Dante Alighieri
1265 - 1321
|
La Divina commedia
Inferno
|
______________________________________________________________________________
|
|
|
Canto XIV
Canto XIV, ove tratta de la qualità del terzo girone, contento nel settimo circulo; e quivi si puniscono coloro che fanno forza ne la deitade, negando e bestemmiando quella; e nomina qui spezialmente il re Capaneo scelleratissimo in questo preditto peccato.
|
369121518212427303336394245485154576063666972757881848790939699102105108111114117120123126129132135138141 |
Poi che la carità del natio locomi strinse, raunai le fronde spartee rende'le a colui, ch'era già fioco.Indi venimmo al fine ove si partelo secondo giron dal terzo, e dovesi vede di giustizia orribil arte.A ben manifestar le cose nove,dico che arrivammo ad una landache dal suo letto ogne pianta rimove.La dolorosa selva l'è ghirlandaintorno, come 'l fosso tristo ad essa;quivi fermammo i passi a randa a randa.Lo spazzo era una rena arida e spessa,non d'altra foggia fatta che coleiche fu da' piè di Caton già soppressa.O vendetta di Dio, quanto tu deiesser temuta da ciascun che leggeciò che fu manifesto a li occhi mei!D'anime nude vidi molte greggeche piangean tutte assai miseramente,e parea posta lor diversa legge.Supin giacea in terra alcuna gente,alcuna si sedea tutta raccolta,e altra andava continüamente.Quella che giva 'ntorno era più molta,e quella men che giacëa al tormento,ma più al duolo avea la lingua sciolta.Sovra tutto 'l sabbion, d'un cader lento,piovean di foco dilatate falde,come di neve in alpe sanza vento.Quali Alessandro in quelle parti calded'Indïa vide sopra 'l süo stuolofiamme cadere infino a terra salde,per ch'ei provide a scalpitar lo suolocon le sue schiere, acciò che lo vaporemei si stingueva mentre ch'era solo:tale scendeva l'etternale ardore;onde la rena s'accendea, com' escasotto focile, a doppiar lo dolore.Sanza riposo mai era la trescade le misere mani, or quindi or quinciescotendo da sé l'arsura fresca.I' cominciai: «Maestro, tu che vincitutte le cose, fuor che ' demon durich'a l'intrar de la porta incontra uscinci,chi è quel grande che non par che curilo 'ncendio e giace dispettoso e torto,sì che la pioggia non par che 'l marturi?».E quel medesmo, che si fu accortoch'io domandava il mio duca di lui,gridò: «Qual io fui vivo, tal son morto.Se Giove stanchi 'l suo fabbro da cuicrucciato prese la folgore agutaonde l'ultimo dì percosso fui;o s'elli stanchi li altri a muta a mutain Mongibello a la focina negra,chiamando «Buon Vulcano, aiuta, aiuta!»,sì com' el fece a la pugna di Flegra,e me saetti con tutta sua forza:non ne potrebbe aver vendetta allegra».Allora il duca mio parlò di forzatanto, ch'i' non l'avea sì forte udito:«O Capaneo, in ciò che non s'ammorzala tua superbia, se' tu più punito;nullo martiro, fuor che la tua rabbia,sarebbe al tuo furor dolor compito».Poi si rivolse a me con miglior labbia,dicendo: «Quei fu l'un d'i sette regich'assiser Tebe; ed ebbe e par ch'elli abbiaDio in disdegno, e poco par che 'l pregi;ma, com' io dissi lui, li suoi dispettisono al suo petto assai debiti fregi.Or mi vien dietro, e guarda che non metti,ancor, li piedi ne la rena arsiccia;ma sempre al bosco tien li piedi stretti».Tacendo divenimmo là 've spicciafuor de la selva un picciol fiumicello,lo cui rossore ancor mi raccapriccia.Quale del Bulicame esce ruscelloche parton poi tra lor le peccatrici,tal per la rena giù sen giva quello.Lo fondo suo e ambo le pendicifatt' era 'n pietra, e ' margini dallato;per ch'io m'accorsi che 'l passo era lici.«Tra tutto l'altro ch'i' t'ho dimostrato,poscia che noi intrammo per la portalo cui sogliare a nessuno è negato,cosa non fu da li tuoi occhi scortanotabile com' è 'l presente rio,che sovra sé tutte fiammelle ammorta».Queste parole fuor del duca mio;per ch'io 'l pregai che mi largisse 'l pastodi cui largito m'avëa il disio.«In mezzo mar siede un paese guasto»,diss' elli allora, «che s'appella Creta,sotto 'l cui rege fu già 'l mondo casto.Una montagna v'è che già fu lietad'acqua e di fronde, che si chiamò Ida;or è diserta come cosa vieta.Rëa la scelse già per cuna fidadel suo figliuolo, e per celarlo meglio,quando piangea, vi facea far le grida.Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,che tien volte le spalle inver' Dammiatae Roma guarda come süo speglio.La sua testa è di fin oro formata,e puro argento son le braccia e 'l petto,poi è di rame infino a la forcata;da indi in giuso è tutto ferro eletto,salvo che 'l destro piede è terra cotta;e sta 'n su quel, più che 'n su l'altro, eretto.Ciascuna parte, fuor che l'oro, è rottad'una fessura che lagrime goccia,le quali, accolte, fóran quella grotta.Lor corso in questa valle si diroccia;fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;poi sen van giù per questa stretta doccia,infin, là ove più non si dismonta,fanno Cocito; e qual sia quello stagnotu lo vedrai, però qui non si conta».E io a lui: «Se 'l presente rigagnosi diriva così dal nostro mondo,perché ci appar pur a questo vivagno?».Ed elli a me: «Tu sai che 'l loco è tondo;e tutto che tu sie venuto molto,pur a sinistra, giù calando al fondo,non se' ancor per tutto 'l cerchio vòlto;per che, se cosa n'apparisce nova,non de' addur maraviglia al tuo volto».E io ancor: «Maestro, ove si trovaFlegetonta e Letè? ché de l'un taci,e l'altro di' che si fa d'esta piova».«In tutte tue question certo mi piaci»,rispuose, «ma 'l bollor de l'acqua rossadovea ben solver l'una che tu faci.Letè vedrai, ma fuor di questa fossa,là dove vanno l'anime a lavarsiquando la colpa pentuta è rimossa».Poi disse: «Omai è tempo da scostarsidal bosco; fa che di retro a me vegne:li margini fan via, che non son arsi,e sopra loro ogne vapor si spegne». |