Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Purgatorio
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Canto XXIII
Canto XXIII, dove si tratta del sopradetto girone e di quella medesima colpa de la gola, e sgrida contro a le donne fiorentine; dove truova Forese de' Donati di Fiorenze col quale molto parla.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, pur. 23 (disegno, 1485/90)
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Mentre che li occhi per la fronda verdeficcava ïo sì come far suolechi dietro a li uccellin sua vita perde,lo più che padre mi dicea: «Figliuole,vienne oramai, ché 'l tempo che n'è impostopiù utilmente compartir si vuole».Io volsi 'l viso, e 'l passo non men tosto,appresso i savi, che parlavan sìe,che l'andar mi facean di nullo costo.Ed ecco piangere e cantar s'udìeLabïa mëa, Domine per modotal, che diletto e doglia parturìe.«O dolce padre, che è quel ch'i' odo?»,comincia' io; ed elli: «Ombre che vannoforse di lor dover solvendo il nodo».Sì come i peregrin pensosi fanno,giugnendo per cammin gente non nota,che si volgono ad essa e non restanno,così di retro a noi, più tosto mota,venendo e trapassando ci ammiravad'anime turba tacita e devota.Ne li occhi era ciascuna oscura e cava,palida ne la faccia, e tanto scemache da l'ossa la pelle s'informava.Non credo che così a buccia stremaErisittone fosse fatto secco,per digiunar, quando più n'ebbe tema.Io dicea fra me stesso pensando: Eccola gente che perdé Ierusalemme,quando Maria nel figlio diè di becco!Parean l'occhiaie anella sanza gemme:chi nel viso de li uomini legge omoben avria quivi conosciuta l'emme.Chi crederebbe che l'odor d'un pomosì governasse, generando brama,e quel d'un'acqua, non sappiendo como?Già era in ammirar che sì li affama,per la cagione ancor non manifestadi lor magrezza e di lor trista squama,ed ecco del profondo de la testavolse a me li occhi un'ombra e guardò fiso;poi gridò forte: «Qual grazia m'è questa?».Mai non l'avrei riconosciuto al viso;ma ne la voce sua mi fu paleseciò che l'aspetto in sé avea conquiso.Questa favilla tutta mi raccesemia conoscenza a la cangiata labbia,e ravvisai la faccia di Forese.«Deh, non contendere a l'asciutta scabbiache mi scolora», pregava, «la pelle,né a difetto di carne ch'io abbia;ma dimmi il ver di te, dì chi son quelledue anime che là ti fanno scorta;non rimaner che tu non mi favelle!».«La faccia tua, ch'io lagrimai già morta,mi dà di pianger mo non minor doglia»,rispuos' io lui, «veggendola sì torta.Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia;non mi far dir mentr' io mi maraviglio,ché mal può dir chi è pien d'altra voglia».Ed elli a me: «De l'etterno consigliocade vertù ne l'acqua e ne la piantarimasa dietro ond' io sì m'assottiglio.Tutta esta gente che piangendo cantaper seguitar la gola oltra misura,in fame e 'n sete qui si rifà santa.Di bere e di mangiar n'accende cural'odor ch'esce del pomo e de lo sprazzoche si distende su per sua verdura.E non pur una volta, questo spazzogirando, si rinfresca nostra pena:io dico pena, e dovria dir sollazzo,ché quella voglia a li alberi ci menache menò Cristo lieto a dire Elì,quando ne liberò con la sua vena».E io a lui: «Forese, da quel dìnel qual mutasti mondo a miglior vita,cinqu' anni non son vòlti infino a qui.Se prima fu la possa in te finitadi peccar più, che sovvenisse l'oradel buon dolor ch'a Dio ne rimarita,come se' tu qua sù venuto ancora?Io ti credea trovar là giù di sotto,dove tempo per tempo si ristora».Ond' elli a me: «Sì tosto m'ha condottoa ber lo dolce assenzo d'i martìrila Nella mia con suo pianger dirotto.Con suoi prieghi devoti e con sospiritratto m'ha de la costa ove s'aspetta,e liberato m'ha de li altri giri.Tanto è a Dio più cara e più dilettala vedovella mia, che molto amai,quanto in bene operare è più soletta;ché la Barbagia di Sardigna assaine le femmine sue più è pudicache la Barbagia dov' io la lasciai.O dolce frate, che vuo' tu ch'io dica?Tempo futuro m'è già nel cospetto,cui non sarà quest' ora molto antica,nel qual sarà in pergamo interdettoa le sfacciate donne fiorentinel'andar mostrando con le poppe il petto.Quai barbare fuor mai, quai saracine,cui bisognasse, per farle ir coperte,o spiritali o altre discipline?Ma se le svergognate fosser certedi quel che 'l ciel veloce loro ammanna,già per urlare avrian le bocche aperte;ché, se l'antiveder qui non m'inganna,prima fien triste che le guance impelicolui che mo si consola con nanna.Deh, frate, or fa che più non mi ti celi!vedi che non pur io, ma questa gentetutta rimira là dove 'l sol veli».Per ch'io a lui: «Se tu riduci a mentequal fosti meco, e qual io teco fui,ancor fia grave il memorar presente.Di quella vita mi volse costuiche mi va innanzi, l'altr' ier, quando tondavi si mostrò la suora di colui»,e 'l sol mostrai; «costui per la profondanotte menato m'ha d'i veri morticon questa vera carne che 'l seconda.Indi m'han tratto sù li suoi conforti,salendo e rigirando la montagnache drizza voi che 'l mondo fece torti.Tanto dice di farmi sua compagnache io sarò là dove fia Beatrice;quivi convien che sanza lui rimagna.Virgilio è questi che così mi dice»,e addita'lo; «e quest' altro è quell' ombraper cuï scosse dianzi ogne pendicelo vostro regno, che da sé lo sgombra». |