa gaia.Indi spirò: «Sanz' essermi profertada te, la voglia tua discerno meglioche tu qualunque cosa t'è più certa;perch' io la veggio nel verace speglioche fa di sé pareglio a l'altre cose,e nulla face lui di sé pareglio.Tu vuogli udir quant' è che Dio mi puosene l'eccelso giardino, ove costeia così lunga scala ti dispuose,e quanto fu diletto a li occhi miei,e la propria cagion del gran disdegno,e l'idïoma ch'usai e che fei.Or, figluol mio, non il gustar del legnofu per sé la cagion di tanto essilio,ma solamente il trapassar del segno.Quindi onde mosse tua donna Virgilio,quattromilia trecento e due volumidi sol desiderai questo concilio;e vidi lui tornare a tutt' i lumide la sua strada novecento trentafïate, mentre ch'ïo in terra fu'mi.La lingua ch'io parlai fu tutta spentainnanzi che a l'ovra inconsummabilefosse la gente di Nembròt attenta:ché nullo effetto mai razïonabile,per lo piacere uman che rinovellaseguendo il cielo, sempre fu durabile.Opera naturale è ch'uom favella;ma così o così, natura lasciapoi fare a voi secondo che v'abbella.Pria ch'i' scendessi a l'infernale ambascia,I s'appellava in terra il sommo beneonde vien la letizia che mi fascia;e El si chiamò poi: e ciò convene,ché l'uso d'i mortali è come frondain ramo, che sen va e altra vene.Nel monte che si leva più da l'onda,fu' io, con vita pura e disonesta,da la prim' ora a quella che seconda,come 'l sol muta quadra, l'ora sesta». |