BIBLIOTHECA AUGUSTANA

 

Silvio Pellico

1789 - 1854

 

Le mie prigioni

 

1832

 

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[119]

Capo XXXVI.

 

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LA risposta venne col caffè. Saltai al collo di Tremerello, e gli dissi con tenerezza: Iddio ti rimuneri di tanta carità!. – I miei sospetti su lui e sull'incognito s'erano dissipati, non so né anche dir perchè; perché m'erano odiosi; perchè, avendo la cautela di non parlar mai follemente di politica, m'apparivano inutili; perchè, mentre sono ammiratore dell'ingegno di Tacito, ho tuttavia pochissima fede nella giustezza del taciteggiare, del veder molto le cose in nero.

Giuliano (così piacque allo scrivente di firmarsi) cominciava la lettera con un preambolo di gentilezze, e si diceva senza alcuna inquie­tudine sull'impreso carteggio. Indi scherzava dapprima moderatamente sul mio esitare, poi lo scherzo acquistava alcun che di pungente. Alfine, dopo un eloquente elogio sulla sincerità, mi dimandava perdono se non potea nascondermi il dispiacere che avea provato, ravvisando in [120] me, diceva egli, una certa scrupolosa titubanza, una certa cristiana sottigliezza di coscienza, che non può accordarsi con vera filosofia.

«Vi stimerò sempre, soggiungeva egli, quand'anche non possiamo accordarci su ciò; ma la sincerità che professo m'obbliga a dirvi che non ho religione, che le abborro tutte, che prendo per modestia il nome di Giuliano, perchè quel buon imperadore era nemico de' Cristiani, ma che realmente io vado molto più in là di lui. Il coronato Giuliano credeva in Dio, ed aveva certe sue bigotteríe. Io non ne ho alcuna, non credo in Dio, pongo ogni virtù nell'amare la verità e chi la cerca, e nell'odiare chi non mi piace.»

E di questa foggia continuando, non recava ragioni di nulla, inveiva a dritto e a rovescio contro il Cristianesimo, lodava con pomposa energia l'altezza della virtù irreligiosa, e prendeva con istile, parte serio e parte faceto, a far l'elogio dell'imperadore Giuliano per la sua apostasia e pel filantropico tentativo di cancellare dalla terra tutte le tracce del Vangelo.

Temendo quindi d'aver troppo urtate le mie opinioni, tornava a dimandarmi perdono e a declamare contro la tanto frequente mancanza [121] di sincerità. Ripeteva il suo grandissimo desiderio di stare in relazione con me, e mi salutava.

Una poscritta diceva: – Non ho altri scrupoli, se non di non essere schietto abbastanza. Non posso quindi tacervi, di sospettare, che il linguaggio cristiano che teneste meco sia finzione. Lo bramo ardentemente. In tal caso gettate la maschera; v'ho dato l'esempio. –

Non saprei dire l'effetto strano che mi fece quella lettera. Io palpitava come un innamorato ai primi periodi: una mano di ghiaccio sembrò quindi stringermi il cuore. Quel sarcasmo sulla mia coscienziosità m'offese. Mi pentii d'aver aperta una relazione con siffatt'uomo: io che dispregio tanto il cinismo! io che lo credo la più infilosofica, la più villana di tutte le tendenze! io, a cui l'arroganza impone sì poco!

Letta l'ultima parola, pigliai la lettera fra il pollice e l'indice d'una mano, ed il pollice e l'indice dell'altra, ed alzando la mano sinistra tirai giù rapidamente la destra, cosicchè ciascuna delle due mani rimase in possesso d'una mezza lettera.