Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Paradiso
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Canto XVI
Canto XVI, nel quale il sopradetto messer Cacciaguida racconta intorno di quaranta famiglie onorabili al suo tempo ne la cittade di Fiorenza, de le quali al presente non è ricordo né fama.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, par. 16 (disegno, 1485/90)
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O poca nostra nobiltà di sangue,se glorïar di te la gente faiqua giù dove l'affetto nostro langue,mirabil cosa non mi sarà mai:ché là dove appetito non si torce,dico nel cielo, io me ne gloriai.Ben se' tu manto che tosto raccorce:sì che, se non s'appon di dì in die,lo tempo va dintorno con le force.Dal voi che prima a Roma s'offerie,in che la sua famiglia men persevra,ricominciaron le parole mie;onde Beatrice, ch'era un poco scevra,ridendo, parve quella che tossioal primo fallo scritto di Ginevra.Io cominciai: «Voi siete il padre mio;voi mi date a parlar tutta baldezza;voi mi levate sì, ch'i' son più ch'io.Per tanti rivi s'empie d'allegrezzala mente mia, che di sé fa letiziaperché può sostener che non si spezza.Ditemi dunque, cara mia primizia,quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anniche si segnaro in vostra püerizia;ditemi de l'ovil di San Giovanniquanto era allora, e chi eran le gentitra esso degne di più alti scanni».Come s'avviva a lo spirar d'i venticarbone in fiamma, così vid' io quellaluce risplendere a' miei blandimenti;e come a li occhi miei si fé più bella,così con voce più dolce e soave,ma non con questa moderna favella,dissemi: «Da quel dì che fu detto Aveal parto in che mia madre, ch'è or santa,s'allevïò di me ond' era grave,al suo Leon cinquecento cinquantae trenta fiate venne questo focoa rinfiammarsi sotto la sua pianta.Li antichi miei e io nacqui nel locodove si truova pria l'ultimo sestoda quei che corre il vostro annüal gioco.Basti d'i miei maggiori udirne questo:chi ei si fosser e onde venner quivi,più è tacer che ragionare onesto.Tutti color ch'a quel tempo eran ivida poter arme tra Marte e 'l Batista,eran il quinto di quei ch'or son vivi.Ma la cittadinanza, ch'è or mistadi Campi, di Certaldo e di Fegghine,pura vediesi ne l'ultimo artista.Oh quanto fora meglio esser vicinequelle genti ch'io dico, e al Galluzzoe a Trespiano aver vostro confine,che averle dentro e sostener lo puzzodel villan d'Aguglion, di quel da Signa,che già per barattare ha l'occhio aguzzo!Se la gente ch'al mondo più tralignanon fosse stata a Cesare noverca,ma come madre a suo figlio benigna,tal fatto è fiorentino e cambia e merca,che si sarebbe vòlto a Simifonti,là dove andava l'avolo a la cerca;sariesi Montemurlo ancor de' Conti;sarieno i Cerchi nel piovier d'Acone,e forse in Valdigrieve i Buondelmonti.Sempre la confusion de le personeprincipio fu del mal de la cittade,come del vostro il cibo che s'appone;e cieco toro più avaccio cadeche cieco agnello; e molte volte tagliapiù e meglio una che le cinque spade.Se tu riguardi Luni e Orbisagliacome sono ite, e come se ne vannodi retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,udir come le schiatte si disfannonon ti parrà nova cosa né forte,poscia che le cittadi termine hanno.Le vostre cose tutte hanno lor morte,sì come voi; ma celasi in alcunache dura molto, e le vite son corte.E come 'l volger del ciel de la lunacuopre e discuopre i liti sanza posa,così fa di Fiorenza la Fortuna:per che non dee parer mirabil cosaciò ch'io dirò de li alti Fiorentinionde è la fama nel tempo nascosa.Io vidi li Ughi e vidi i Catellini,Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi,già nel calare, illustri cittadini;e vidi così grandi come antichi,con quel de la Sannella, quel de l'Arca,e Soldanieri e Ardinghi e Bostichi.Sovra la porta ch'al presente è carcadi nova fellonia di tanto pesoche tosto fia iattura de la barca,erano i Ravignani, ond' è discesoil conte Guido e qualunque del nomede l'alto Bellincione ha poscia preso.Quel de la Pressa sapeva già comeregger si vuole, e avea Galigaiodorata in casa sua già l'elsa e 'l pome.Grand' era già la colonna del Vaio,Sacchetti, Giuochi, Fifanti e Baruccie Galli e quei ch'arrossan per lo staio.Lo ceppo di che nacquero i Calfucciera già grande, e già eran trattia le curule Sizii e Arrigucci.Oh quali io vidi quei che son disfattiper lor superbia! e le palle de l'orofiorian Fiorenza in tutt' i suoi gran fatti.Così facieno i padri di coloroche, sempre che la vostra chiesa vaca,si fanno grassi stando a consistoro.L'oltracotata schiatta che s'indracadietro a chi fugge, e a chi mostra 'l denteo ver la borsa, com' agnel si placa,già venìa sù, ma di picciola gente;sì che non piacque ad Ubertin Donatoche poï il suocero il fé lor parente.Già era 'l Caponsacco nel mercatodisceso giù da Fiesole, e già erabuon cittadino Giuda e Infangato.Io dirò cosa incredibile e vera:nel picciol cerchio s'entrava per portache si nomava da quei de la Pera.Ciascun che de la bella insegna portadel gran barone il cui nome e 'l cui pregiola festa di Tommaso riconforta,da esso ebbe milizia e privilegio;avvegna che con popol si raunioggi colui che la fascia col fregio.Già eran Gualterotti e Importuni;e ancor saria Borgo più quïeto,se di novi vicin fosser digiuni.La casa di che nacque il vostro fleto,per lo giusto disdegno che v'ha mortie puose fine al vostro viver lieto,era onorata, essa e suoi consorti:o Buondelmonte, quanto mal fuggistile nozze süe per li altrui conforti!Molti sarebber lieti, che son tristi,se Dio t'avesse conceduto ad Emala prima volta ch'a città venisti.Ma conveniesi a quella pietra scemache guarda 'l ponte, che Fiorenza fessevittima ne la sua pace postrema.Con queste genti, e con altre con esse,vid' io Fiorenza in sì fatto riposo,che non avea cagione onde piangesse.Con queste genti vid'io glorïosoe giusto il popol suo, tanto che 'l giglionon era ad asta mai posto a ritroso,né per divisïon fatto vermiglio». |