Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Inferno
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Canto X
Canto decimo, ove tratta del sesto cerchio de l'inferno e de la pena de li eretici, e in forma d'indovinare in persona di messer Farinata predice molte cose e di quelle che avvennero a Dante, e solve una questione.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, inf. 10.7 (disegno, 1485/90)
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Ora sen va per un secreto calle,tra 'l muro de la terra e li martìri,lo mio maestro, e io dopo le spalle.«O virtù somma, che per li empi girimi volvi», cominciai, «com' a te piace,parlami, e sodisfammi a' miei disiri.La gente che per li sepolcri giacepotrebbesi veder? già son levatitutt' i coperchi, e nessun guardia face».E quelli a me: «Tutti saran serratiquando di Iosafàt qui tornerannocoi corpi che là sù hanno lasciati.Suo cimitero da questa parte hannocon Epicuro tutti suoi seguaci,che l'anima col corpo morta fanno.Però a la dimanda che mi faciquinc' entro satisfatto sarà tosto,e al disio ancor che tu mi taci».E io: «Buon duca, non tegno ripostoa te mio cuor se non per dicer poco,e tu m'hai non pur mo a ciò disposto».«O Tosco che per la città del focovivo ten vai così parlando onesto,piacciati di restare in questo loco.La tua loquela ti fa manifestodi quella nobil patrïa natio,a la qual forse fui troppo molesto».Subitamente questo suono uscìod'una de l'arche; però m'accostai,temendo, un poco più al duca mio.Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?Vedi là Farinata che s'è dritto:da la cintola in sù tutto 'l vedrai».Io avea già il mio viso nel suo fitto;ed el s'ergea col petto e con la frontecom' avesse l'inferno a gran dispitto.E l'animose man del duca e prontemi pinser tra le sepulture a lui,dicendo: «Le parole tue sien conte».Com' io al piè de la sua tomba fui,guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?».Io ch'era d'ubidir disideroso,non gliel celai, ma tutto gliel' apersi;ond' ei levò le ciglia un poco in suso;poi disse: «Fieramente furo avversia me e a miei primi e a mia parte,sì che per due fïate li dispersi».«S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogne parte»,rispuos' io lui, «l'una e l'altra fïata;ma i vostri non appreser ben quell' arte».Allor surse a la vista scoperchiataun'ombra, lungo questa, infino al mento:credo che s'era in ginocchie levata.Dintorno mi guardò, come talentoavesse di veder s'altri era meco;e poi che 'l sospecciar fu tutto spento,piangendo disse: «Se per questo ciecocarcere vai per altezza d'ingegno,mio figlio ov' è? e perché non è teco?».E io a lui: «Da me stesso non vegno:colui ch'attende là, per qui mi menaforse cui Guido vostro ebbe a disdegno».Le sue parole e 'l modo de la penam'avean di costui già letto il nome;però fu la risposta così piena.Di sùbito drizzato gridò: «Come?dicesti «elli ebbe»? non viv' elli ancora?non fiere li occhi suoi lo dolce lume?».Quando s'accorse d'alcuna dimorach'io facëa dinanzi a la risposta,supin ricadde e più non parve fora.Ma quell' altro magnanimo, a cui postarestato m'era, non mutò aspetto,né mosse collo, né piegò sua costa;e sé continüando al primo detto,«S'elli han quell' arte», disse, «male appresa,ciò mi tormenta più che questo letto.Ma non cinquanta volte fia raccesala faccia de la donna che qui regge,che tu saprai quanto quell' arte pesa.E se tu mai nel dolce mondo regge,dimmi: perché quel popolo è sì empioincontr' a' miei in ciascuna sua legge?».Ond' io a lui: «Lo strazio e 'l grande scempioche fece l'Arbia colorata in rosso,tal orazion fa far nel nostro tempio».Poi ch'ebbe sospirando il capo mosso,«A ciò non fu' io sol», disse, «né certosanza cagion con li altri sarei mosso.Ma fu' io solo, là dove soffertofu per ciascun di tòrre via Fiorenza,colui che la difesi a viso aperto».«Deh, se riposi mai vostra semenza»,prega' io lui, «solvetemi quel nodoche qui ha 'nviluppata mia sentenza.El par che voi veggiate, se ben odo,dinanzi quel che 'l tempo seco adduce,e nel presente tenete altro modo».«Noi veggiam, come quei c'ha mala luce,le cose», disse, «che ne son lontano;cotanto ancor ne splende il sommo duce.Quando s'appressano o son, tutto è vanonostro intelletto; e s'altri non ci apporta,nulla sapem di vostro stato umano.Però comprender puoi che tutta mortafia nostra conoscenza da quel puntoche del futuro fia chiusa la porta».Allor, come di mia colpa compunto,dissi: «Or direte dunque a quel cadutoche 'l suo nato è co' vivi ancor congiunto;e s'i' fui, dianzi, a la risposta muto,fate i saper che 'l fei perché pensavagià ne l'error che m'avete soluto».E già 'l maestro mio mi richiamava;per ch'i' pregai lo spirto più avaccioche mi dicesse chi con lu' istava.Dissemi: «Qui con più di mille giaccio:qua dentro è 'l secondo Federicoe 'l Cardinale; e de li altri mi taccio».Indi s'ascose; e io inver' l'anticopoeta volsi i passi, ripensandoa quel parlar che mi parea nemico.Elli si mosse; e poi, così andando,mi disse: «Perché se' tu sì smarrito?».E io li sodisfeci al suo dimando.«La mente tua conservi quel ch'uditohai contra te», mi comandò quel saggio;«e ora attendi qui», e drizzò 'l dito:«quando sarai dinanzi al dolce raggiodi quella il cui bell' occhio tutto vede,da lei saprai di tua vita il vïaggio».Appresso mosse a man sinistra il piede:lasciammo il muro e gimmo inver' lo mezzoper un sentier ch'a una valle fiede,che 'nfin là sù facea spiacer suo lezzo. |