Dante Alighieri
1265 - 1321
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La Divina commedia
Inferno
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Canto XXXIV
Canto XXXIV e ultimo de la prima cantica di Dante Alleghieri di Fiorenza, nel qual canto tratta di Belzebù principe de' dimoni e de' traditori di loro signori, e narra come uscie de l'inferno.
Sandro Botticelli, Divina Commedia, inf. 34.55 (disegno, 1485/90)
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«V;">exilla regis prodeunt inferniverso di noi; però dinanzi mira»,disse 'l maestro mio, «se tu 'l discerni».Come quando una grossa nebbia spira,o quando l'emisperio nostro annotta,par di lungi un molin che 'l vento gira,veder mi parve un tal dificio allotta;poi per lo vento mi ristrinsi retroal duca mio, ché non lì era altra grotta.Già era, e con paura il metto in metro,là dove l'ombre tutte eran coperte,e trasparien come festuca in vetro.Altre sono a giacere; altre stanno erte,quella col capo e quella con le piante;altra, com' arco, il volto a' piè rinverte.Quando noi fummo fatti tanto avante,ch'al mio maestro piacque di mostrarmila creatura ch'ebbe il bel sembiante,d'innanzi mi si tolse e fé restarmi,«Ecco Dite», dicendo, «ed ecco il locoove convien che di fortezza t'armi».Com' io divenni allor gelato e fioco,nol dimandar, lettor, ch'i' non lo scrivo,però ch'ogne parlar sarebbe poco.Io non mori' e non rimasi vivo;pensa oggimai per te, s'hai fior d'ingegno,qual io divenni, d'uno e d'altro privo.Lo 'mperador del doloroso regnoda mezzo 'l petto uscia fuor de la ghiaccia;e più con un gigante io mi convegno,che i giganti non fan con le sue braccia:vedi oggimai quant' esser dee quel tuttoch'a così fatta parte si confaccia.S'el fu sì bel com' elli è ora brutto,e contra 'l suo fattore alzò le ciglia,ben dee da lui procedere ogne lutto.Oh quanto parve a me gran maravigliaquand' io vidi tre facce a la sua testa!L'una dinanzi, e quella era vermiglia;l'altr' eran due, che s'aggiugnieno a questasovresso 'l mezzo di ciascuna spalla,e sé giugnieno al loco de la cresta:e la destra parea tra bianca e gialla;la sinistra a vedere era tal, qualivegnon di là onde 'l Nilo s'avvalla.Sotto ciascuna uscivan due grand' ali,quanto si convenia a tanto uccello:vele di mar non vid' io mai cotali.Non avean penne, ma di vispistrelloera lor modo; e quelle svolazzava,sì che tre venti si movean da ello:quindi Cocito tutto s'aggelava.Con sei occhi piangëa, e per tre mentigocciava 'l pianto e sanguinosa bava.Da ogne bocca dirompea co' dentiun peccatore, a guisa di maciulla,sì che tre ne facea così dolenti.A quel dinanzi il mordere era nullaverso 'l graffiar, che talvolta la schienarimanea de la pelle tutta brulla.«Quell' anima là sù c'ha maggior pena»,disse 'l maestro, «è Giuda Scarïotto,che 'l capo ha dentro e fuor le gambe mena.De li altri due c'hanno il capo di sotto,quel che pende dal nero ceffo è Bruto:vedi come si storce, e non fa motto!;e l'altro è Cassio, che par sì membruto.Ma la notte risurge, e oramaiè da partir, ché tutto avem veduto».Com' a lui piacque, il collo li avvinghiai;ed el prese di tempo e loco poste,e quando l'ali fuoro aperte assai,appigliò sé a le vellute coste;di vello in vello giù discese posciatra 'l folto pelo e le gelate croste.Quando noi fummo là dove la cosciasi volge, a punto in sul grosso de l'anche,lo duca, con fatica e con angoscia,volse la testa ov' elli avea le zanche,e aggrappossi al pel com' om che sale,sì che 'n inferno i' credea tornar anche.«Attienti ben, ché per cotali scale»,disse 'l maestro, ansando com' uom lasso,«conviensi dipartir da tanto male».Poi uscì fuor per lo fóro d'un sassoe puose me in su l'orlo a sedere;appresso porse a me l'accorto passo.Io levai li occhi e credetti vedereLucifero com' io l'avea lasciato,e vidili le gambe in sù tenere;e s'io divenni allora travagliato,la gente grossa il pensi, che non vedequal è quel punto ch'io avea passato.«Lèvati sù», disse 'l maestro, «in piede:la via è lunga e 'l cammino è malvagio,e già il sole a mezza terza riede».Non era camminata di palagiolà 'v' eravam, ma natural burellach'avea mal suolo e di lume disagio.«Prima ch'io de l'abisso mi divella,maestro mio», diss' io quando fui dritto,«a trarmi d'erro un poco mi favella:ov' è la ghiaccia? e questi com' è fittosì sottosopra? e come, in sì poc' ora,da sera a mane ha fatto il sol tragitto?».Ed elli a me: «Tu imagini ancorad'esser di là dal centro, ov' io mi presial pel del vermo reo che 'l mondo fóra.Di là fosti cotanto quant' io scesi;quand' io mi volsi, tu passasti 'l puntoal qual si traggon d'ogne parte i pesi.E se' or sotto l'emisperio giuntoch'è contraposto a quel che la gran seccacoverchia, e sotto 'l cui colmo consuntofu l'uom che nacque e visse sanza pecca;tu haï i piedi in su picciola sperache l'altra faccia fa de la Giudecca.Qui è da man, quando di là è sera;e questi, che ne fé scala col pelo,fitto è ancora sì come prim' era.Da questa parte cadde giù dal cielo;e la terra, che pria di qua si sporse,per paura di lui fé del mar velo,e venne a l'emisperio nostro; e forseper fuggir lui lasciò qui loco vòtoquella ch'appar di qua, e sù ricorse».Luogo è là giù da Belzebù remototanto quanto la tomba si distende,che non per vista, ma per suono è notod'un ruscelletto che quivi discendeper la buca d'un sasso, ch'elli ha roso,col corso ch'elli avvolge, e poco pende.Lo duca e io per quel cammino ascosointrammo a ritornar nel chiaro mondo;e sanza cura aver d'alcun riposo,salimmo sù, el primo e io secondo,tanto ch'i' vidi de le cose belleche porta 'l ciel, per un pertugio tondo.E quindi uscimmo a riveder le stelle. |