Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Purgatorio
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Canto XV
Canto XV, il quale tratta de la essenza del terzo girone, luogo diputato a purgare la colpa e peccato de l'ira; e dichiara Virgilio a Dante uno dubbio nato di parole dette nel precedente canto da Guido del Duca, e una visione ch'aparve in sogno a l'auttore, cioè Dante.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, pur. 15 (disegno, 1485/90)
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Quanto tra l'ultimar de l'ora terzae 'l principio del dì par de la sperache sempre a guisa di fanciullo scherza,tanto pareva già inver' la seraessere al sol del suo corso rimaso;vespero là, e qui mezza notte era.E i raggi ne ferien per mezzo 'l naso,perché per noi girato era sì 'l monte,che già dritti andavamo inver' l'occaso,quand' io senti' a me gravar la frontea lo splendore assai più che di prima,e stupor m'eran le cose non conte;ond' io levai le mani inver' la cimade le mie ciglia, e fecimi 'l solecchio,che del soverchio visibile lima.Come quando da l'acqua o da lo specchiosalta lo raggio a l'opposita parte,salendo su per lo modo parecchioa quel che scende, e tanto si dipartedal cader de la pietra in igual tratta,sì come mostra esperïenza e arte;così mi parve da luce rifrattaquivi dinanzi a me esser percosso;per che a fuggir la mia vista fu ratta.«Che è quel, dolce padre, a che non possoschermar lo viso tanto che mi vaglia»,diss' io, «e pare inver' noi esser mosso?».«Non ti maravigliar s'ancor t'abbagliala famiglia del cielo», a me rispuose:«messo è che viene ad invitar ch'om saglia.Tosto sarà ch'a veder queste cosenon ti fia grave, ma fieti dilettoquanto natura a sentir ti dispuose».Poi giunti fummo a l'angel benedetto,con lieta voce disse: «Intrate quinciad un scaleo vie men che li altri eretto».Noi montavam, già partiti di linci,e Beati misericordes! fuecantato retro, e Godi tu che vinci!.Lo mio maestro e io soli amenduesuso andavamo; e io pensai, andando,prode acquistar ne le parole sue;e dirizza'mi a lui sì dimandando:«Che volse dir lo spirto di Romagna,e divieto e consorte menzionando?».Per ch'elli a me: «Di sua maggior magagnaconosce il danno; e però non s'ammirise ne riprende perché men si piagna.Perché s'appuntano i vostri disiridove per compagnia parte si scema,invidia move il mantaco a' sospiri.Ma se l'amor de la spera supprematorcesse in suso il disiderio vostro,non vi sarebbe al petto quella tema;ché, per quanti si dice più lì nostro,tanto possiede più di ben ciascuno,e più di caritate arde in quel chiostro».«Io son d'esser contento più digiuno»,diss' io, «che se mi fosse pria taciuto,e più di dubbio ne la mente aduno.Com' esser puote ch'un ben, distributoin più posseditor, faccia più ricchidi sé che se da pochi è posseduto?».Ed elli a me: «Però che tu rificchila mente pur a le cose terrene,di vera luce tenebre dispicchi.Quello infinito e ineffabil beneche là sù è, così corre ad amorecom' a lucido corpo raggio vene.Tanto si dà quanto trova d'ardore;sì che, quantunque carità si stende,cresce sovr' essa l'etterno valore.E quanta gente più là sù s'intende,più v'è da bene amare, e più vi s'ama,e come specchio l'uno a l'altro rende.E se la mia ragion non ti disfama,vedrai Beatrice, ed ella pienamenteti torrà questa e ciascun' altra brama.Procaccia pur che tosto sieno spente,come son già le due, le cinque piaghe,che si richiudon per esser dolente».Com' io voleva dicer Tu m'appaghe,vidimi giunto in su l'altro girone,sì che tacer mi fer le luci vaghe.Ivi mi parve in una visïoneestatica di sùbito esser tratto,e vedere in un tempio più persone;e una donna, in su l'entrar, con attodolce di madre dicer: «Figliuol mio,perché hai tu così verso noi fatto?Ecco, dolenti, lo tuo padre e ioti cercavamo». E come qui si tacque,ciò che pareva prima, dispario.Indi m'apparve un'altra con quell' acquegiù per le gote che 'l dolor distillaquando di gran dispetto in altrui nacque,e dir: «Se tu se' sire de la villadel cui nome ne' dèi fu tanta lite,e onde ogne scïenza disfavilla,vendica te di quelle braccia arditech'abbracciar nostra figlia, o Pisistràto».E 'l segnor mi parea, benigno e mite,risponder lei con viso temperato:«Che farem noi a chi mal ne disira,se quei che ci ama è per noi condannato?»,Poi vidi genti accese in foco d'iracon pietre un giovinetto ancider, fortegridando a sé pur: «Martira, martira!».E lui vedea chinarsi, per la morteche l'aggravava già, inver' la terra,ma de li occhi facea sempre al ciel porte,orando a l'alto Sire, in tanta guerra,che perdonasse a' suoi persecutori,con quello aspetto che pietà diserra.Quando l'anima mia tornò di foria le cose che son fuor di lei vere,io riconobbi i miei non falsi errori.Lo duca mio, che mi potea vederefar sì com' om che dal sonno si slega,disse: «Che hai che non ti puoi tenere,ma se' venuto più che mezza legavelando li occhi e con le gambe avvolte,a guisa di cui vino o sonno piega?».«O dolce padre mio, se tu m'ascolte,io ti dirò», diss' io, «ciò che m'apparvequando le gambe mi furon sì tolte».Ed ei: «Se tu avessi cento larvesovra la faccia, non mi sarian chiusele tue cogitazion, quantunque parve.Ciò che vedesti fu perché non scused'aprir lo core a l'acque de la paceche da l'etterno fonte son diffuse.Non dimandai Che hai? per quel che facechi guarda pur con l'occhio che non vede,quando disanimato il corpo giace;ma dimandai per darti forza al piede:così frugar conviensi i pigri, lentiad usar lor vigilia quando riede».Noi andavam per lo vespero, attentioltre quanto potean li occhi allungarsicontra i raggi serotini e lucenti.Ed ecco a poco a poco un fummo farsiverso di noi come la notte oscuro;né da quello era loco da cansarsi.Questo ne tolse li occhi e l'aere puro. |