Dante Alighieri
1265 - 1321
|
La Divina commedia
Paradiso
|
______________________________________________________________________________
|
|
|
Canto I
Comincia la terza cantica de la Commedia di Dante Alaghiere di Fiorenza, ne la quale si tratta de' beati e de la celestiale gloria e de' meriti e premi de' santi, e dividesi in nove parti. Canto primo, nel cui principio l'auttore proemizza a la seguente cantica; e sono ne lo elemento del fuoco e Beatrice solve a l'auttore una questione; nel quale canto l'auttore promette di trattare de le cose divine invocando la scienza poetica, cioè Appollo chiamato il deo de la Sapienza.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, par. 1 (disegno, 1485/90)
|
369121518212427303336394245485154576063666972757881848790939699102105108111114117120123126129132135138141 |
La gloria di colui che tutto moveper l'universo penetra, e risplendein una parte più e meno altrove.Nel ciel che più de la sua luce prendefu' io, e vidi cose che ridirené sa né può chi di là sù discende;perché appressando sé al suo disire,nostro intelletto si profonda tanto,che dietro la memoria non può ire.Veramente quant' io del regno santone la mia mente potei far tesoro,sarà ora materia del mio canto.O buono Appollo, a l'ultimo lavorofammi del tuo valor sì fatto vaso,come dimandi a dar l'amato alloro.Infino a qui l'un giogo di Parnasoassai mi fu; ma or con amenduem'è uopo intrar ne l'aringo rimaso.Entra nel petto mio, e spira tuesì come quando Marsïa traestide la vagina de le membra sue.O divina virtù, se mi ti prestitanto che l'ombra del beato regnosegnata nel mio capo io manifesti,vedra'mi al piè del tuo diletto legnovenire, e coronarmi de le foglieche la materia e tu mi farai degno.Sì rade volte, padre, se ne coglieper trïunfare o cesare o poeta,colpa e vergogna de l'umane voglie,che parturir letizia in su la lietadelfica deïtà dovria la frondapeneia, quando alcun di sé asseta.Poca favilla gran fiamma seconda:forse di retro a me con miglior vocisi pregherà perché Cirra risponda.Surge ai mortali per diverse focila lucerna del mondo; ma da quellache quattro cerchi giugne con tre croci,con miglior corso e con migliore stellaesce congiunta, e la mondana cerapiù a suo modo tempera e suggella.Fatto avea di là mane e di qua seratal foce, e quasi tutto era là biancoquello emisperio, e l'altra parte nera,quando Beatrice in sul sinistro fiancovidi rivolta e riguardar nel sole:aguglia sì non li s'affisse unquanco.E sì come secondo raggio suoleuscir del primo e risalire in suso,pur come pelegrin che tornar vuole,così de l'atto suo, per li occhi infusone l'imagine mia, il mio si fece,e fissi li occhi al sole oltre nostr' uso.Molto è licito là, che qui non lecea le nostre virtù, mercé del locofatto per proprio de l'umana spece.Io nol soffersi molto, né sì poco,ch'io nol vedessi sfavillar dintorno,com' ferro che bogliente esce del foco;e di sùbito parve giorno a giornoessere aggiunto, come quei che puoteavesse il ciel d'un altro sole addorno.Beatrice tutta ne l'etterne rotefissa con li occhi stava; e io in leile luci fissi, di là sù rimote.Nel suo aspetto tal dentro mi fei,qual si fé Glauco nel gustar de l'erbache 'l fé consorto in mar de li altri dèi.Trasumanar significar per verbanon si poria; però l'essemplo bastia cui esperïenza grazia serba.S'i' era sol di me quel che creastinovellamente, amor che 'l ciel governi,tu 'l sai, che col tuo lume mi levasti.Quando la rota che tu sempiternidesiderato, a sé mi fece attesocon l'armonia che temperi e discerni,parvemi tanto allor del cielo accesode la fiamma del sol, che pioggia o fiumelago non fece alcun tanto disteso.La novità del suono e 'l grande lumedi lor cagion m'accesero un disiomai non sentito di cotanto acume.Ond' ella, che vedea me sì com' io,a quïetarmi l'animo commosso,pria ch'io a dimandar, la bocca aprioe cominciò: «Tu stesso ti fai grossocol falso imaginar, sì che non vediciò che vedresti se l'avessi scosso.Tu non se' in terra, sì come tu credi;ma folgore, fuggendo il proprio sito,non corse come tu ch'ad esso riedi».S'io fui del primo dubbio disvestitoper le sorrise parolette brevi,dentro ad un nuovo più fu' inretitoe dissi: «Già contento requïevidi grande ammirazion; ma ora ammirocom' io trascenda questi corpi levi».Ond' ella, appresso d'un pïo sospiro,li occhi drizzò ver' me con quel sembianteche madre fa sovra figlio deliro,e cominciò: «Le cose tutte quantehanno ordine tra loro, e questo è formache l'universo a Dio fa simigliante.Qui veggion l'alte creature l'ormade l'etterno valore, il qual è fineal quale è fatta la toccata norma.Ne l'ordine ch'io dico sono acclinetutte nature, per diverse sorti,più al principio loro e men vicine;onde si muovono a diversi portiper lo gran mar de l'essere, e ciascunacon istinto a lei dato che la porti.Questi ne porta il foco inver' la luna;questi ne' cor mortali è permotore;questi la terra in sé stringe e aduna;né pur le creature che son fored'intelligenza quest' arco saetta,ma quelle c'hanno intelletto e amore.La provedenza, che cotanto assetta,del suo lume fa 'l ciel sempre quïetonel qual si volge quel c'ha maggior fretta;e ora lì, come a sito decreto,cen porta la virtù di quella cordache ciò che scocca drizza in segno lieto.Vero è che, come forma non s'accordamolte fïate a l'intenzion de l'arte,perch' a risponder la materia è sorda,così da questo corso si dipartetalor la creatura, c'ha poderedi piegar, così pinta, in altra parte;e sì come veder si può caderefoco di nube, sì l'impeto primol'atterra torto da falso piacere.Non dei più ammirar, se bene stimo,lo tuo salir, se non come d'un rivose d'alto monte scende giuso ad imo.Maraviglia sarebbe in te se, privod'impedimento, giù ti fossi assiso,com' a terra quïete in foco vivo».Quinci rivolse inver' lo cielo il viso. |