Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Purgatorio
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Canto XXIV
Canto XXIV nel quale si tratta del sopradetto sesto girone e di quelli che si purgano del predetto peccato e vizio de la gola; e predicesi qui alcune cose a venire de la città lucana.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, pur. 24 (disegno, 1485/90)
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Né 'l dir l'andar, né l'andar lui più lentofacea, ma ragionando andavam forte,sì come nave pinta da buon vento;e l'ombre, che parean cose rimorte,per le fosse de li occhi ammirazionetraean di me, di mio vivere accorte.E io, continüando al mio sermone,dissi: «Ella sen va sù forse più tardache non farebbe, per altrui cagione.Ma dimmi, se tu sai, dov' è Piccarda;dimmi s'io veggio da notar personatra questa gente che sì mi riguarda».«La mia sorella, che tra bella e buonanon so qual fosse più, trïunfa lietane l'alto Olimpo già di sua corona».Sì disse prima; e poi: «Qui non si vietadi nominar ciascun, da ch'è sì muntanostra sembianza via per la dïeta.Questi», e mostrò col dito, «è Bonagiunta,Bonagiunta da Lucca; e quella facciadi là da lui più che l'altre trapuntaebbe la Santa Chiesa in le sue braccia:dal Torso fu, e purga per digiunol'anguille di Bolsena e la vernaccia».Molti altri mi nomò ad uno ad uno;e del nomar parean tutti contenti,sì ch'io però non vidi un atto bruno.Vidi per fame a vòto usar li dentiUbaldin da la Pila e Bonifazioche pasturò col rocco molte genti.Vidi messer Marchese, ch'ebbe spaziogià di bere a Forlì con men secchezza,e sì fu tal, che non si sentì sazio.Ma come fa chi guarda e poi s'apprezzapiù d'un che d'altro, fei a quel da Lucca,che più parea di me aver contezza.El mormorava; e non so che «Gentucca»sentiv' io là, ov' el sentia la piagade la giustizia che sì li pilucca.«O anima», diss' io, «che par sì vagadi parlar meco, fa sì ch'io t'intenda,e te e me col tuo parlare appaga».«Femmina è nata, e non porta ancor benda»,cominciò el, «che ti farà piacerela mia città, come ch'om la riprenda.Tu te n'andrai con questo antivedere:se nel mio mormorar prendesti errore,dichiareranti ancor le cose vere.Ma dì s'i' veggio qui colui che foretrasse le nove rime, cominciandoDonne ch'avete intelletto d'amore».E io a lui: «I' mi son un che, quandoAmor mi spira, noto, e a quel modoch'e' ditta dentro vo significando».«O frate, issa vegg' io», diss' elli, «il nodoche 'l Notaro e Guittone e me ritennedi qua dal dolce stil novo ch'i' odo!Io veggio ben come le vostre pennedi retro al dittator sen vanno strette,che de le nostre certo non avvenne;e qual più a gradire oltre si mette,non vede più da l'uno a l'altro stilo»;e, quasi contentato, si tacette.Come li augei che vernan lungo 'l Nilo,alcuna volta in aere fanno schiera,poi volan più a fretta e vanno in filo,così tutta la gente che lì era,volgendo 'l viso, raffrettò suo passo,e per magrezza e per voler leggera.E come l'uom che di trottare è lasso,lascia andar li compagni, e sì passeggiafin che si sfoghi l'affollar del casso,sì lasciò trapassar la santa greggiaForese, e dietro meco sen veniva,dicendo: «Quando fia ch'io ti riveggia?».«Non so», rispuos' io lui, «quant' io mi viva;ma già non fïa il tornar mio tantosto,ch'io non sia col voler prima a la riva;però che 'l loco u' fui a viver posto,di giorno in giorno più di ben si spolpa,e a trista ruina par disposto».«Or va», diss' el; «che quei che più n'ha colpa,vegg' ïo a coda d'una bestia trattoinver' la valle ove mai non si scolpa.La bestia ad ogne passo va più ratto,crescendo sempre, fin ch'ella il percuote,e lascia il corpo vilmente disfatto.Non hanno molto a volger quelle ruote»,e drizzò li occhi al ciel, «che ti fia chiarociò che 'l mio dir più dichiarar non puote.Tu ti rimani omai; ché 'l tempo è caroin questo regno, sì ch'io perdo troppovenendo teco sì a paro a paro».Qual esce alcuna volta di gualoppolo cavalier di schiera che cavalchi,e va per farsi onor del primo intoppo,tal si partì da noi con maggior valchi;e io rimasi in via con esso i dueche fuor del mondo sì gran marescalchi.E quando innanzi a noi intrato fue,che li occhi miei si fero a lui seguaci,come la mente a le parole sue,parvermi i rami gravidi e vivacid'un altro pomo, e non molto lontaniper esser pur allora vòlto in laci.Vidi gente sott' esso alzar le manie gridar non so che verso le fronde,quasi bramosi fantolini e vaniche pregano, e 'l pregato non risponde,ma, per fare esser ben la voglia acuta,tien alto lor disio e nol nasconde.Poi si partì sì come ricreduta;e noi venimmo al grande arbore adesso,che tanti prieghi e lagrime rifiuta.«Trapassate oltre sanza farvi presso:legno è più sù che fu morso da Eva,e questa pianta si levò da esso».Sì tra le frasche non so chi diceva;per che Virgilio e Stazio e io, ristretti,oltre andavam dal lato che si leva.«Ricordivi», dicea, «d'i maladettinei nuvoli formati, che, satolli,Tesëo combatter co' doppi petti;e de li Ebrei ch'al ber si mostrar molli,per che no i volle Gedeon compagni,quando inver' Madïan discese i colli».Sì accostati a l'un d'i due vivagnipassammo, udendo colpe de la golaseguite già da miseri guadagni.Poi, rallargati per la strada sola,ben mille passi e più ci portar oltre,contemplando ciascun sanza parola.«Che andate pensando sì voi sol tre?».sùbita voce disse; ond' io mi scossicome fan bestie spaventate e poltre.Drizzai la testa per veder chi fossi;e già mai non si videro in fornacevetri o metalli sì lucenti e rossi,com' io vidi un che dicea: «S'a voi piacemontare in sù, qui si convien dar volta;quinci si va chi vuole andar per pace».L'aspetto suo m'avea la vista tolta;per ch'io mi volsi dietro a' miei dottori,com' om che va secondo ch'elli ascolta.E quale, annunziatrice de li albori,l'aura di maggio movesi e olezza,tutta impregnata da l'erba e da' fiori;tal mi senti' un vento dar per mezzala fronte, e ben senti' mover la piuma,che fé sentir d'ambrosïa l'orezza.E senti' dir: «Beati cui allumatanto di grazia, che l'amor del gustonel petto lor troppo disir non fuma,esurïendo sempre quanto è giusto!» |