Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Purgatorio
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Canto XXVI
Canto XXVI, dove tratta di quello medesimo girone e del purgamento de' predetti peccati e vizi lussuriosi; dove nomina messer Guido Guinizzelli da Bologna e molti altri.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, pur. 26 (disegno, 1485/90)
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Mentre che sì per l'orlo, uno innanzi altro,ce n'andavamo, e spesso il buon maestrodiceami: «Guarda: giovi ch'io ti scaltro»;feriami il sole in su l'omero destro,che già, raggiando, tutto l'occidentemutava in bianco aspetto di cilestro;e io facea con l'ombra più roventeparer la fiamma; e pur a tanto indiziovidi molt' ombre, andando, poner mente.Questa fu la cagion che diede inizioloro a parlar di me; e cominciarsia dir: «Colui non par corpo fittizio»;poi verso me, quanto potëan farsi,certi si fero, sempre con riguardodi non uscir dove non fosser arsi.«O tu che vai, non per esser più tardo,ma forse reverente, a li altri dopo,rispondi a me che 'n sete e 'n foco ardo.Né solo a me la tua risposta è uopo;ché tutti questi n'hanno maggior seteche d'acqua fredda Indo o Etïopo.Dinne com' è che fai di te pareteal sol, pur come tu non fossi ancoradi morte intrato dentro da la rete».Sì mi parlava un d'essi; e io mi foragià manifesto, s'io non fossi attesoad altra novità ch'apparve allora;ché per lo mezzo del cammino accesovenne gente col viso incontro a questa,la qual mi fece a rimirar sospeso.Lì veggio d'ogne parte farsi prestaciascun' ombra e basciarsi una con unasanza restar, contente a brieve festa;così per entro loro schiera brunas'ammusa l'una con l'altra formica,forse a spïar lor via e lor fortuna.Tosto che parton l'accoglienza amica,prima che 'l primo passo lì trascorra,sopragridar ciascuna s'affatica:la nova gente: «Soddoma e Gomorra»;e l'altra: «Ne la vacca entra Pasife,perché 'l torello a sua lussuria corra».Poi, come grue ch'a le montagne Rifevolasser parte, e parte inver' l'arene,queste del gel, quelle del sole schife,l'una gente sen va, l'altra sen vene;e tornan, lagrimando, a' primi cantie al gridar che più lor si convene;e raccostansi a me, come davanti,essi medesmi che m'avean pregato,attenti ad ascoltar ne' lor sembianti.Io, che due volte avea visto lor grato,incominciai: «O anime sicured'aver, quando che sia, di pace stato,non son rimase acerbe né maturele membra mie di là, ma son qui mecocol sangue suo e con le sue giunture.Quinci sù vo per non esser più cieco;donna è di sopra che m'acquista grazia,per che 'l mortal per vostro mondo reco.Ma se la vostra maggior voglia saziatosto divegna, sì che 'l ciel v'alberghich'è pien d'amore e più ampio si spazia,ditemi, acciò ch'ancor carte ne verghi,chi siete voi, e chi è quella turbache se ne va di retro a' vostri terghi».Non altrimenti stupido si turbalo montanaro, e rimirando ammuta,quando rozzo e salvatico s'inurba,che ciascun' ombra fece in sua paruta;ma poi che furon di stupore scarche,lo qual ne li alti cuor tosto s'attuta,«Beato te, che de le nostre marche»,ricominciò colei che pria m'inchiese,«per morir meglio, esperïenza imbarche!La gente che non vien con noi, offesedi ciò per che già Cesar, trïunfando,«Regina» contra sé chiamar s'intese:però si parton «Soddoma» gridando,rimproverando a sé com' hai udito,e aiutan l'arsura vergognando.Nostro peccato fu ermafrodito;ma perché non servammo umana legge,seguendo come bestie l'appetito,in obbrobrio di noi, per noi si legge,quando partinci, il nome di coleiche s'imbestiò ne le 'mbestiate schegge.Or sai nostri atti e di che fummo rei:se forse a nome vuo' saper chi semo,tempo non è di dire, e non saprei.Farotti ben di me volere scemo:son Guido Guinizzelli, e già mi purgoper ben dolermi prima ch'a lo stremo».Quali ne la tristizia di Ligurgosi fer due figli a riveder la madre,tal mi fec' io, ma non a tanto insurgo,quand' io odo nomar sé stesso il padremio e de li altri miei miglior che mairime d'amore usar dolci e leggiadre;e sanza udire e dir pensoso andailunga fïata rimirando lui,né, per lo foco, in là più m'appressai.Poi che di riguardar pasciuto fui,tutto m'offersi pronto al suo servigiocon l'affermar che fa credere altrui.Ed elli a me: «Tu lasci tal vestigio,per quel ch'i' odo, in me, e tanto chiaro,che Letè nol può tòrre né far bigio.Ma se le tue parole or ver giuraro,dimmi che è cagion per che dimostrinel dire e nel guardar d'avermi caro».E io a lui: «Li dolci detti vostri,che, quanto durerà l'uso moderno,faranno cari ancora i loro incostri».«O frate», disse, «questi ch'io ti cernocol dito», e additò un spirto innanzi,«fu miglior fabbro del parlar materno.Versi d'amore e prose di romanzisoverchiò tutti; e lascia dir li stoltiche quel di Lemosì credon ch'avanzi.A voce più ch'al ver drizzan li volti,e così ferman sua oppinïoneprima ch'arte o ragion per lor s'ascolti.Così fer molti antichi di Guittone,di grido in grido pur lui dando pregio,fin che l'ha vinto il ver con più persone.Or se tu hai sì ampio privilegio,che licito ti sia l'andare al chiostronel quale è Cristo abate del collegio,falli per me un dir d'un paternostro,quanto bisogna a noi di questo mondo,dove poter peccar non è più nostro».Poi, forse per dar luogo altrui secondoche presso avea, disparve per lo foco,come per l'acqua il pesce andando al fondo.Io mi fei al mostrato innanzi un poco,e dissi ch'al suo nome il mio disireapparecchiava grazïoso loco.El cominciò liberamente a dire:«Tan m'abellis vostre cortes deman,qu'ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;consiros vei la passada folor,e vei jausen lo joi qu'esper, denan.Ara vos prec, per aquella valorque vos guida al som de l'escalina,sovenha vos a temps de ma dolor!».Poi s'ascose nel foco che li affina. |