Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Purgatorio
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Canto XXI
Canto XXI, ove si tratta del sopradetto quinto girone, dove si punisce e purga la predetta colpa de l'avarizia e la colpa de la prodigalitade; dove truova Stazio poeta tolosano.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, pur. 21 (disegno, 1485/90)
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La sete natural che mai non saziase non con l'acqua onde la femminettasamaritana domandò la grazia,mi travagliava, e pungeami la frettaper la 'mpacciata via dietro al mio duca,e condoleami a la giusta vendetta.Ed ecco, sì come ne scrive Lucache Cristo apparve a' due ch'erano in via,già surto fuor de la sepulcral buca,ci apparve un'ombra, e dietro a noi venìa,dal piè guardando la turba che giace;né ci addemmo di lei, sì parlò pria,dicendo: «O frati miei, Dio vi dea pace».Noi ci volgemmo sùbiti, e Virgiliorendéli 'l cenno ch'a ciò si conface.Poi cominciò: «Nel beato concilioti ponga in pace la verace corteche me rilega ne l'etterno essilio».«Come!», diss' elli, e parte andavam forte:«se voi siete ombre che Dio sù non degni,chi v'ha per la sua scala tanto scorte?».E 'l dottor mio: «Se tu riguardi a' segniche questi porta e che l'angel profila,ben vedrai che coi buon convien ch'e' regni.Ma perché lei che dì e notte filanon li avea tratta ancora la conocchiache Cloto impone a ciascuno e compila,l'anima sua, ch'è tua e mia serocchia,venendo sù, non potea venir sola,però ch'al nostro modo non adocchia.Ond' io fui tratto fuor de l'ampia golad'inferno per mostrarli, e mosterrollioltre, quanto 'l potrà menar mia scola.Ma dimmi, se tu sai, perché tai crollidiè dianzi 'l monte, e perché tutto ad unaparve gridare infino a' suoi piè molli».Sì mi diè, dimandando, per la crunadel mio disio, che pur con la speranzasi fece la mia sete men digiuna.Quei cominciò: «Cosa non è che sanzaordine senta la religïonede la montagna, o che sia fuor d'usanza.Libero è qui da ogne alterazione:di quel che 'l ciel da sé in sé riceveesser ci puote, e non d'altro, cagione.Per che non pioggia, non grando, non neve,non rugiada, non brina più sù cadeche la scaletta di tre gradi breve;nuvole spesse non paion né rade,né coruscar, né figlia di Taumante,che di là cangia sovente contrade;secco vapor non surge più avantech'al sommo d'i tre gradi ch'io parlai,dov' ha 'l vicario di Pietro le piante.Trema forse più giù poco o assai;ma per vento che 'n terra si nasconda,non so come, qua sù non tremò mai.Tremaci quando alcuna anima mondasentesi, sì che surga o che si movaper salir sù; e tal grido seconda.De la mondizia sol voler fa prova,che, tutto libero a mutar convento,l'alma sorprende, e di voler le giova.Prima vuol ben, ma non lascia il talentoche divina giustizia, contra voglia,come fu al peccar, pone al tormento.E io, che son giaciuto a questa dogliacinquecent' anni e più, pur mo sentiilibera volontà di miglior soglia:però sentisti il tremoto e li piispiriti per lo monte render lodea quel Segnor, che tosto sù li 'nvii».Così ne disse; e però ch'el si godetanto del ber quant' è grande la sete,non saprei dir quant' el mi fece prode.E 'l savio duca: «Omai veggio la reteche qui vi 'mpiglia e come si scalappia,perché ci trema e di che congaudete.Ora chi fosti, piacciati ch'io sappia,e perché tanti secoli giaciutoqui se', ne le parole tue mi cappia».«Nel tempo che 'l buon Tito, con l'aiutodel sommo rege, vendicò le fóraond' uscì 'l sangue per Giuda venduto,col nome che più dura e più onoraera io di là», rispuose quello spirto,«famoso assai, ma non con fede ancora.Tanto fu dolce mio vocale spirto,che, tolosano, a sé mi trasse Roma,dove mertai le tempie ornar di mirto.Stazio la gente ancor di là mi noma:cantai di Tebe, e poi del grande Achille;ma caddi in via con la seconda soma.Al mio ardor fuor seme le faville,che mi scaldar, de la divina fiammaonde sono allumati più di mille;de l'Eneïda dico, la qual mammafummi, e fummi nutrice, poetando:sanz' essa non fermai peso di dramma.E per esser vivuto di là quandovisse Virgilio, assentirei un solepiù che non deggio al mio uscir di bando».Volser Virgilio a me queste parolecon viso che, tacendo, disse Taci;ma non può tutto la virtù che vuole;ché riso e pianto son tanto seguacia la passion di che ciascun si spicca,che men seguon voler ne' più veraci.Io pur sorrisi come l'uom ch'ammicca;per che l'ombra si tacque, e riguardommine li occhi ove 'l sembiante più si ficca;e «Se tanto labore in bene assommi»,disse, «perché la tua faccia testesoun lampeggiar di riso dimostrommi?».Or son io d'una parte e d'altra preso:l'una mi fa tacer, l'altra scongiurach'io dica; ond' io sospiro, e sono intesodal mio maestro, e «Non aver paura»,mi dice, «di parlar; ma parla e digliquel ch'e' dimanda con cotanta cura».Ond' io: «Forse che tu ti maravigli,antico spirto, del rider ch'io fei;ma più d'ammirazion vo' che ti pigli.Questi che guida in alto li occhi miei,è quel Virgilio dal qual tu togliestiforte a cantar de li uomini e d'i dèi.Se cagion altra al mio rider credesti,lasciala per non vera, ed esser crediquelle parole che di lui dicesti».Già s'inchinava ad abbracciar li piedial mio dottor, ma el li disse: «Frate,non far, ché tu se' ombra e ombra vedi».Ed ei surgendo: «Or puoi la quantitatecomprender de l'amor ch'a te mi scalda,quand' io dismento nostra vanitate,trattando l'ombre come cosa salda». |