Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Inferno
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Canto XXIII
Canto XXIII, nel quale tratta de la divina vendetta contra l'ipocriti; del quale peccato sotto il vocabulo di due cittadini di Bologna abomina l'auttore li bolognesi, e li giudei sotto il nome d'Anna e di Caifas; e qui è la sesta bolgia.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, inf. 23.58 (disegno, 1485/90)
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Taciti, soli, sanza compagnian'andavam l'un dinanzi e l'altro dopo,come frati minor vanno per via.Vòlt' era in su la favola d'Isopolo mio pensier per la presente rissa,dov' el parlò de la rana e del topo;ché più non si pareggia mo e issache l'un con l'altro fa, se ben s'accoppiaprincipio e fine con la mente fissa.E come l'un pensier de l'altro scoppia,così nacque di quello un altro poi,che la prima paura mi fé doppia.Io pensava così: Questi per noisono scherniti con danno e con beffasì fatta, ch'assai credo che lor nòi.Se l'ira sovra 'l mal voler s'aggueffa,ei ne verranno dietro più crudeliche 'l cane a quella lievre ch'elli acceffa.Già mi sentia tutti arricciar li pelide la paura e stava in dietro intento,quand' io dissi: «Maestro, se non celite e me tostamente, i' ho paventod'i Malebranche. Noi li avem già dietro;io li 'magino sì, che già li sento».E quei: «S'i' fossi di piombato vetro,l'imagine di fuor tua non trarreipiù tosto a me, che quella dentro 'mpetro.Pur mo venieno i tuo' pensier tra ' miei,con simile atto e con simile faccia,sì che d'intrambi un sol consiglio fei.S'elli è che sì la destra costa giaccia,che noi possiam ne l'altra bolgia scendere,noi fuggirem l'imaginata caccia».Già non compié di tal consiglio rendere,ch'io li vidi venir con l'ali tesenon molto lungi, per volerne prendere.Lo duca mio di sùbito mi prese,come la madre ch'al romore è destae vede presso a sé le fiamme accese,che prende il figlio e fugge e non s'arresta,avendo più di lui che di sé cura,tanto che solo una camiscia vesta;e giù dal collo de la ripa durasupin si diede a la pendente roccia,che l'un de' lati a l'altra bolgia tura.Non corse mai sì tosto acqua per docciaa volger ruota di molin terragno,quand' ella più verso le pale approccia,come 'l maestro mio per quel vivagno,portandosene me sovra 'l suo petto,come suo figlio, non come compagno.A pena fuoro i piè suoi giunti al lettodel fondo giù, ch'e' furon in sul collesovresso noi; ma non lì era sospetto:ché l'alta provedenza che lor volleporre ministri de la fossa quinta,poder di partirs' indi a tutti tolle.Là giù trovammo una gente dipintache giva intorno assai con lenti passi,piangendo e nel sembiante stanca e vinta.Elli avean cappe con cappucci bassidinanzi a li occhi, fatte de la tagliache in Clugnì per li monaci fassi.Di fuor dorate son, sì ch'elli abbaglia;ma dentro tutte piombo, e gravi tanto,che Federigo le mettea di paglia.Oh in etterno faticoso manto!Noi ci volgemmo ancor pur a man mancacon loro insieme, intenti al tristo pianto;ma per lo peso quella gente stancavenìa sì pian, che noi eravam nuovidi compagnia ad ogne mover d'anca.Per ch'io al duca mio: «Fa che tu trovialcun ch'al fatto o al nome si conosca,e li occhi, sì andando, intorno movi».E un che 'ntese la parola tosca,di retro a noi gridò: «Tenete i piedi,voi che correte sì per l'aura fosca!Forse ch'avrai da me quel che tu chiedi».Onde 'l duca si volse e disse: «Aspetta,e poi secondo il suo passo procedi».Ristetti, e vidi due mostrar gran frettade l'animo, col viso, d'esser meco;ma tardavali 'l carco e la via stretta.Quando fuor giunti, assai con l'occhio biecomi rimiraron sanza far parola;poi si volsero in sé, e dicean seco:«Costui par vivo a l'atto de la gola;e s'e' son morti, per qual privilegiovanno scoperti de la grave stola?».Poi disser me: «O Tosco, ch'al collegiode l'ipocriti tristi se' venuto,dir chi tu se' non avere in dispregio».E io a loro: «I' fui nato e cresciutosovra 'l bel fiume d'Arno a la gran villa,e son col corpo ch'i' ho sempre avuto.Ma voi chi siete, a cui tanto distillaquant' i' veggio dolor giù per le guance?e che pena è in voi che sì sfavilla?».E l'un rispuose a me: «Le cappe ranceson di piombo sì grosse, che li pesifan così cigolar le lor bilance.Frati godenti fummo, e bolognesi;io Catalano e questi Loderingonomati, e da tua terra insieme presicome suole esser tolto un uom solingo,per conservar sua pace; e fummo tali,ch'ancor si pare intorno dal Gardingo».Io cominciai: «O frati, i vostri mali . . . »;ma più non dissi, ch'a l'occhio mi corseun, crucifisso in terra con tre pali.Quando mi vide, tutto si distorse,soffiando ne la barba con sospiri;e 'l frate Catalan, ch'a ciò s'accorse,mi disse: «Quel confitto che tu miri,consigliò i Farisei che conveniaporre un uom per lo popolo a' martìri.Attraversato è, nudo, ne la via,come tu vedi, ed è mestier ch'el sentaqualunque passa, come pesa, pria.E a tal modo il socero si stentain questa fossa, e li altri dal concilioche fu per li Giudei mala sementa».Allor vid' io maravigliar Virgiliosovra colui ch'era disteso in crocetanto vilmente ne l'etterno essilio.Poscia drizzò al frate cotal voce:«Non vi dispiaccia, se vi lece, dircis'a la man destra giace alcuna foceonde noi amendue possiamo uscirci,sanza costrigner de li angeli neriche vegnan d'esto fondo a dipartirci».Rispuose adunque: «Più che tu non speris'appressa un sasso che da la gran cerchiasi move e varca tutt' i vallon feri,salvo che 'n questo è rotto e nol coperchia;montar potrete su per la ruina,che giace in costa e nel fondo soperchia».Lo duca stette un poco a testa china;poi disse: «Mal contava la bisognacolui che i peccator di qua uncina».E 'l frate: «Io udi' già dire a Bolognadel diavol vizi assai, tra ' quali udi'ch'elli è bugiardo, e padre di menzogna».Appresso il duca a gran passi sen gì,turbato un poco d'ira nel sembiante;ond' io da li 'ncarcati mi parti'dietro a le poste de le care piante. |