BIBLIOTHECA AUGUSTANA

 

Brunetto Latini

ca. 1220 - 1294/95

 

La Rettorica

 

Versione electronica:

Giuseppe Bonghi,

Biblioteca dei Classici Italiani

(Il sito della Biblioteca non è

purtroppo più raggiungibile)

 

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Qui comincia lo 'nsegnamento di rettorica,

lo quale è ritratto in vulgare de' libri di Tullio

e di molti filosofi per ser Burnetto Latino da Firenze.

Là dove è la lettera grossa si è il testo di Tullio,

e la lettera sottile sono le parole de lo sponitore.

Incomincia il prologo.

 

 

Argomento 1

 

Sovente e molto ò io pensato in me medesimo se lla copia del dicere e lo sommo studio della eloquenzia àe fatto più bene o più male agli uomini et alle cittadi; però che quando io considero li dannaggii del nostro comune e raccolgo nell'animo l'antiche aversitadi delle grandis­sime cittadi, veggio che non picciola parte di danni v'è messa per uomini molto parlanti sanza sapienza.

Qui parla lo sponitore.

Sponitore: Rettorica èe scienzia di due maniere: una la quale insegna dire, e di questa tratta Tulio nel suo libro; l'altra insegna dittare, e di questa, perciò che esso non ne trattò così del tutto apertamente, si nne tratterà lo sponitore nel processo del libro, in suo luogo e tempo come si converrà.

Rettorica s'insegna in due modi, altressì come l'altre scienzie, cioè di fuori e dentro. Verbigrazia: Di fuori s'insegna dimostrando che è rettorica e di che generazione, e quale sua materia e llo suo officio e le sue parti e lo suo propio strumento e la fine e lo suo artefice; et in questo modo trattò Boezio nel quarto della Topica. Dentro s'insegna questa arte quando si dimostra che ssia da ffare sopra la materia del dire e del dittare, ciò viene a dire come si debbia fare lo exordio e la narrazione e l'altre parti della dicieria o della pistola, cioè d'una lettera dittata; et in ciascuno di questi due modi ne tratta Tulio in questo suo libro. Ma in perciò che Tulio non dimostrò che sia rettorica né quale è 'l suo artefice, sì vuole lo sponitore per più chiarire l'opera dicere l'uno e l'altro.

Et èe rettorica una scienzia di bene dire, ciò è rettorica quella scienzia per la quale noi sapemo ornatamente dire e dittare. Inn altra guisa è così diffinita: Rettorica è scienzia di ben dire sopra la causa proposta, cioè per la quale noi sapemo ornatamente dire sopra la quistione aposta. Anco àe una più piena diffinizione in questo modo: Rettorica è scienza d'usare piena e perfetta eloquenzia nelle publiche cause e nelle private; ciò viene a dire scienzia per la quale noi sapemo parlare pienamente e perfettamente nelle publiche e nelle private questioni; e certo quelli parla pienamente e perfettamente che nella sua diceria mette parole adorne, piene di buone sentenzie. Publiche questioni son quelle nelle quali si tratta il convenentre d'alcuna cittade o comunanza di genti. Private sono quelle nelle quali si tratta il convenentre d'alcuna spiciale persona. E ttutta volta è lo 'ntendimento dello sponitore che queste parole sopra 'l dittare altressì come sopra 'l dire siano, advegna che tal puote sapere bene dittare che non àe ardimento o scienzia di profferere le sue parole davanti alle genti; ma chi bene sa dire puote bene sapere dittare.

Avemo detto che è rettorica, or diremo chi è lo suo artefice: dico che è doppio, uno è «rector» e l'altro è «orator». Verbigrazia: Rector è quelli che 'nsegna questa scienzia secondo le regole e' comandamenti dell'arte. Orator è colui che poi che elli àe bene appresa l'arte, sì ll'usa in dire et in dittare sopra le quistioni apposte, sì come sono li buoni parlatori e dittatori, sì come fue maestro Piero dalle Vigne, il quale perciò fue agozetto di Federigo secondo imperadore di Roma e tutto sire di lui e dello 'mperio. Onde dice Vittorino che orator, cioè lo parlatore, è uomo buono e bene insegnato di dire, lo quale usa piena e perfetta eloquenzia nelle cause publiche e private.

Ora àe detto lo sponitore che è rettorica, e del suo artifice, cioè di colui che lla mette in opera, l'uno insegnando l'altro dicendo. Omai vuole dicere chi è l'autore, cioè il trovatore di questo libro, e che fue la sua intenzione in questo libro, e di che tratta, e lla cagione per che lo libro è fatto e che utilitade e che tittolo à questo libro. L'autore di questa opera è doppio: uno che di tutti i detti de' filosofi che fuoro davanti lui e dalla viva fonte del suo ingegno fece suo libro di rettorica, ciò fue Marco Tulio Cicero, il più sapientissimo de' Romani. Il secondo è Brunetto Latino cittadino di Firenze, il quale mise tutto suo studio e suo intendimento ad isponere e chiarire ciò che Tulio avea detto; et esso è quella persona cui questo libro appella sponitore, cioè ched ispone e fae intendere, per lo suo propio detto e de' filosofi e maestri che sono passati, il libro di Tulio, e tanto più quanto all'arte bisogna di quel che fue intralasciato nel libro di Tulio, sì come il buono intenditore potràe intendere avanti.

La sua intenzione fue in questa opera dare insegnamento a colui per cui amore e' si mette a ffare questo trattato de parlare ornatamente sopra ciascuna quistione proposta.

Et e' tratta secondo la forma del libro di Tulio di tutte e V le parti generali di rettorica. Verbigrazia: Inventio, cioè trovamento di ciò che bisogna sopradire alla materia proposta; e dell'altre IIIJ secondo che sono nel secondo libro che Tulio fece ad Erennio suo amico, sopra le quali il conto dirà ciò che ssi converrà.

La cagione per che questo libro è fatto si è cotale, che questo Brunetto Latino, per cagione della guerra la quale fue tralle parti di Firenze, fue isbandito della terra quando la sua parte guelfa, la quale si tenea col papa e colla chiesa di Roma, fue cacciata e sbandita della terra. E poi si n'andò in Francia per procurare le sue vicende, e là trovò uno suo amico della sua cittade e della sua parte, molto ricco d'avere, ben costumato e pieno de grande senno, che lli fece molto onore e grande utilitade, e perciò l'appellava suo porto, sì come in molte parti di questo libro pare apertamente; et era parlatore molto buono naturalmente, e molto disiderava di sapere ciò che ' savi aveano detto intorno alla rettorica; e per lo suo amore questo Brunetto Latino, lo quale era buono intenditore di lettera et era molto intento allo studio di rettorica, si mise a ffare questa opera, nella quale mette innanzi il testo di Tulio per maggiore fermezza, e poi mette e giugne di sua scienzia e dell'altrui quello che fa mistieri.

L'utilitade di questo libro è grandissima, però che ciascuno che saprà bene ciò che comanda lo libro e l'arte, sì saprà dire interamente sopra la quistione apposta.

Il titolo di questo libro, sì come davanti appare nel cominciamento, si è cotale: Qui comincia lo 'nsegnamento di rettorica, il quale è ritratto in volgare de' libri di Tulio e di molti filosofi. E che lo titulo sia buono e perfetto assai chiaramente si dimostra per effetto d'opera, ché sanza fallo recato è in volgare il libro di Tulio e messo avanti in grossa lettera, sì come di maggiore dignitade, e poi sono recati in lettera sottile e' ditti di molti filosofi e llo 'ntendimento dello sponitore. E in questo punto si parte elli da questa materia e ritorna al propio intendimento del testo.

In questa parte dice lo sponitore che Tulio, vogliendo che rettorica fosse amata e tenuta cara, la quale al suo tempo era avuta per neente, mise davanti suo prolago in guisa di bene savi, nel quale purgò quelle cose che pareano a llui gravose. Che sì come dice Boezio nel comento sopra la Topica, chiunque scrive d'alcuna materia dee prima purgare ciò che pare a llui che sia grave, e così fece Tulio, che purgò tre cose gravose. Primieramente i mali che veniano per copia di dire; apresso la sentenzia di Platone, e poi la sentenzia d'Aristotile. La sentenzia di Platone era che rettorica non è arte, ma è natura per ciò che vedea molti buoni dicitori per natura e non per insegnamento d'arte. La sentenzia d'Aristotile fue cotale, che rettorica è arte, ma rea, per ciò che per eloquenzia parea che fosse avenuto più male che bene a' comuni e a' divisi.

Onde Tulio purgando questi tre gravi articoli procede in questo modo: Che in prima dice che sovente e molto àe pensato che effetto proviene d'eloquenzia. Nella seconda parte pruova lo bene e 'l male che 'nde venia e qual più. Nella terza parte dice tre cose: in prima dice che pare a llui di sapienzia; apresso dice che pare a llui d'eloquenzia; e poi dice che pare a llui di sapienzia et eloquenzia congiunte insieme. Nella quarta parte sì mette le pruove sopra questi tre articoli che sono detti, e conclude che noi dovemo studiare in rettorica, recando a cciò molti argomenti, li quali muovono d'onesto e d'utile e possibile e necessario. Nella quinta parte mostra Tulio di che e come elli tratterà in questo libro.

Et poi che Tulio nel suo cuminciamento ebbe detto come molte fiate e lungo tempo avea pensato del bene e del male che fosse advenuto, immantenente dice del male per accordarsi a' pensamenti delli uomini che ssi ricordano più d'uno nuovo male che di molti beni antichi; e così Tulio, mostrando di non ricordarsi delli antichi beni, s'infigne di biasmare questa scienzia per potere più di sicuro lodare e difendere. Et per le sue propie parole che sono scritte nel testo di sopra potemo intendere apertamente che in queste medesime parole ove dice che i mali che per eloquenzia sono advenuti e che non si possono celare, in quelle medesime la difende abassando e menimando la malizia. Ché là dove dice «dannaggi» sì suona che siano lievi danni de' quali poco cura la gente. Et là dove dice «del nostro comune» altressì abassa del male, acciò che più cura l'uomo del propio danno che del comune; e dicendo «nostro comune» intendo Roma, però che Tulio era cittadino di Roma nuovo e di non grande altezza; ma per lo suo senno fue in sì alto stato che tutta Roma si tenea alla sua parola, e fue al tempo di Catellina, di Pompeio e di Julio Cesare, e per lo bene della terra fue al tutto contrario a Catellina. Et poi nella guerra di Pompeio e di Julio Cesare si tenne con Pompeio, sicome tutti ' savi ch'amavano lo stato di Roma; e forse l'appella nostro comune però che Roma èe capo del mondo e comune d'ogne uomo. Et là dove dice «l'antiche adversitadi» altressì abassa il male, acciò che delli antichi danni poco curiamo. Et là dove dice «grandissime cittadi» altressì abassa 'l male, però che, sì come dice il buono poeta Lucano, nonn è conceduto alle grandissime cose durare lungamente; e l'altro dice che lle grandissime cose rovinano per lo peso di sé medesime. Et così non pare che eloquenzia sia la cagione del male che viene alle grandissime cittadi. Et là dove dice che danni sono advenuti per uomini molto parlanti sanza sapienzia, manifestamente abassa 'l male e difende rettorica, dicendo che 'l male è per cagione di molti parlanti ne' quali non regna senno; e non dice che 'l male sia per eloquenzia, ché dice Vittorino: «Questa parola eloquentia suona bene, e del bene non puote male nascere». Questo è bello colore rettorico, difendere quando mostra di biasmare, et accusare quando pare che dica lode. Et questo modo di parlare àe nome «insinuatio», del quale dicerà il libro in suo luogo. Et qui si parte il conto da quella prima parte del prologo nella quale Tulio àe detto il suo pensamento et àe detto li mali avenuti, e ritorna alla seconda parte nella quale dimostra de' beni che sono pervenuti per eloquenzia.

 

 

Argomento 2

 

Tullio: Sì come quando ordino di ritrarre dell'antiche scritte le cose che sono fatte lontane dalla nostra ricordança per loro antichezza, intendo che eloquenzia congiunta con ragione d'animo, cioè con sapienzia, piùe agevolemente àe potuto conquistare e mettere inn opera ad hedifficare cittadi, a stutare molte battaglie, fare fermissime compagnie et anovare santissime amicizie.

Sponitore: Poi che Tulio àe divisati li mali che sono per eloquenzia, sì divisa in questa parte li beni, e conta più beni che mali perciò che più intende alle lode. Et nota che dice «eloquenzia congiunta con sapienzia», però che sapienzia dà volontade di bene fare et eloquenzia il mette a compimento. L'altre parole che sono nel testo, cioè «a edifficare cittadi, a stutare molte battaglie etc.» son messe ordinatamente acciò che prima si raunaro gli uomini insieme a vivere ad una ragione et a buoni costumi et a multiplicare d'avere; e poi che furo divenuti ricchi montò tra lloro invidia e per la 'nvidia le guerre e le battaglie. Poi li savi parladori astutaro le battaglie, et apresso gli uomini fecero compagnie usando e mercatando insieme; e di queste compagnie cuminciaro a ffare ferme amicizie per eloquenzia e per sapienzia. Ma ssì come dice e signifficano queste parole, per più chiarire l'opera è bene convenevole di dimostrare qui che è cittade e che è compagno e che è amico e che è sapienzia e che è eloquenzia, perciò che llo sponitore non vuole lasciare un solo motto donde non dica tutto lo 'ntendimento.

Che è cittade. – Cittade èe uno raunamento di gente fatto per vivere a ragione; onde non sono detti cittadini d'uno medesimo comune perché siano insieme accolti dentro ad uno muro, ma quelli che insieme sono acolti a vivere ad una ragione.

Che è compagno. – Compagno è quelli che per alcuno patto si congiugne con un altro ad alcuna cosa fare; e di questi dice Vittorino che se sono fermi, per eloquenzia poi divegnono fermissimi.

Che è amico. – Amico è quelli che per uso di simile vita si congiugne con un altro per amore iusto e fedele. Verbigrazia: Acciò che alcuni siano amici conviene che siano d'una vita e d'una costumanza, e però dice «per uso di simile vita»; e dice «giusto amore» perché non sia a cagione di luxuria o d'altre laide opere; e dice «fedele amore» perché non sia per guadagneria o solo per utilitade, ma sia per constante vertude. Et così pare manifestamente che quella amistade ch'è per utilitade e per dilettamento nonn è verace, ma partesi da che 'l diletto e l'uttilitade menoma.

Che è sapienzia. – Sapienzia è comprendere la verità delle cose sì come elle sono.

Che è eloquenzia. – Eloquenzia è sapere dire addorne parole guernite di buone sentenzie.

 

 

Argomento 3

 

Tullio: Et così me lungamente pensante la ragione stessa mi mena in questa fermissima sentenza, che sapienzia sanza eloquenzia sia poco utile a le cittadi, et eloquenzia sanza sapienza è spessamente molto dampnosa e nulla fiata utile. Per la qual cosa, se alcuno intralascia li dirittissimi et onestissimi studii di ragione e d'officio e consuma tutta sua opera in usare sola parladura, cert'elli èe cittadino inutile a sé e periglioso alla sua cittade et al paese. Ma quelli il quale s'arma sìe d'eloquenzia che non possa guerriare contra il bene del paese, ma possa per esso pugnare, questo mi pare uomo e cittadino utilissimo ed amicissimo alle sue et alle publiche ragioni.

Sponitore: Poi che Tulio avea dette le prime due parti del suo prologo, sì comincia la terza parte, nella quale dice tre cose. Imprima dice che pare a llui di sapienzia, infino là dove dice: «Per la qual cosa». Et quivi comincia la seconda, nella quale dice che pare a llui d'eloquenzia, infino là ove dice: «Ma quello il quale s'arma». Et quivi comincia la terza, ne la quale dice che pare a llui dell'una e dell'altra giunte insieme.

Onde dice Vittorino: Se noi volemo mettere avacciamente in opera alcuna cosa nelle cittadi, sì ne conviene avere sapienzia giunta con eloquenzia, però che sapienzia sempre è tarda. Et questo appare manifestamente in alcuno savio che non sia parlatore, dal quale se noi domandassimo uno consiglio certo noollo darebbe tosto cosìe come se fosse bene parlante. Ma se fosse savio e parlante inmantenente ne farebbe credibile di quel che volesse. Et in ciò che dice Tulio di coloro che 'ntralasciano li studii di ragione e d'officio, intendo là dove dice «ragione» la sapienzia, e là dove dice «officio» intendo le vertudi, ciò sono prodezza, giustizia e l'altre vertudi le quali ànno officio di mettere in opera che noi siamo discreti e giusti e bene costumati. Et però chi ssi parte da sapienzia e da le vertudi e studia pure in dire le parole, di lui adviene cotale frutto che, però che non sente quel medesimo che dice, conviene che di lui avegna male e danno a ssé et al paese, però che non sa trattare le propie utilitadi né lle comuni in questo tempo e luogo et ordine che conviene. Adunque colui che ssi mette l'arme d'eloquenzia è utile a ssé et al suo paese. Per questa arme intendo la eloquenzia, e per sapienzia intendo la forza; ché sì come coll'arme ci difendiamo da' nemici e colla forza sostenemo l'arme, tutto altressì per eloquenzia difendemo noi la nostra causa dall'aversario e per sapienzia ne sostenemo di dire quello che a noi potesse tenere danno. Et in questa parte è detta la terzia parte del prologo di Tulio. Dunque vae il conto alla quarta parte del prologo, per provare ciò ch'è detto davanti et a conducere che noi dovemo studiare in rettorica per avere eloquenzia e sapienzia: e sopra ciò reca Tulio molti argomenti, li quali debbono e possono così essere, e tali che conviene che sia pur così, e di tali ch'è onesta cosa pur di così essere; e sopra ciò ecco il testo di Tulio in lettera grossa, e poi seguisce la disposta in lettera sottile secondo la forma del libro.

 

 

Argomento 4

 

Tullio: Dunque se noi volemo considerare il principio d'eloquenzia la quale sia pervenuta in uomo per arte o per studio o per usanza o per forza di natura, noi troveremo che sia nato d'onestissime cagioni e che ssia mosso d'ottima ragione. Acciò che fue un tempo che in tutte parti isvagavano gli uomini per li campi in guisa di bestie e conduceano lor vita in modo di fiere, e facea ciascuno quasi tutte cose per forza di corpo e non per ragione d'animo; et ancora in quello tempo la divina religione né umano officio non erano avuti in reverenzia. Neuno uomo avea veduto legittimo managio, nessuno avea connosciuti certi figliuoli, né aveano pensato che utilitade fosse mantenere ragione et agguallianza. E così per errore e per nescitade la cieca e folle ardita signoria dell'animo, cioè la cupiditade, per mettere in opera sé medesima misusava le forze del corpo con aiuto di pessimi seguitatori.

Sponitore: In questa quarta parte del prologo vogliendo Tulio dimostrare che eloquenzia nasce e muove per cagione e per ragione ottima et onestissima, sì dice come in alcuno tempo erano gli uomini rozzi e nessci come bestie; e dell'uomo dicono li filosofi, e la santa scrittura il conferma, che egli è fermamento di corpo e d'anima razionale, la quale anima per la ragione ch'è in lei àe intero conoscimento delle cose.

Onde dice Vittorino: Sì come menoma la forza del vino per la propietade del vasello nel quale è messo, cosìe l'anima muta la sua forza per la propietade di quello corpo a cui ella si congiunge. Et però, se quel corpo è mal disposto e compressionato di mali homori, la anima per gravezza del corpo perde la conoscenza delle cose, sì che appena puote discernere bene da male, sì come in tempo passato nell'anime di molti le quali erano agravate de' pesi de' corpi, e però quelli uomini erano sì falsi et indiscreti che non conosceano Dio né lloro medesimi. Onde misusavano le forze del corpo uccidendo l'uno l'altro, tolliendo le cose per forza e per furto, luxuriando malamente, non connoscendo i loro proprii figliuoli né avendo legittime mogli.

Ma tuttavolta la natura, cioè la divina disposizione, non avea sparta quella bestialitade in tutti gli uomini igualmente; ma fue alcuno savio e molto bello dicitore il quale, vedendo che gli uomini erano acconci a ragionare, usò di parlare a lloro per recarli a divina connoscenza, cioè ad amare Idio e 'l proximo, sì come lo sponitore dicerà per innanzi in suo luogo; e perciò dice Tulio nel testo di sopra che eloquenzia ebbe cominciamento per onestissime cagioni e dirittissime ragioni, cioè per amare Idio e 'l proximo, ché sanza ciò l'umana gente non arebbe durato.

Et là dove dice il testo che gli uomini isvagavano per li campi intendo che non aveano case né luogo, ma andavano qua e là come bestie.

Et là dove dice che viveano come fiere intendo che mangiavano carne cruda, erbe crude et altri cibi come le fiere.

Et là dove dice «tutte cose quasi faceano per forza e non per ragione» intendo che dice «quasi» ché non faceano però tutte cose per forza, ma alquante ne faceano per ragione e per senno, cioè favellare, disiderare et altre cose che ssi muovono dall'animo.

Et là dove dice che divina religione non era reverita intendo che non sapeano che Dio fosse.

Et là dove dice dell'umano officio intendo che non sapeano vivere a buoni costumi e non conosceano prudenzia né giustizia né l'altre virtudi.

Et là dove dice che non manteneano ragione intendo «ragione» cioè giustizia, della quale dicono i libri della legge che giustizia è perpetua e ferma volontade d'animo che dae a ciascuno sua ragione.

Et là dove dice «aguaglianza» intendo quella ragione che dae igual pena al grande et al piccolo sopra li eguali fatti.

Et là dove dice «cupiditade» intendo quel vizio ch'è contrario di temperanza; e questo vizio ne conduce a disiderare alcuna cosa la quale noi non dovemo volere, et inforza nel nostro animo un mal signoraggio, il quale nol permette rifrenare da' rei movimenti.

Et là dove dice «nescitade» intendo ch'è nnone connoscere utile et inutile; e però dice ch'è cupidità cieca per lo non sapere, e che non conosce il prode e 'l danno.

Et là dove dice «folle ardita» intendo che folli arditi sono uomini matti e ratti a ffare cose che non sono da ffare.

Et là dove dice «misusava le forze del corpo» intendo misusare cioè usare in mala parte; ché dice Vittorino che forza di corpo ci è data da Dio per usarla in fare cose utili et oneste, ma coloro faceano tutto il contrario.

Ora à detto lo sponitore sopra 'l testo di Tulio le cagioni per le quali eloquenzia cominciò a parere. Omai dicerae in che modo appario e come si trasse innanzi.

 

 

Argomento 5

 

Tullio: Nel quale tempo fue uno uomo grande e savio, il quale cognobbe che materia e quanto aconciamento avea nelli animi delli uomini a grandissime cose chi lli potesse dirizzare e megliorare per comandamenti. Donde costrinse e raunò in uno luogo quelli uomini che allora erano sparti per le campora e partiti per le nascosaglie silvestre; et inducendo loro a ssapere le cose utili et oneste, tutto che alla prima paresse loro gravi per loro disusanza, poi l'udiro studiosamente per la ragione e per bel dire; e ssì lli arecò umili e mansueti dalla fierezza e dalla crudeltà che aveano.

Sponitore: In questa parte vuole Tulio dimostrare da cui e come cominciò eloquenzia et in che cose; et è la tema cotale: In quel tempo che lla gente vivea così malamente, fue un uomo grande per eloquenzia e savio per sapienzia, il quale cognobbe che materia, cioè la ragione che l'uomo àe in sé naturalmente per la quale puote l'uomo intendere e ragionare, e l'acconciamento a fare grandissime cose, cioè a ttenere pace et amare Idio e 'l proximo, a ffare cittadi, castella e magioni e bel costume, et a ttenere iustitia et a vivere ordinatamente, se fosse chi lli potesse dirizzare, cioè ritrarre da bestiale vita, e melliorare, per comandamenti, cioè per insegnamenti e per leggi e statuti che lli afrenasse.

Et qui cade una quistione, ché potrebbe alcuno dicere: «Come si potieno melliorare da che non erano buoni?». A cciò rispondo che naturalmente era la ragione dell'anima buona; adunque si potea migliorare nel modo ch'è detto.

Donde questo savio costrinse – e dice che i «costrinse» però che non si voleano raunare – e raunò – e dice «raunò» poi che elli volloro. Che 'l savio uomo fece tanto per senno e per eloquenzia, mostrando belle ragioni, assegnando utilitade e metendo del suo in dare mangiare e belle cene e belli desinari et altri piaceri, che ssi raunaro e patiero d'udire le sue parole. Et elli insegnava loro le cose utili dicendo: «State bene insieme, aiuti l'uno l'altro, e sarete sicuri e forti; fate cittadi e ville». Et insegnava loro le cose oneste dicendo: «Il piccolo onori il grande, il figliuolo tema il suo padre» etc. Et tutto che, dalla prima, a questi che viveano bestialmente paresser gravi amonimenti di vivere a ragione et ad ordine, acciò ch'elli erano liberi e franchi naturalmente e non si voleano mettere a signoraggio, poi, udendo il bel dire del savio uomo e considerando per ragione che larga e libera licenzia di mal fare ritornava in lor grave destruzione et in periglio de l'umana generazione, udiro e miser cura a intendere lui. Et in questa maniera il savio uomo li ritrasse di loro fierezza e di loro crudeltade – e dice «fierezza» perciò che viveano come fiere; e dice «crudeltade» perciò che 'l padre e 'l figliuolo non si conosceano, anzi uccidea l'uno l'altro – e feceli umili e mansueti, cioè volontarosi di ragioni e di virtudi e partitori dal male. Ora à detto Tulio chi cominciò eloquenzia et intra cui e come; or dicerà per che ragione, sanza la quale non potea ciò fare.

 

 

Argomento 6

 

Tullio: Per la qual cosa pare a me che lla sapienzia tacita e povera di parole non arebbe potuto fare tanto, che così subitamente fossero quelli uomini dipartiti dall'antica e lunga usanza et informati in diverse ragioni di vita.

Sponitore: In questa parte dice Tulio la ragione sanza la quale non si potea fare ciò che fece 'l savio uomo; e dice «sapienzia tacita» quella di coloro che non danno insegnamento per parole ma per opera, come fanno ' romiti. Et dice «povera di parole» per coloro che 'l lor senno non sanno addornar di parole belle e piene di sentenze a ffar credere ad altri il suo parere. Et per questo potemo intendere che picciola forza è quella di sapienzia s'ella nonn è congiunta con eloquenzia, e potemo connoscere che sopra tutte cose è grande sapienzia congiunta con eloquenzia. Et là dove dice «così subitamente» intendo che quello savio uomo arebbe bene potuto fare queste cose per sapienzia, ma non così avaccio né così subitamente come fece abiendo eloquenzia e sapienzia. Et là dove dice «in diverse ragioni di vita» intendo che uno fece cavalieri, un altro fece cherico, e così fece d'altri mistieri.

 

 

Argomento 7

 

Tullio: Et così, poi che lle cittadi e le ville fuoron fatte, impreser gli uomini aver fede, tener giustizia et usarsi ad obedire l'uno l'altro per propia volontade et a sofferire pena et affanno non solamente per la comune utilitade, ma voler morire per essa mantenere. La qual cosa non s'arebbe potuta fare se gli uomini non avessor potuto dimostrare e fare credere per parole, cioè per eloquenzia, ciò che trovavano e pensavano per sapienzia.

 

 

Argomento 8

 

Tullio: Et certo chi avea forza e podere sopra altri molti non averia patito divenire pare di coloro ch'elli potea segnoreggiare, se non l'avesse mosso sennata e soave parladura; tanto era loro allegra la primiera usanza, la quale era tanto durata lungamente che parea et era in loro convertita in natura. Donde pare a me che così anticamente e da prima nasceo e mosse eloquenzia, e poi s'innalzò in altissime utilitadi delli uomini nelle vicende di pace e di guerra.

Sponitore: In questa parte dice Tulio che cciò che sapienzia non avrebbe messo in compimento per sé sola, ella fece avendo in compagnia eloquenzia; e però la tema èe cotale: Sì come detto è davanti, fuoro gli uomini raunati et insegnati di ben fare e d'amarsi insieme, e però fecero cittadi e ville; poi che lle cittadi fuor fatte impresero ad avere fede. Di questa parola intendo che coloro ànno fede che non ingannano altrui e che non vogliono che lite né discordia sia nelle cittadi, e se vi fosse sì la mettono in pace. Et fede, sì come dice un savio, è lla speranza della cosa promessa; e dice la legge che fede è quella che promette l'uno e l'altro l'attende. Ma Tulio medesimo dice in un altro libro delli offici che fede è fondamento di giustizia, veritade in parlare e fermezza delle promesse; e questa èe quella virtude ch'è appellata lealtade. E così sommatamente loda Tulio eloquenzia con sapienzia congiunta, che sanza ciò le grandissime cose non s'arebbono potute mettere in compimento, e dice che poi àe molto de ben fatto in guerra et in pace. Et per questa parola intendo che tutti i convenenti de' comuni e delle speciali persone corrono per due stati o di pace o di guerra, e nell'uno e nell'altro bisogna la nostra rettorica sì al postutto, che sanza lei non si potrebbono mantenere.

 

 

Argomento 9

 

Tullio: Ma poi che lli uomini, malamente seguendo la virtude sanza ragione d'officio, apresero copia di parlare, usaro et inforzaro tutto loro ingegno in malizia, per che convenne che lle cittadi sine guastassero e li uomini si comprendessero di quella ruggine. Et poi che detto avemo la cumincianza del bene, contiamo come cuminciò questo male.

Sponitore: Poi che Tulio avea detto davanti i beni che sono advenuti per eloquenzia, in questa parte dice i mali che sono advenuti per lei sola sanza sapienzia; ma perciò che lla sua intentione è più in laudarla, sì appone elli il male a coloro che lla misusano e non a llei. Et sopra ciò la tema è cotale: Furono uomini folli sanza discrezione, li quali, veggendo che alquanti erano in grande onoranza e montati in alto stato per lo bello parlare ch'usavano secondo li comandamenti di questa arte, sì studiaro solo in parlare e tralasciaro lo studio di sapienzia, e divennero sì copiosi in dire che, per l'abondanza del molto parlare sanza condimento di senno, che cuminciaro a mettere sedizione e distruggimento nelle cittadi e ne' comuni et a corrompere la vita degli uomini; e questo divenia però ch'ellino aveano sembianza e vista di sapienzia, della quale erano tutti nudi e vani. Et dice Vittorino che eloquenzia sola èe appellata «la vista», perciò che ella fae parere che sapienzia sia in coloro ne' quali ella non fae dimoro. Et queste sono quelle persone che per avere li onori e l'uttilitadi delle comunanze parlano sanza sentimento di bene; così turbano le cittadi et usano la gente a perversi costumi. Et poi dice Tulio: Da che noi avemo contato 'l principio del bene, cioè de' beni che avenuti erano per eloquenzia, si è convenevole di mettere in conto la 'ncumincianza del male che 'nde seguitò. Et dice in questo modo nel testo:

 

 

Argomento 10

Tullio tratta della comincianza del male advenuto per eloquenzia.

 

Tullio: Et certo molto mi pare verisimile: in alcuno tempo gli uomini che non erano parlatori et uomini meno che savi non usavano tramettersi delle publiche vicende, e che gli uomini grandi e savi parlieri non si trametteano delle cause private. E con ciò fosse cosa che sovrani uomini regessero le grandissime cose, io mi penso che furo altri uomini callidi e vezzati i quali avennero a trattare le picciole controversie delle private persone; nelle quali controversie adusandosi gli uomini spessamente a stare fermi nella bugia incontra la verità, imperseveramento di parlare nutricò arditanza.

 

 

Argomento 11

 

Tullio: Sì che per le 'ngiurie de' cittadini convenne per necessitade che ' maggiori si contraparassono agli arditi e che ciascuno atoriasse le sue bisogne; e così, parendo molte fiate che quello ch'avea impresa sola eloquenzia sanza sapienzia fosse pare o talora più innanzi che quello che avea eloquenzia congiunta con sapienzia, avenìa che, per giudicio di moltitudine di gente e di sé medesimo, paresse essere degno di reggiere le publiche cose.

 

 

Argomento 12

 

Tullio: E certo non ingiustamente, poi che ' folli arditi impronti pervennero ad avere reggimenti delle comunanze, grandissime e miserissime tempestanze adveniano molto sovente; per la qual cosa cadde eloquenzia in tanto odio et invidia che gli uomini d'altissimo ingegno, quasi per scampare di torbida tempestade in sicuro porto, così fuggiendo la discordiosa e tumultuosa vita si ritrassero ad alcuno altro queto studio. Per la qual cosa pare che per la loro posa li altri dritti et onesti studii molto perseverati vennero in onore.

 

 

Argomento 13

 

Tullio: Ma questo studio di rettorica fue abandonato quasi da tutti loro, e perciò tornò a neente, in tal tempo quando più inforzatamente si dovea mantenere e più studiosamente crescere; perciò che quando più indegnamente la presumptione e l'ardire de' folli impronti manimettea e guastava la cosa onestissima e dirittissima con troppo gravoso danno del comune, allora era più degna cosa contrastare e consigliare la cosa publica. Della qual cosa non fugìo il nostro Catone né Lelius né, al ver dire, il loro discepolo Affricano, né i Gracchi nepoti d'Affricano, ne' quali uomini era sovrana virtude et altoritade acresciuta per la loro sovrana virtude; sì che la loro eloquenzia era grande adornamento di loro et aiuto e mantenimento della comunanza.

Sponitore: In questa parte divisa Tulio come divennero quelli due mali, cioè turbare il buono stato delle cittadi e corrompere la buona vita e costumanza delli uomini; et avegna che 'l suo testo sia recato in sìe piane parole che molto fae da intendere tutti, ma tutta volta lo sponitore dirae alcune parole per più chiarezza. Et è la tema cotale: La eloquenzia mise in sì alto stato i parladori savi e guerniti di senno, che per loro si reggeano le cittadi e le comunanze e le cose publiche, avendo le signorie e li officii e li onori e le grandi cose, e non si trametteano delle cause private, cioè delle vicende delli uomini speciali, né di fare lavoriere né altre picciole cose. Ma erano altri uomini di due maniere: l'una che non erano parlatori, l'autra che non aveano sapienzia, ma erano gridatori e favellatori molto grandi; e questi non si trametteano delle cose publiche, cioè delle signorie e delli officii e delle grandi cose del comune, ma impigliavansi a trattare le picciole cose delle private persone, cioè delli speciali uomini. Intra ' quali furono alcuni calidi e vezzati – cioè per la fraude e per la malizia che in loro regnava parea ch'avesse in loro sapienzia -; e questi s'ausarono tanto a parlare che, per molta usanza di dire parole e di gridare sopra le vicende delle speciali persone, montaro in ardimento e presero audacia di favellare in guisa d'eloquenzia tanto e sì malamente che teneano la menzogna e la fallacia ferma contra la veritade. Onde, per li grandi mali che di ciò adveniano, convenne che ' grandi, ciò sono i savi parladori che reggeano le grandi cose, venissero et abassassero a trattare le picciole vicende di speciali persone, per difendere i loro amici e per contastare a quelli arditi. Et nota che arditi sono di due maniere: l'una che pigliano a ffare di grandi cose con provedimento di ragione, e questi sono savi; li altri che pigliano a ffare le grandi cose sanza provedenza di ragione, e questi sono folli arditi. Donde in questo contrastare i buoni e savi parlavano giustamente, ma i folli arditi, che non aveano studiato in sapienzia ma pure in eloquenzia, gridavano e garriano a grandi boci e non si vergognavano di mentire e di dire torto palese; sicché spessamente pareano pari di senno e di parlare e talvolta migliori. Sì che per sentenza del popolo, la quale è sentenzia vana perciò che non muove da ragione, e per sentenza di sé medesimo, la quale è per neente, pareano essere degni di covernare le publiche e le grandi cose, e così furo messi a reggere le cittadi et alli officii et onori delle comunanze. Et poi che cciò avenne, non fue meraviglia se nelle cittadi veniano grandissime e miserissime tempestadi. Et nota che dice «grandissime» per la quantità e che duraro lungamente, e dice «miserissime» per la qualitade, ch'erano aspre e perilliose che 'nde moriano le persone; e dice «tempestanza» per similitudine, che sì come la nave dimora in fortuna di mare e talvolta crescono in tanto che perisce, così dimora la cittade per le discordie, et alla fiata montano sicché periscono in sé medesime e patono distruzione. «Per la qual cosa eloquenzia cadde in tanto odio et invidia».... Et nota che odio non è altro se nno ira invecchiata; e così i buoni savi erano stati lungamente irosi, veggiendo i folli arditi segnoreggiare le cittadi. Et invidia è aflizione che omo àe per altrui bene; donde i buoni savi aveano molta aflizione per coloro ch'erano segnori delle grandi cose et erano in onore. Et perciò li buoni d'altissimo ingegno si ritrassero di quelle cose ad altri queti studii per scampare della tumultuosa vita in sicuro porto. Et nota: là dove dice «altissimo ingegno» dimostra bene o ch'arebboro potuto e saputo contrastare a' folli arditi, e perciò che no 'l fecero furo bene da riprendere. Et in ciò che dice «queti studi» intendo l'altre scienze di filosofia, sì come trattare le nature delle divine cose e delle terrene, e sì come l'etica, che tratta le virtudi e le costumanze; et appellali «queti studii» ché non trattano di parlare in comune, e perciò che ssi stavano partiti dal romore delle genti. Et appella «vita tumultuosa» ché spessamente l'uno uomo assaliva l'altro in cittade coll'arme e talvolta l'uccideva. Et poi che ' savi intralassar lo studio d'eloquenzia, ella tornò ad neente e non fue curata né pregiata. Ma l'altre scienzie di filosofia, nelle quali studiaro, montaro in grande onore. Et ora riprende Tulio questi savi e dice che fecior questo a quel tempo che eloquenzia avea più grande bisogno per lo male che faceano i folli arditi nelle cittadi, e perché guastavano la cosa onestissima e dirittissima, cioè eloquenzia che ssi pertiene alle cose oneste e diritte. Dalla qual cosa non fugìo il nostro Catone né quelli altri savi ch'amavano drittamente il comune et aveano senno e parlatura; ma dimoraro fermi a consigliare et a difendere il comune da' garritori folli arditi; e però montaro in onore et in istato sì grande che le loro dicerie erano tenute sentenze, e perciò dice che in loro era autoritade, ché autoritade èe una dignitade degna d'onore e di temenza. Ma da questo si muove il conto e ritorna a conchiudere per ragioni utili et oneste e possibili e necessare che dovemo studiare in eloquenzia, e lodala in molte guise.

 

 

Argomento 14

Tullio conclude che sia da studiare in rettorica.

 

Tullio: Per la qual cosa, al mio animo, non perciò meno è da mettere studio in eloquenzia s'alquanti la misusano in publiche et in private cose; ma tanto più che ' malvagi non abbiano troppo di podere con grave danno de' buoni e con generale distruzione di tutti. Maximamente cun ciò sia la verità che rettorica è una cosa la quale molto s'appartiene a tutte cose, e publiche e private, e per essa diviene la vita sicura, onesta, inlustre e iocunda; e per essa medesima molte utilitadi avengono in comune se fia presta la modonatrice di tutte cose, cioè sapienzia; e per lei medesima abonda a coloro che ll'acquistano lode, onore, dignitade; e per essa medesima ànno li amici certissimo e sicurissimo aiutorio.

Sponitore: La tema di questo testo è cotale, che dice Tulio: Se alquanti di mala maniera usano malamente eloquenzia, non rimane pertanto che ll'uomo non debbia studiare in eloquenzia, al mio animo (cioè per mia sentenza), acciò che ' rei uomini non abbiano podere di malfare a' buoni né di fare generale distruzione di tutti. Et nota che distrutti sono coloro che soleano essere in alto stato et in ricchezza e poi divennero in tanta miseria che vanno mendicando. Et poi dice le lode di rettorica, come tocca al comune et al diviso, e come per lei diviene l'uomo sicuro, cioè che sicuramente puote gire a trattare le cause, et appena troverai chi 'l sappia contradiare; e dice che 'nde diviene la vita «onesta», cioè laudato intra coloro che 'l cognoscono; e dice «illustre», cioè laudato intra li strani; e dice «ioconda», cioè vita piacevole, però che ' savi parlieri molto piacciono ad sé et altrui. Et altressì molto bene n'aviene alle comunanze per eloquenzia, a questa condizione: se sapienzia sia presta, cioè se ella sia adiunta con eloquenzia. Et dice che sapienzia è amodenatrice di tutte cose però che ella sae antivedere e porre a tutte cose certo modo e certo fine. Et poi dice che questi che ànno eloquenzia giunta con sapienzia sono laudati, temuti et amati; e dice che lli amici loro possono di loro avere aiutorio sicurissimo, però che appena fie chi lli sappia contrastare, poiché sanno parlare a compimento di senno. Et dice «certissimo» però che 'l buono e 'l savio uomo non si lascia corrompere per amore né per prezzo né per altra simile cosa. Et qui si parte il conto e fae un'ultima conclusione in questo modo:

 

 

Argomento 15

Tullio conchiude in somma.

 

Tullio: Et però pare a me che gli uomini, i quali in molte cose sono minori e più fievoli che lle bestie, in questa una cosa l'avanzano, che possono parlare; e donque pare che colui conquista cosa nobile et altissima il quale sormonta li altri uomini in quella medesima cosa per la quale gli uomini avanzano le bestie.

Sponitore: La tema in questo testo è cotale: La veritade è che gli uomini in molte cose sono minori che lle bestie e più fievoli, acciò che sanza fallo il leofante e molti altri animali sono più grandi del corpo che nonn è l'uomo; e certo il leone e molte altre bestie sono più forti della persona che ll'uomo; e più ancora che in tutti e cinque ' sensi sono certi animali che avanzano lo senso dell'uomo. Ché sanza fallo lo porco salvatico avanza l'uomo d'udire e 'l lupo cerviere del vedere e la scimmia del saporare, e l'avoltore dell'anasare ad odorare, e 'l ragnol del toccare. Ma in questa una cosa avanza l'uomo tutte le bestie et animali, che elli sa parlare. Donque quello uomo acquista bene la sovrana cosa di tutte le buone, che di ben parlare soprastae alli altri uomini.

 

 

Argomento 16

Tullio dice di che elli tratterà.

 

Tullio: Et questa altissima cosa, cioè eloquenzia, non si acquista solamente per natura né solamente per usanza, ma per insegnamento d'arte altressì. Donque non è disavenante di vedere ciò che dicono coloro i quali sopra ciò ne lasciaro alquanti comandamenti. Ma anzi che noi diciamo ciò che ssi comanda in rettorica, pare che sia a trattare del genere d'essa arte e del suo officio e della fine e della materia e delle sue parti; imperoché sapute e cognosciute queste cose, più di legieri e più isbrigatamente potrà l'animo di ciascuno considerare la ragione e la via dell'arte.

Sponitore: Poi che Tulio avea lodata Rettorica et era soprastato alle sue commendazioni in molte maniere, sì ricomincia nel suo testo per dire di che cose elli tratterà nel suo libro. Ma prima dice alcuni belli dimostramenti, perché l'animo di ciascuno sia più intendente di quello che seguirà, e così pone fine al suo prolago e viene al fatto in questo modo:

 

 

Argomento 17

Tullio àe finito il prolago, e comincia a dire di eloquenzia.

 

Tullio: Una ragione è delle cittadi la quale richiede et è di molte cose e di grandi, intra lle quali è una grande et ampia parte l'artificiosa eloquenzia, la quale è appellata Rettorica. Ché al ver dire né cci acordiamo con quelli che non credono che lla scienzia delle cittadi abbia bisogno d'eloquenzia, e molto ne discordiamo da coloro che pensano ch'ella del tutto si tegna in forza et in arte del parladore. Per la qual cosa questa arte di rettorica porremo in quel genere che noi diciamo ch'ella sia parte della civile scienzia, cioè della scienzia delle cittadi.

Sponitore: In questa parte del testo procede Tulio a dimostrare ordinatamente ciò che elli avea promesso nella fine del prolago. Et primamente comincia a dicere il genere di questa arte. Ma anzi che llo sponitore vada innanzi sì vuole fare intendere che è genere, perché l'altre parole siano meglio intese. Ogne cosa quasi o è generale, sicché comprende molte altre cose, o è parte di quella generale. Onde questa parola, cioè «uomo», è generale, per ciò che comprende molti, cioè Piero e Joanni etc., ma questa parola, cioè «Piero», è una parte. A questa somiglianza, per dire più in volgare, si puote intendere genere cioè la schiatta; ché chi dice «i Tosinghi» comprende tutti coloro di quella schiatta, ma chi dice «Davizzo» non comprende se no una parte, cioè un uomo di quella schiatta. Onde Tulio dice di rettorica sotto quale genere si comprende, per meglio mostrare il fondamento e lla natura sua. Et dice così che lla ragione delle cittadi, cioè il reggimento e lla vita del comune e delle speciali persone, richiede molte e grandi cose, in questo modo: che è in fatti e 'n detti. In fatti è la ragione delle cittadi sì come l'arte de' fabbri, de' sartori, de' pannari e l'altre arti che si fanno con mani e con piedi. In detti è la rettorica e l'altre scienze che sono in parlare. Adonque la scienza del covernamento delle cittadi è cosa generale sotto la quale si comprende rettorica, cioè l'arte del bene parlare. Ma anzi che llo sponitore vada più innanzi, pensando che lla scienza delle cittadi è parte d'un altro generale che muove di filosofia, sì vuole elli dire un poco che è filosofia, per provare la nobilitade e l'altezza della scienzia di covernare le cittadi. Et provedendo ciò ssi pruova l'altezza di rettorica.

Filosofia è quella sovrana cosa la quale comprende sotto sé tutte le scienze; et è questo uno nome composto di due nomi greci: il primo nome si è phylos, e vale tanto a dire quanto «amore», il secondo nome è sophya, e vale tanto a dire quanto «sapienzia». Onde «filosofia» tanto vale a dire come «amore della sapienzia»; per la qual cosa neuno puote essere filosofo se non ama la sapienzia tanto ch'elli intralasci tutte altre cose e dia ogne studio et opera ad avere intera sapienzia. Onde dice uno savio cotale diffinizione di filosofia: ch'ella è inquisizione delle naturali cose e connoscimento delle divine et umane cose, quanto a uomo è possibile d'interpetrare. Un altro savio dice che filosofia è onestade di vita, studio di ben vivere, rimembranza della morte e spregio del secolo. Et sappie che diffinizione d'una cosa è dicere ciò che quella cosa è, per tali parole che non si convegnano ad un'altra cosa, e che se tu le rivolvi tuttavia signiffichino quella cosa. Per bene chiarire sia questo l'exemplo nella diffinizione dell'uomo, la quale è questa: «L'uomo è animale razionale mortale». Certo queste parole si convegnono sì all'uomo che non si puote intendere d'altro, né di bestia, né d'uccello, né di pescie, però che in essi nonn à ragione; onde se tue rivolvi le parole e di' così: «Che è animale razionale e mortale?», certo non si puote d'altro intendere se non dell'uomo. Or è vero che anticamente per nescietà delli uomini furon mosse tre quistioni delle quali dubitavano, e non senza cagione, però che sopr'esse tre questioni si girano tutte le scienzie. La prima quistione era che dovesse l'uomo fare e che lasciare. La seconda quistione era per che ragione dovesse quel fare e quell'altro lasciare. La terza quistione era di sapere le nature di tutte cose che sono. Et perciò che le questioni fuoro tre, sì convenne che ' savi filosofi partissero filosofia in tre scienzie, cioè Teorica, Pratica e Logica, sì come dimostra questo arbore: FILOSOFIA: Pratica-Logica-Teorica.

Et la prima di queste scienze, cioè pratica, è per dimostrare la prima questione, cioè che debbia uomo fare e che lasciare. La seconda scienzia, cioè logica, è per dimostrare la seconda quistione, cioè per che ragione dovesse quel fare e quello altro lasciare. Et questa scienza, cioè logica, sì àe tre parti, cioè dialetica, efidica, soffistica. La prima tratta di questionare e disputare l'uno coll'altro, e questa è dialetica; la seconda insegna provare il detto dell'uno o dell'altro per veraci argomenti, e questa èe efidica; la terza insegna provare il detto dell'uno e dell'altro per argomenti frodosi o per infinte provanze, e questa è sofistica. Et questa divisione pare in questo arbore: LOGICA: Dialettica-Efidica-Sofistica.

La terza scienzia, cioè teorica, si è per dimostrare le nature di tutte cose che sono, le quali nature sono tre; e però conviene che questa una scienza, cioè teorica, sia partita in tre scienzie, ciò sono Teologia, Fisica e Matematica, sì come dimostra questo arbore: TEORICA: Teologia-Fisica-Matematica.

Onde la prima di queste tre scienze, cioè teologia, la quale è appellata divinitade, sì tratta la natura delle cose incorporali le quali non conversano intra lle corpora, sì come Dio e le divine cose. La seconda scienzia, cioè fisica, sì tratta le nature delle cose corporali, sì come sono animali e lle cose che ànno corpo; e di questa scienzia fue ritratta l'arte di medicina, ché, poi che fue connosciuta la natura dell'uomo e delli animali e de' loro cibi e dell'erbe e delle cose, assai bene poteano li savi argomentare la sanezza e curare la malizia. La terza scienzia, cioè matematica, sì tratta le nature de le cose incorporali le quali sono intorno le corpora; e queste nature sono quattro, e perciò conviene che matematica sia partita in quattro scienze, ciò sono arismetrica, musica, geometria et astronomia, sì come appare in questo arbore: MATEMATICA: Arismetrica-Musica-Geometria-Astronomia.

La prima scienzia, cioè arismetrica, tratta de' conti e de' nomeri, sì come l'abaco e più fondatamente. La seconda scienza, cioè musica, tratta di concordare voci e suoni. La terza, cioè geometria, tratta delle misure e delle proporzioni. La quarta scienza, cioè astronomia, tratta della disposizione del cielo e delle stelle.

Or si torna il conto dello sponitore di questo libro alla prima parte di filosofia, della quale è lungamente taciuto, e dicerà tanto d'essa prima parte, cioè di pratica, che pervegna a dire della gloriosa Rettorica. E sì come fue detto già indietro, questa pratica è quella scienza che dimostra che ssia da ffare e che da lasciare, e questo è di tre maniere: perciò conviene che di questa una siano tre scienze, cioè sono Etica, Iconomica e Politica, sì come mostra la figura di questo arbore: PRATICA: Etica-Iconomica Politica.

La prima di queste, cioè etica, sì è insegnamento di bene vivere e costumatamente, e dà connoscimento delle cose oneste e dell'utili e del lor contrario; e questo fa per assennamento di quatro vertudi, ciò sono prudenzia, iustizia, fortitudo e temperanza, e per divieto de' vizi, ciò sono superbia, invidia, ira, avarizia, gula e luxuria; e così dimostra etica che sia da tenere e che da lasciare per vivere virtuosamente. La seconda scienza, cioè iconomica, sì 'nsegna che ssia da ffare e che da lasciare per covernare e reggere il propio avere e la propia famiglia. La terza scienza, cioè politica, sì 'nsegna fare e mantenere e reggere le cittadi e le comunanze, e questa, sì come davanti è provato, è in due guise, cioè in fatti et in detti, sì come si vede in questo arbore: POLITICA: in fatti-in detti.

Quella maniera ch'è in fatti sì sono l'arti e' magisterii che in cittadi si fanno, come fabbri e drappieri e li altri artieri, sanza i quali la cittade non potrebbe durare. Quella ch'è in detti è quella scienzia che ss'adopera colla lingua solamente; et in questa si contiene tre scienze, ciò sono Gramatica, Dialettica, Rettorica, sì come dimostra questo altro albore: IN DETTI: Grammatica-Dialettica Retorica.

Et che ciò sia la verità dice lo sponitore che gramatica è intrata e fondamento di tutte le liberali arti et insegna drittamente parlare e drittamente scrivere, cioè per parole propie sanza barbarismo e sanza sologismo. Adunque sanza gramatica non potrebbe alcuno bene dire né bene dittare. La seconda scienza, cioè dialetica, sì pruova le sue parole per argomenti che danno fede alle sue parole; e certo chi vuole bene dire e bene dittare conviene che mostri ragioni per che, sicché le sue parole abbiano provanza in tal guisa che lli uditori le credano e diano fede a cciò che dice. La terza scienza ciò è Rettorica, la quale truova et adorna le parole avenanti alla materia, per le quali l'uditore s'accheta e crede e sta contento e muovesi a volere ciò ch'è detto. Adonque le tre scienze sono bisogno a parlare et al dittare, che sanza loro sarebbe neente, acciò che 'l buono dicitore e dittatore de' sì dire e scrivere a diritto e per sì propie parole che sia inteso, e questo fae gramatica; e dee le sue parole provare e mostrare ragioni, e questo fae dialetica; e dee sì mettere et addornare il suo dire che, poi che ll'uditore crede, che stia contento e faccia quello ch'e' vuole, e questo fa Rettorica. Or dice lo sponitore che lla civile scienza, cioè la covernatrice delle cittadi, la quale èe in detti si divide in due: che ll'una è co llite e l'altra sanza lite. Quella co llite si è quella che ssi fa domandando e rispondendo, sì come dialetica, rettorica e lege; quella ch'è sanza lite si fa domandando e rispondendo, ma non per lite, ma per dare alla gente insegnamento e via di ben fare, sì come sono i detti de' poeti che ànno messo inn iscritta l'antiche storie, le grandi battaglie e l'altre vicende che muovono li animi a ben fare. Altressì quella civile scienzia ch'è con lite è di due maniere, ch'è ll'una artificiosa, l'altra non artificiosa. Artificiosa è quella nella quale il parliere che connosce bene la natura e llo stato della materia, vi reca suso argomenti secondo che ssi conviene, e questo è in dialetica et in rettorica. Quella che non è artificiale è quella nella quale si recano argomenti pur per altoritade, sì come legge, sopra la quale non si reca neuna pruova né ragione per che, se non tanto l'altoritade dello 'mperadore che lla fece. Et di questa che non è artificiale dice Boezio nella Topica ch'è sanza arte e sanza parte di ragione. Alla fine conclude Tulio e dice che Rettorica è parte della civile scienzia. Ma Vittorino sponendo quella parola dice che rettorica è la maggiore parte della civile scienzia; e dice «maggiore» per lo grande effetto di lei, ché certo per rettorica potemo noi muovere tutto 'l popolo, tutto 'l consiglio, il padre contra 'l figliuolo, l'amico contra l'amico, e poi li rega in pace e a benevoglienza. Or è detto del genere; omai dicerà Tulio dello offizio di rettorica e del fine.

 

 

Argomento 18

Tullio dice che è l'ufficio di questa arte.

 

Tullio: Officio di questa arte pare che sia dicere appostatamente per fare credere, fine è far credere per lo dire. Intra ll'officio e lla fine èe cotale divisamento: che nell'officio si considera quello che conviene alla fine e nella fine si considera quello che conviene all'officio. Come noi dicemo l'officio del medico curare apostatamente per sanare, il suo fine dicemo sanare per le medicine, e così quello che noi dicemo officio di rettorica e quello che noi dicemo fine intenderemo dicendo che officio sia quello che dee fare il parliere, e dicendo che lla fine sia quello per cui cagione elli dice.

Sponitore: In questa parte àe detto Tulio che è l'officio di questa arte e che è lo suo fine; e perciò che 'l testo è molto aperto, sì sine passerà lo sponitore brevemente. Et dice cotale diffinizione: officio è dicere appostatamente per fare credere. Et nota che dice «appostatamente», cioè ornare parole di buone sentenze dette secondo che comanda quest'arte; e questo dice per divisare il parlare di questo dicitore dal parlare de' gramatici, che non curano d'ornare parole. E dice «per far credere», cioè dicere sì compostamente che ll'uditore creda ciò che ssi dice. Et questo dice per divisare il detto de' poeti, che curano più di dire belle parole che di fare credere. L'altra diffinizione è del fine. Et dice che fine è far credere per lo dire. Et certo chi considera la verità in questa arte e' troverà che tutto lo 'ntendimento del parliere è di far credere le sue parole all'uditore. Donque questo è la fine, cioè far credere; ché 'mmantenente che l'uomo crede ciò ch'è detto si rivolve lo suo animo a volere et a ffare ciò che 'l dicitore intende. Ma dice Boezio nel quarto della Topica che 'l fine di questa arte è doppio, uno nel parladore et un altro nell'uditore. Il parladore sempre desidera questo fine in sé: che dica bene e che sia tenuto d'aver bene detto. Nell'uditore è questo fine: che 'l dicitore a questo intende, che nell'uditore sia cotale fine che creda quello che dice; e questo fine non desidera sempre il parlatore sì come quello di sopra. Et per mostrare bene che è l'officio e che è il fine e che divisamento àe dall'uno all'altro, sì dice Tulio che officio è quello che 'l parliere de' fare nel suo parlamento secondo lo 'nsegnamento di questa arte. Ma fine è quello per cui cagione il parlieri dice compostamente; e certo questa cagione e questo fine nonn è altro se non fare credere ciò che dice. Et di ciò pone exemplo del medico, e dice che llo officio del medico è medicare compostamente per guerire l'amalato; la fine del medico èe sanare lo 'nfermo per lo suo medicare. Già è detto sofficientemente dell'officio e della fine di rettorica; omai procederàe il conto a dire della materia.

 

 

Argomento 19

Della materia.

 

Tullio: Materia di questa arte dicemo che ssia quella nella quale tutta l'arte e llo savere che dell'arte s'apprende dimora. Come se noi dicemo che lle malizie e le fedite sono materia del medico, perciò che 'ntorno quelle è ogne medicina, altressì dicemo che quelle cose sopra le quali s'adopera questa arte et il savere ch'è appreso dell'arte sono materia di rettorica; le quali cose alcuni pensaro che fossero piusori et altri meno. Ché Gorgias Leontino, che fue quasi il più antichissimo rettorico, fue in oppinione che el parladore possa molto bene dire di tutte cose. Et questi pare che dea a questa arte grandissima materia sanza fine. Ma Aristotile, il quale diede a questa arte molti aiuti et adornamenti, extimò che ll'officio del parlatore sia sopra tre generazioni di cose, ciò sono dimostrativo, diliberativo e giudiciale.

Sponitore: In questa parte dice Tulio che materia di rettorica è quella cosa per cui cagione furo pensati e trovati li comandamenti di questa arte, e per cui cagione s'adopera la scienzia che ll'uomo apprende per quelli comandamenti. Così fuoro trovati li comandamenti di medicina e gli adoperamenti per le infertadi e per le ferute; et insomma quella è lla materia sopr'alla quale conviene dicere. Et sopra ciò fue trovata questa arte per dare insegnamento di ben dire secondo che lla materia richiede e per fare che ll'uditore creda. Et di questo è stata differenzia tra ' savi: ché molti furo che diceano che materia puote essere ogne cosa sopr'alla quale convenisse parlare. Et se questo fosse vero, donque sarebbe questa arte sanza fine, che non puote essere; e di questi fue uno savio, Gorgias Leontino, antichissimo rettorico; et in ciò che Tulio l'appella antichissimo sì dimostra che non sia da credere. Ma Aristotile, a cui è molto da credere, perciò che diede molti aiuti et adornamenti a questa arte in perciò che fece uno libro d'invenzione et un altro della parladura, dice che rettorica èe sopra tre maniere di cose, e catuna maniera èe generale delle sue parti; e queste sono dimostrativo, diliberativo e iudiciale, come in questi cercoletti appare: MATERIA: Dimostrativo-Deliberativo-Iudiciale.

Et a questa sentenzia s'accorda Tulio, e sopra queste tre maniere è tutta l'arte di rettorica. Ma ben puote essere ch'e' maestri in questo punto fanno divisamento intra dire e dittare; ché pare che lla materia di dittare sia sì generale che quasi sopra ogne cosa si possa fare pistola, cioè mandare lettera. Ma dire non si puote per modo di rettorica se non delle dette tre maniere, perciò che Tulio reca tutta la rettorica in quistione di parole. Et intendo che quistione è una diceria nella quale àe molte parole sie impigliate che ssine puote sostenere l'una parte e l'altra, cioè provare sì e no per atrebuti, cioè per propietadi del fatto o della persona. Et ecco l'exemplo in questa diceria che fie proposta in questo modo: «È da sbandire in exilio Marco Tulio Cicero o no, che davanti al popolo di Roma fece anegare molti romani a tempo che 'l comune era in dubbio?» In questa proposta à due parti, una del sì et un'altra del no. Quella del sì è cotale: «Cicero è da sbandire, perciò che à fatta la cotale cosa». Quella del no è cotale: «Non è da sbandire, ché ricordando pure lo nome signiffica buona cosa et isbandire et exilio signiffica mala cosa, e non è da credere che buono uomo faccia quello che ssia da sbandire degno né de exilio». Già è detto che è la materia di quest'arte, et afferma Tulio la sentenza d'Aristotile. Et però che elli l'àe confermata, sì dicerà di catuna di quelle tre maniere sì compiutamente che per lui e per lo sponitore potrà quelli per cui è fatto questo libro intendere la materia, lo movimento e la natura di rettorica. Ma ben guardi d'intendere ciò che dice questo trattato e di connoscere ciò che in esso si contiene, ché altrimenti non potrebbe intendere quello che viene innanzi; e dicerà prima del dimostrativo.

 

 

Argomento 20

Del dimostramento.

 

Tullio: Dimostrativo è quello che ssi reca in laude o in vituperio d'una certa persona.

Sponitore: In questa parte dice Tulio che, con ciò sia cosa che lle cause e lle quistioni sopr'alcuna vicenda indella quale l'uno afferma e l'altro niega siano di tre maniere, sì insegna Tulio avanti quale causa è dimostrativa. Ma lo sponitore non lascerà intanto che non dica la natura e lla radice di tutte e tre, oltre che dice il testo di Tulio; et in ciò dicerà chi è la persona del parliere che dice sopra la causa, e dicerà che è il fatto della causa. La persona del parliere è quella che viene in causa per lo suo detto o per lo suo fatto: et intendo «suo detto» quello ch'elli disse o che ssi crede ragionevolemente ch'elli abbia detto, avegna che detto no-ll'abbia; altressì intendo «fatto» quello che fece o che ssi crede ragionevolemente che elli abbia fatto, avegna che fatto non sia. Il fatto della causa è quel detto o quel fatto per lo quale alcuno viene in causa e questione; et in ciò sia cotale exemplo: Dice Pompeio a Catellina: «Tu fai tradimento nel comune di Roma». Et Catellina risponde: «Non fo». In questo convenente Pompeio e Catellina sono le persone de' parlieri; e la causa è questa: «Tu fai tradimento» – «Non fo»; e chiamasi causa però che ll'uno appone e dice parole contra l'altro e mettelo in lite. Et per maggiore chiarezza dicerà lo sponitore che èe dimostramento e che deliberazione e che iudicamento, e così sopra che è ciascuna maniera di rettorica. Dimostramento. – Dimostramento è una maniera di cause tale che per sua propietade il parliere dimostra ch'alcuna cosa sia onesta o disonesta, e per questo mostra che è da laudare e che da vituperare; e questa causa dimostrativa è doppia: una speciale et un'altra che non si puote partire. La speciale dimostrativa è quella nella quale i parlieri si sforzano di provare una cosa essere onesta o disonesta, non nominando alcuna certa persona; et intendo certa persona a dire delli uomini e delle cittadi e delle battaglie e di cotali certe cose e determinate tra lle genti, non intendo dell'altezza del cielo né della grandezza del sole o della luna, ché questa quistione non pertiene a rettorica. Et di questa causa speciale dimostrativa sia cotale exemplo: «Il forte uomo è da laudare». Dice l'altro: «Non è, anzi è da vituperare». E di questo nasce quistione, se 'l forte è degno di lode o di vituperio, e perciò èe dimostrativa, ma non nomina certa persona, e perciò è speciale. La causa dimostrativa che non si puote partire è quella nella quale i parlieri vogliono mostrare alcuna cosa sia onesta o disonesta nominando certa persona, in questo modo: «Marco Tulio Cicero è degno di lode». Dice l'altro: «Non è»; e di questo nasce quistione, se sia da lodare o da vituperare. Et questa quistione comprende due tempi: presente e preterito. Ché al ver dire di ciò che ll'uomo fae presentemente è lodato o biasmato, et altressì di ciò che fece ne' tempi passati. Et sopra ciò dicono l'antiche storie di Roma che questa causa dimostrativa si solea trattare in Campo Marzio, nel quale s'asemblava la comunanza a llodare alcuna persona ch'era degna d'avere dignitade e signoria et a biasmare quella che non era degna. E già è ben detto della causa dimostrativa; sì dicerà il maestro della causa deliberativa.

 

 

Argomento 21

Del diliberamento.

 

Tullio: Diliberativo è quello il quale, messo a contendere et a dimandare tra ' cittadini, riceve detto per sentenzia.

Sponitore: In questa parte dice Tulio che causa diliberativa è quella ch'è messa e detta a' cittadini a contendere il lor pareri et a domandare a lloro quello che nne sentono; e sopra ciò si dicono molte et isvariate sentenze, perché alla fine si possa prendere la migliore. Et questo modo di causare è quello che fanno tutto die i signori e le podestà delle genti, che raunano li consillieri per diliberare che ssia da ffare sopra alcuna vicenda e che da non fare; e quasi ciascuno dice la sua sentenza, sicché alla fine si prende quella che pare migliore. Et in ciò sia questo exemplo che propone il senatore: «È da mandare oste in Macedonia?». Dice l'uno sì e l'altro no. Et così diliberano qual sia lo meglio, e prendesi l'una sentenza. Et questa quistione si considera pure nel tempo futuro, ché al ver dire sopra le cose future prende l'uomo consiglio e dilibera che ssia da fare e che noe. Et questa causa diliberativa è doppia: una speciale et un'altra che non si puote partire. Speciale è quella nella quale si considera d'alcuna cosa s'ella è utile o s'ell'è dannosa, non nominando alcuna certa persona. Et ecco l'exemplo: Dice uno: «Pace è da tenere intra cristiani». Dice l'altro: «Non è». Et di ciò nasce causa diliberativa speciale, se lla pace è da tenere o no. L'altra che non si può partire è quella nella quale i dicitori studiano di provare c'alcuna cosa sia utile o dannosa, nominando certe persone, in questo modo: Dice l'uno: «Pace è da tenere intra Melanesi e Cremonesi». Dice l'altro: «Non è». Et già è detto della causa diliberativa; omai dicerae il maestro del iudiciale. Ma questo sia conto a ciascuno, che lla propietade della diliberazione èe mostrare che ssia utile e che dannoso in alcuno convenentre. Et questa diliberativa si solea trattare nel senato, e prima diliberavano li savi privatamente che era utile e che no e poi si recava il loro consiglio in parlamento e quivi si fermava la loro sentenza, e talvolta si ne prendea un'altra migliore.

 

 

Argomento 22

Del iudiciale.

 

Tullio: Judiciale è quello il quale, posto in iudicio, à in sé accusazione e difensione o petizione e recusazione.

Sponitore: La natura di iudicamento si è una forma la quale si conviene al parladore per cagione di mostrare la iustizia e la 'niustizia d'alcuna cosa, cioè per mostrare d'una cosa s'ella è iusta o contra iustizia, in cotal modo: che uno accusa un altro e ll'accusato si difende elli medesimo o un altro per lui; overo che uno fa sua petizione e domanda guidardone per alcuna cosa ch'elli abbia ben fatta, et un altro recusa e dice che non è da guidardonare, e talvolta dice: «Anzi è degno di pena». Et questa causa si pone in iudicio, cioè in corte davante a' iudici, acciò ch'elli iudichino tra lle parti quale àe iustizia; e questo si fae in corte palese in saputa delle genti, acciò che lla pena del malfattore dia exemplo di non malfare, e 'l guidardone de' benfattori sia exemplo agli altri di ben fare. Et sopra questa materia dice uno savio: «I buoni si guardano di peccare per amore della vertude, i malvagi si guardano per paura della pena». Et è questa causa iudiciale doppia: una speciale et un'altra che non si puote partire. Speciale è quella nella quale il parliere si sforza di mostrare alcuna cosa che ssia iusta o iniusta, non nominando certa persona; in questo modo: «Il ladro èe da 'mpendere, perché commette furto». Dice l'altro: «Non è». Quella che non si puote partire è quella nella quale il parliere si sforza di mostrare una cosa essere iusta o no, nominando certa persona; in questo modo: «È da impendere Guido ch'à fatto furto, o no?». Od «È da guidardonare Julio Cesare ch'à conquistata Francia, o no?». Et tutte queste cause iudiciali si considerano sopra 'l tempo preterito, perciò che di ciò che ll'uomo à fatto in arrietro è guidardonato o punito.

 

 

Argomento 23

Tullio dice la sua sentenzia della materia di rettorica,

riprende quella d'Ermagoras.

 

Tullio: Et sì come porta la nostra oppinione, l'arte del parliere e la sua scienzia è di questa materia partita in tre. Ché certo non pare che Ermagoras attenda quello che dice né attenda ciò che promette, acciò che dovide la materia di questa arte in causa et in questione.

Sponitore: Poi che Tulio àe detto davanti le tre partite della materia di rettorica sì come fue oppinione d'Aristotile, in questa parte conferma Tulio la sentenzia d'Aristotile; e dice che pare a llui quel medesimo, e riprende la sentenzia d'Ermagoras, il quale diceva che lla materia del parliere è di due partite, cioè causa e quistione. Ma certo e' dovea così riprendere coloro che giungeano alla materia di quest'arte confortamento e disconfortamento e consolamento; e lui riprende Tulio nominatamente perciò ch'elli era più novello e però dovea elli essere più sottile, e riprendelo ancora però che ssi traea più innanzi dell'arte; e riprendendo lui pare che riprenda li altri. Ma però che Tulio non disfina lo riprendimento delli altri, sì vuole lo sponitore chiarire il loro fallimento, e dice così: Vero è che, sì come mostrato è qua in adietro, l'officio del parliere si è parlare appostatamente per fare credere, e questo far credere è sopra quelle cose che sono in lite, c'ancora non sono pervenute all'anima; ma chi vuole considerare il vero, e' troverà che confortamento e disconfortamento sono solamente sopra quelle cose che già sono pervenute all'anima. Verbigrazia: Lo sponitore avea propensato di fare questo libro, ma per negligenzia lo intralasciava; onde da questa negligenzia il potea bene alcuno ritrattare per confortamento, e questo conforto viene sopra cosa la quale era già pervenuta all'anima, cioè la negligenzia. Et se alcuno disconforta un altro che avea proposto di malfare, tanto che ssi 'nde rimane, altressì viene lo sconforto in cosa la quale era già pervenuta all'anima. Adunque è provato che conforto né disconforto non possono essere materia di questa arte. Ma consolamento puote anzi essere materia del parliere, perciò che puote venire sopra cosa c'ancora non sia pervenuta all'anima. Verbigrazia: Uno uomo avea fermato nel suo cuore di menare dolorosa vita per la morte d'una persona cui elli amava sopra tutte cose. Ma un savio lo consolava, tanto che propone d'avere allegrezza, la quale non era ancora pervenuta all'anima. Ma perciò che in questo consolamento non ha lite, perciò che 'l consolato non si difende né non allega ragioni contra il consolatore, non puote essere materia di questa arte. Or è ben vero che altri dissen che dimostrazione non era materia di questa arte, anzi era materia di poete, però ch'a' poete s'apartiene di lodare e di vituperare altrui. Et avegna che Tulio no lli riprenda nominatamente, assai si puote intendere la riprensione di loro in ciò ch'e' conferma la sentenza d'Aristotile che disse che dimostrazione e deliberazione e iudicazione sono materia di questa arte. Et sopra ciò nota che dimostrazione pertiene a' poeti et a' parlieri, ma in diversi modi: che ' poeti lodano e biasmano sanza lite, ché non è chi dica contra, e 'l parlieri loda e vitupera con lite, ché è chi dice contra il suo dire. Et perciò dice Tulio che non pare che Ermagoras intendesse quello che dicea, né che considerasse quello che prometea, dicendo che tutte cause e questioni proverebbe per rettorica. Or dicerà Tulio le riprensioni d'Ermagoras sopra causa e sopra questione.

 

 

Argomento 24

Tullio seguita Ermagoras della causa, etc.

 

Tullio: Causa dice che ssia quella cosa nella quale abbia controversia posta in dicere con interposizione di certe persone; la quale noi medesimo dicemo che è materia dell'arte e, sì come detto avemo dinanzi, che sono tre parti: iudiciale, dimostrativo e deliberativo.

Sponitore: Poi che Tulio avea detto che Ermagoras non intese se stesso dicendo che causa e questione sono materia di questa scienzia, sì dice in questa parte che Ermagoras dicea che fosse causa. Et causa appella una cosa della quale molti sono in controversia, perciò che ll'uno ne sente uno intendimento e l'altro ne trae un'altra diversa intenzione; sicché sopr'a cciò contendono di parole mettendo e nominando alcuna certa persona, che non si possa partire e che propiamente e determinatamente si partenga alle civili questioni. Et di questo dice Tulio che ss'accorda co llui, ché ciò àe elli detto davanti per sé e per Aristotile; ma dicerà omai com'elli errò in questione.

 

 

Argomento 25

Qui riprende Tullio Ermagoras.

 

Tullio: Questione apella quella che àe in sé controversia posta in dicere sanza interposizione di certe persone, a questo modo: Che èe bene fuori d'onestade? Sono li senni veri? Chente è la forma del mondo? Chente è la grandezza del sole? Le quali questioni intendemo tutti leggiermente essere lontane dall'officio del parliere; ché molto n'è grande mattezza e forseneria somettere al parliere in guisa di picciole cose quelle nelle quali noi troviamo essere consumata la somma dello 'ngegno de' filosofi con grandissima fatica.

Sponitore: Ora dice Tulio che Ermagoras appellava questione quella cosa sopra la quale era controversia intra molti, sicché contendeano di parole l'uno contra l'altro non nominando certa persona la quale propiamente s'apartenesse alle civili questioni. Et in ciò pone cotale exemplo: «Che è bene fuori d'onestade?». Grande contraversia fue intra ' filosofi qual fosse il sovrano bene in vita: et erano molti che diceano d'onestade, e questi fuoro i parepatetici; altri erano che diceano di volontade, e questi sono epicurii. Altressì fue questione se' senni sono veri, perciò che alcuna fiata s'ingannano, ché se noi credemo che ricalco sia oro sanza fallo s'inganna il nostro senno. Altressì fue questione della forma del mondo, però ch'alcuni filosofi provavano che 'l mondo è tondo, altri dicono ch'è lungo, o otangolo, o quadrato. Altressì era questione della grandezza del sole, ché alcuni dicono che 'l sole è otto tanti che lla terra, altri più et altri meno. Et questa misura si sforzavano di cogliere i maestri di geometria misurando la terra, e per essa misura ritraeano quella del sole. Et perciò mostra Tulio che Ermagoras non intese quello che dicea, ch'assai legiermente s'intende che queste cotali questioni non toccano l'ufficio del parliere. Et nota che dice «officio» però che ben potrebbe essere che 'l parliere fosse filosofo, e così toccherebbe bene a llui trattare di quelle questioni, ma ciò non arebbe per officio di rettorica ma di filosofia. Donque ben è fuori della mente e vano di senno quelli che dice che 'l parliere possa o debbia trattare di queste questioni, nelle quali tutto tempo si consumano et affaticano i filosofi. Or à provato Tulio che Ermagoras non intese quello che disse. Omai proverà come non attese quello che promise, in ciò che promettea di trattare per rettorica ogne causa et ogne questione. Et ciò fae a guisa de' savi, i quali vogliendo mostrare la loro sapienzia sì ll'apongono ad alcuna arte per la quale non si puote provare; come s'alcuno volesse trattare d'una questione di dialetica et aponessela a gramatica, per la quale non si pruova né ssi potrebbe provare, e ciò mosterrebbe usando per argomenti la sua sapienzia; e sopr'a cciò ecco 'l testo di Tulio.

 

 

Argomento 26

Tullio dice in somma ciò ch'elli avea detto davanti.

 

Tullio: Che se Ermagoras avesse in queste cose avuto gran savere acquistato per istudio e per insegnamento, parrebbe ch'elli, usando la sua scienzia, avesse ordinata una falsa cosa dell'arte del parliere, e non avesse sposto quello che puote l'arte ma quello che potea elli. Ma ora è quella forza nell'uomo ch'alcuno li tolga più tosto rettorica che no-lli concedesse filosofia. Ma perciò l'arte che fece non mi pare del tutto malmendosa, ch'assai pare ch'elli abbia in essa locate cose elette ingegnosamente e diligentemente ritratte delle antiche arti, et alcuna v'àe messo di nuovo; ma molto è piccola cosa dire dell'arte sì come fece elli, e molto è grandissima parlare per l'arte, la qual cosa noi vedemo ch'esso non poteo fare. Per la qual cosa pare a noi che materia di rettorica è quella che disse Aristotile, della quale noi avemo detto qua indietro.

Sponitore: In questa parte dice Tulio che se Ermagoras fosse stato bene savio, sicché potesse trattare le quistioni e le cause, parrebbe ch'avesse detto falso, cioè che avesse dato al parliere quello officio che nonn è suo; e così non avrebbe mostrata la forza dell'arte, ma averebbe mostrata la sua. «Ma ora è quella forza nell'uomo», cioè tal fue questo Ermagoras, che neuno che dicesse ch'e' non sappia rettorica no-lli concederae che ssia filosofo. «Ma perciò l'arte che fece non pare in tutto rea». In questa parola il cuopre Tulio e dimostra ch'elli avrebbe bene potuto dire pegio. Et dice «non è del tutto rea» perciò ch'elli àe messo nel suo libro con molta diligenzia e con ingegno li comandamenti delli altri maestri di questa arte, et alcuna cosa nuova v'agiunse. Et qui pare che Tulio lo lodi là ove il vitupera, dicendo che fosse furo in perciò che delle scritte d'altri maestri fece il suo libro. «Ma molto è picciola cosa dire dell'arte», ciò viene a dire ch'al parliere non s'apartiene dare insegnamenti dell'arte, sì come fece Ermagoras, ma apartiensi a llui in tutte guise parlare secondo li 'nsegnamenti e comandamenti dell'arte, la qual cosa non seppe fare esso. Adonque è da tenere la sentenzia d'Aristotile, che dice che materia di questa arte è dimostrativo, deliberativo e iudiciale. Et omai è detto sofficientemente e diligentemente del genere, cioè generalmente, dell'officio e della fine di rettorica; or si dicerà il conto delle sue parti, sì come Tulio promise nel suo testo qua indietro.

 

 

Argomento 27

Tullio dice le parti di rettorica.

 

Tullio: Le parti sono queste, sì come i più dicono: Inventio, dispositio, elocutio, memoria e pronuntiatio.

Sponitore: Cinque parti dice Tulio che sono et assegna ragione per che, e quella ragione metterà lo sponitore in suo luogo. Ma prima dicerà le ragioni che nne mostra Boezio nel quarto della Topica, che dice che se alcuna di queste cinque parti falla nella diceria, non è mai compiuta; e se queste parti sono in una diceria o inn una lettera, certo l'arte di rettorica vi fie altressì. Un'altra ragione n'asegna Boezio: che però sono sue parti perché esse la 'nformano et ordinano e la fanno tutta essere, altressì come 'l fondamento, la parete e 'l tetto sono parti d'una casa sì che la fanno essere, e s'alcuna ne fallisse non sarebbe la casa compiuta. Et dice Tulio che queste sono le parti di rettorica sì come i più dicono, però che furo alcuni che diceano che memoria non è parte di rettorica perciò che non è scienzia, et altri diceano che dispositio non è parte d'essa arte. Et così va oltre Tulio e dicerà di ciascuna parte per sé, e primieramente dicerà della 'nvenzione, sì come di più degna; e veramente è più degna, però ch'ella puote essere e stare sanza l'altre, ma l'altre non possono essere sanza lei.

 

 

Argomento 28

Tullio dice della invenzione.

 

Tullio: Inventio è apensamento a trovare cose vere o verisimili le quali facciano la causa acconcia a provare.

Sponitore: Dice Tulio che inventio è quella scienzia per la quale noi sapemo trovare cose vere, cioè argomenti necessarii – e nota «necessarii», cioè a dire che conviene che pure così sia – e sapemo trovare cose verisimili, cioè argomenti acconci a provare che così sia, per li quali argomenti veri e verisimili si possa provare e fare credere il detto o 'l fatto d'alcuna persona, la quale si difenda o che dica incontro ad un'altra. E questo puote così intendere il porto dello sponitore. Verbigrazia: Aviene una materia sopra la quale conviene dire parole, o difendendo l'una parte o dicendo contra l'altra; o per aventura sia materia sopra la quale si conviene dittare in lettera. Non sia donque la lingua pronta a parlare né la mano presta alla penna, ma consideri che 'l savio mette alla bilancia le sue parole tutto avanti che lle metta in dire né inn iscritta. Consideri ancora che 'l buono difficiatore e maestro poi che propone di fare una casa, primieramente et anzi che metta le mani a farla, sì pensa nella sua mente il modo della casa e truova nel suo extimare come la casa sia migliore; e poi ch'elli àe tutto questo trovato per lo suo pensamento, sì comincia lo suo lavorio. Tutto altressì dee fare il buono rettorico: pensare diligentemente la natura della sua materia, e sopra essa trovare argomenti veri o verisimili sì che possa provare e fare credere ciò che dice. Et già è detto quello che è inventio. Ora procederà il conto a dire quello che è dispositio.

 

 

Argomento 29

Dice Tullio de dispositio.

 

Tullio: Dispositio èe assettamento delle cose trovate per ordine.

Sponitore: Perciò che trovare argomenti per provare e far credere il suo dire non vale neente chi no lli sae asettare per ordine, cioè mettere ciascuno argomento in quella parte e luogo che ssi conviene, per più affermamento della sua parte, sì dice Tulio che è dispositio. E dice ch'è quella scienzia per la quale noi sapemo ordinare li argomenti trovati in luogo convenevole, cioè i fermi argomenti nel principio, i deboli nel mezzo, i fermissimi, co' quali non si possa contrastare lievemente, nella fine. Così fae il difficatore della casa, che poi ch'elli àe trovato il modo nella sua mente, elli ordina il fondamento in quel luogo che ssi conviene, e lla parete e 'l tetto, e poi l'uscia e camere e caminate, et a ciascuna dà il suo luogo. Già è detto che è dispositio; or dicerà il conto che è elocutio.

 

 

Argomento 30

Tullio dice della locuzione.

 

Tullio: Elocutio è aconciamento di parole e di sentenzie avenanti alla invenzione.

Sponitore: Perciò che neente vale trovare od ordinare chi non sae ornare lo suo dire e mettere parole piacevoli e piene di buone sentenze secondo che ssi conviene alla materia trovata, sì dice Tulio che è elocutio. Et dice che è quella scienzia per la quale noi sapemo giungere ornamento di parole e di sentenze a quello che noi avemo trovato et ordinato. E nota che ornamento di parole èe una dignitade la quale proviene per alcuna delle parole della diceria, per la quale tutta la diceria risplende. Verbigrazia: «Il grande valore che in voi regna mi dà grande speranza del vostro aiuto». Certo questa parola, cioè «regna», fa tutte risplendere l'altre parole che ivi sono. Altressì nota che ornamento di sentenze è una dignitade la quale proviene di ciò che in una diceria si giugne una sentenza con un'altra con piacevole dilettamento. Verbigrazia: in queste parole di Salamone: «Melliori sono le ferite dell'amico che ' frodosi basci del nemico». Et già è detto che è elocutio, cioè apparecchiamento di parole e di sentenzie che facciano la diceria piacevole et ordinata di parole e di sentenzie. Omai procederà il conto alla quarta parte di rettorica, cioè memoria.

 

 

Argomento 31

Dice Tullio della memoria.

 

Tullio: Memoria è fermo ricevimento nell'animo delle cose e delle parole e dell'ordinamento d'esse.

Sponitore: Et perciò che neente vale trovare, ordinare o aconciare le parole, se noi no-lle ritenemo nella memoria sicché ci 'nde ricordi quando volemo dire o dittare, sì dice Tulio che è memoria. Onde nota che memoria èe di due maniere: una naturale et un'altra artificiale. La naturale è quella forza dell'anima per la quale noi sapemo ritenere a memoria quello che noi aprendemo per alcuno senno del corpo. Artificiale è quella scienzia la quale s'acquista per insegnamenti delli filosofi, per li quali bene impresi noi possiamo ritenere a memoria le cose che avemo udite o trovate o aprese per alcuno de' senni del corpo; e di questa memoria artificiale dice Tulio ch'è parte di rettorica. Et dice che memoria è quella scienzia per la quale noi fermiamo nell'animo le cose e le parole ch'avemo trovate et ordinate, sicché noi ci 'nde ricordiamo quando siemo a dire. Et già è detto che è memoria; sì dicerà il conto la quinta et ultima parte di rettorica, cioè pronuntiatio.

 

 

Argomento 32

Dice Tullio della pronunziagione.

 

Tullio: Pronuntiatio è avenimento della persona e della voce secondo la dignitade delle cose e delle parole.

Sponitore: Et al ver dire poco vale trovare, ordinare, ornare parole et avere memoria chi non sae profferere e dicere le sue parole con avenimento. Et perciò alla fine dice Tulio che è pronuntiatio; e dice ch'è quella scienzia per la quale noi sapemo profferere le nostre parole et amisurare et accordare la voce e 'l portamento della persona e delle membra secondo la qualitade del fatto e secondo la condizione della diceria. Ché chi vuole considerare il vero, altro modo vuole nelle voci e nel corpo parlando di dolore che di letizia, et altro di pace che di guerra. Che 'l parliere che vuole somuovere il populo a guerra dee parlare ad alta voce per franche parole e vittoriose, et avere argoglioso advenimento di persona e niquitosa ciera contra ' nemici. Et se lla condizione richiede che debbia parlamentare a cavallo, sì dee elli avere cavallo di grande rigoglio, sì che quando il segnore parla il suo cavallo gridi et anatrisca e razzi la terra col piede e levi la polvere e soffi per le nari e faccia tutta romire la piazza, sicché paia che coninci lo stormo e sia nella battaglia. Et in questo punto non pare che ssi disvegna a la fiata levare la mano o per mostrare abondante animo o quasi per minaccia de' nemici. Tutto altrimenti dee in fatto di pace avere umile advenimento del corpo, la ciera amorevole, la voce soave, la parola paceffica, le mani chete; e 'l suo cavallo dee essere chetissimo e pieno di tanta posa e sì guernito di soavitade che sopr'a llui non si muova un sol pelo, ma elli medesimo paia factore della pace. Et così in letizia de' 'l parlatore tenere la testa levata, il viso allegro e tutte sue parole e viste significhino allegrezza. Ma parlando in dolore sia la testa inchinata, il viso triste e li occhi pieni di lagrime e tutte sue parole e viste dolorose, sicché ciascuno sembiante per sé e ciascuno motto per sé muova l'animo dell'uditore a piangere et a dolore. Et già è detto delle cinque parti sustanziali di rettorica interamente secondo l'oppinione di Tulio, e sì come lo sponitore le puote fare meglio intendere al suo porto; sì ritorna Tulio a scusare sé medesimo di ciò che non àe mostrato ragione perché quello sia genere et officio e fine di rettorica sì com'elli àe fatto della materia e delle parti, e dice in questo modo.

 

 

Argomento 33

Tullio dice che tratterà della materia e delle parti.

 

Tullio: Oramai dette brievemente queste cose, atermineremo in altro tempo le ragioni per le quali noi potessimo dimostrare il genere e ll'officio e lla fine di quest'arte, però che bisognano di molte parole e non sono di tanta opera a mostrare la propietade e lle comandamenta dell'arte. Ma colui che scrive l'arte rettorica pare a noi che 'l convenga scrivere dell'altre due, cioè della materia e delle parti. E io perciò voglio trattare della materia e delle parti congiuntamente. Adunque si dee considerare più intentivamente chente in tutti generi delle cause debbia essere inventio, la quale è principessa di tutte le parti.

Sponitore: In questa parte dice Tulio che non vuole ora provare perché quello sia genere di rettorica che detto è davante, né llo officio né lla fine, però che vorrebbe lunghe parole e non sono di molto frutto, e però l'atermina nell'altro libro nel quale tratta sopr'a cciò; et in questo presente libro tratta della materia, cioè dimostrazione, deliberazione e iudicazione, et altressì tratta delle parti, cioè inventio, dispositio, elocutio, memoria e pronuntiatio. Et di tutte queste tratterà insieme e comunemente. Ma però che inventio è la più degna parte, sì dicerà Tulio chente ella dee essere in ciascuno genere di rettorica, cioè come noi dovemo trovare quando la materia sia di causa dimostrativa, e quando sia deliberativa, e quando sia iudiciale; e tratterà sì comunemente che mosterrà come sia da trovare in catuna di queste cause, e come ordinare e come ornare la diceria, e come tenere a memoria e come profferere le sue parole.

Lo sponitore parla all'amico suo.

– Perciò lo sponitore priega 'l suo porto, poi ch'elli àe impresa altezza di tanta opera come questa èe, che a llui piaccia di sì dare l'animo a cciò ch'è detto davanti, spezialmente in connoscere il dimostrativo e 'l deliberativo e 'l iudiciale che sono il fondamento di tutta l'arte, e poi a quel che siegue per innanzi, ch'elli intenda tutto 'l libro di tal guisa che, per lo buono aprendimento e per lo bel dire che farà secondo lo 'nsegnamento dell'arte, il libro e lo sponitore ne riceveranno perpetua laude.

 

 

Argomento 34

Della constituzione e delle quattro sue parti.

 

Tullio: Ogne cosa la quale àe alcuna controversia in diceria o in questione contiene in sé questione di fatto o di nome o di genere o d'azione; e noi quella questione della quale nasce la causa apelliamo constituzione. E constituzione è quella ch'è prima pugna delle cause, la quale muove dal contastamento della intenzione in questo modo: «Facesti» – «Non feci» o «Feci per ragione».

Sponitore: Poi che Tulio àe detto di mostrare e trattare della invenzione e della materia insieme, sì mostra lo sponitore in che ordine trattò de l'inventio; ma per maggiore chiarezza dicerà tutto avanti in che significazione si prendono queste parole, cioè causa, controversia, constituzione e stato. Causa vale tanto a dire quanto il detto o 'l fatto d'alcuno, per lo quale è messo in lite, ed è appellato causa tutto 'l processo dell'una e dell'altra parte. Et appellasi causa tutta la diceria e la contenzione cominciando al prolago e finiendo alla conclusione; donde dice uomo: «La mia causa è giusta» cioè «la mia parte è giusta». Controversia vale a dire tanto come causa, e viene a dire controversare cioè usare l'uno coll'altro di diverse ragioni e contrarie. Questione tant'è a dire come 'l primo detto di colui che comincia contra un altro e 'l secondo detto di colui che ssi difende. Et appellasi quistione una diceria nella quale àe due parti messe in guisa di dubitazione, et appellasi questione per l'una e per l'altra parte della questione. Constituzione si prende et intende in quelle medesime significazioni che sono dette davanti. Stato è appellato il detto e 'l fatto dell'aversario, però che ' parliere stanno a provare quel detto o quel fatto; e questo medesimo è appellato constituzione perciò che 'l parliere constituisce et ordina la sua ragione e la sua parte di quel detto o di quel fatto. Et per ciò è appellato controversia che diversi diversamente sentono di quel detto o di quel fatto.

Qui dice lo sponitore come Tulio tratterà della Invenzione.

– Et poi che llo sponitore àe dette le significazioni di queste parole, dicerà in chente ordine Tulio tratta della 'nvenzione. Et certo primieramente insegna invenire e trovare quelle questioni le quali trattano i parlieri, et appellale constituzioni e dice la propietade di constituzione e dividela in parti. Nel secondo luogo mostra qual causa sia simpla, cioè di due divisioni, e qual sia composta, cioè di quattro o di più. Nel terzo luogo mostra qual contraversia sia in scritta e quale in dicere. Nel quarto luogo mostra quelle cose che nascono di constituzione, cioè la diceria nella quale àe due divisioni e ragioni, e lla giudicazione e 'l fermamento. Nel quinto luogo mostra in che guisa si debbono trattare le parti della diceria secondo rettorica. Nel sesto luogo mostra quante sono esse parti e quali e che sia da ffare in ciascuna. Et disponesi così il testo di Tulio per fare intendere onde procedono le quistioni che toccano al parliere di questa arte

Sponitore: Ogne cosa la quale àe in sé controversia, cioè della quale i diversi diversamente sentono sicché alcuna cosa dicono sopr'a cciò con inquisizione, cioè per sapere se alcuna delle parti è vera o falsa, sì à in sé questione di fatto, cioè questione la quale muove di ciò che alcun fatto è apposto altrui. Verbigrazia: Dice l'uno contra l'altro: «Tu mettesti fuoco nel Campidoglio»; et esso risponde: «Non misi». Di questo nasce una cotale questione, se elli fece questo fatto o no, et è appellata questione di fatto per quello fatto che a llui è apposto, etc. Od è questione di nome, cioè che ll'una parte appone un nome a un fatto e l'altra parte n'appone un altro. Verbigrazia: Alcuno à furato d'una chiesa uno cavallo o altra cosa che non sia sagrata. Dice l'una parte contra lui: «Tu ài commesso sacrilegio». Dice l'altro: «Non sacrilegio, ma furto». Et nota che sacrilegio è molto peggiore che furto, perciò che colui commette sacrilegio che fura cosa sacrata di luogo sacrato. Donde di questo nasce una questione del nome di quel fatto, cioè se dee avere nome furto o sacrilegio, e però è appellata questione del nome. Od è questione del genere, cioè della qualitade d'alcuno fatto, in ciò che ll'una parte appone a quel fatto una qualitade e l'altra un'altra. Verbigrazia: Dice l'uno: «Questi uccise la madre iustamente perciò ch'ella avea morto il suo padre». Dice l'altro: «Non è vero, ma iniustamente l'à fatto»; e di ciò nasce cotal questione di questa qualitade: se l'à fatto iustamente o iniustamente, e perciò è appellata questione di genere, cioè della qualità d'un fatto e di che maniera sia. Od è questione d'azione, cioè viene a dire che contiene questione la quale procede di ciò, c'alcuna azione si muta d'un luogo ad altro e d'un tempo ad altro. Verbigrazia: Dice uno contra un altro: «Tu m'ài furato un cavallo»; et esso risponde: «Vero è, ma non tine rispondo in questo tempo, perciò che ttu se' mio servo, o perciò ch'è tempo feriato, o perciò ch'io non debbo risponderti in questa corte, ma in quella della mia terra». Onde di questo procede una questione, la quale Tulio dice che è d'azione, cioè se colui dee rispondere o no. Et dice Tulio che tutte le quistioni che sono dette davanti sono appellate constituzioni, cioè c'anno questo nome. Et dice che constituzione è la prima pugna delle cause, cioè quello sopra che da prima contendono i parlieri, cioè il detto dell'uno e 'l detto dell'altro, e questo sopra che de prima contendono i parlieri si è il nascimento, cioè che muove del contrastamento della intenzione, cioè del detto di colui che ssi difende contra le parole dell'accusatore. Onde contastamento è appellato el primo detto del difensore e intentione è appellata il primo detto dello accusatore. Et pare che il nascimento della constituzione vegna della difensione ch'è della accusa, non che nasca della difensione, ma perciò che del detto del difenditore si puote cognoscere se lla causa o lla questione è di fatto o di genere o di nome o d'azione, sì come appare nelli exempli che sono messi davanti. Et omai dicerà Tulio le nomora e lle divisioni e lle proprietadi e lle cagioni di tutte le dette questioni.

 

 

Argomento 35

Del fatto, et è detto congetturale.

 

Tullio: Quando la controversia è di fatto, perciò che lla causa si ferma per congetture, sì à nome constituzione congetturale.

Sponitore: In questa parte dice Tulio che quando la contenzione è per alcuno fatto che sia apposto ad altrui, sì come davanti si dice, sì conviene ch'ella sia provata per congetture, cioè per suspezioni e per presunzioni. Verbigrazia: Dice uno contra un altro: «Veramente tu uccidesti Aiaces, ch'io ti trovai e vidi traiere il coltello del suo corpo». Et questa è faticosa questione, ciò dice Vittorino, perciò che a provarla si faticano molto i parlieri, perciò ch'altressì ferme ragioni si possono inducere per l'una parte come per l'altra. E poi ch'è detto della constituzione di fatto, sì dicerà Tulio di quella ch'è di nome.

 

 

Argomento 36

Del nome, et è appellata diffinitiva.

 

Tullio: Quando è la controversia del nome, perciò che lla forza della parola si conviene diffinire per parole, sì è nominata diffinitiva.

Sponitore: In questa parte dice Tulio che quando la contenzione è del nome del fatto, cioè come quel fatto ch'è apposto altrui abbia nome, quella questione si è diffinitiva perciò che lla forza, cioè la significazione di quella parola e di quel nome si conviene diffinire, cioè aprire e rispianare che viene a dire e che signiffica, non per exempli ma per parole brevi e chiare et intendevole. Verbigrazia: Un uomo è accusato che tolse uno calice d'uno luogo sacrato et è lli apposto che sia sacrilegio, et esso si difende dicendo che non è sacrilegio ma furto. Or sopra questa controversia si è tutta la questione per lo nome di questo fatto: è sacrilegio o furto? Onde per sapere la veritade si conviene diffinire l'uno nome e ll'altro, cioè dire la signifficazione e llo 'ntendimento di ciascuno nome, e poi che fie chiarito per le parole quello che 'l nome signiffica, assai bene si potrà intendere e provare qual nome si ponga a quel fatto. Et poi ch'è detto del nome, sì dicerà Tulio del genere.

 

 

Argomento 37

Dice Tullio del genere, et è appellato generale.

 

Tullio: Quando è quistione della cosa qual sia, perciò che lla controversia è della forza e del genere del fatto, si è vocata constituzione generale.

Sponitore: In questa parte dice Tulio che quando è questione della cosa quale ella sia, perciò che lla controversia è della forza del fatto, cioè della quantitade, e della comparazione et altressì del genere, cioè della qualitade d'esso fatto, sì è vocata constituzione generale. Verbigrazia: La quantitade del fatto si è cotale questione: se uno à fatto tanto quanto un altro, sì come fue questione se Tulio avea tanto servito al comune di Roma quanto Catone. La comparazione del fatto si è cotale: di due partiti qual sia migliore, sì come fue questione quando i Romani presono Cartagine qual era il meglio tra disfarla o lasciarla. Il genere del fatto si è questione della qualità del fatto sì come davanti fue messo l'exemplo, cioè se colui che fece il fatto fece iustamente o iniustamente.

 

 

Argomento 38

Dice Tullio dell'azione, et è appellata translativa.

 

Tullio: Ma quando la causa pende di ciò che non pare che quella persona che ssi conviene muova la questione, o non la muove contra cui si conviene, [o non appo coloro che ssi conviene,] o non in tempo che ssi conviene, o non di quella lege o di quel peccato o di quella pena che ssi conviene, quella constituzione à nome translativa, però che ll'azione bisogna d'avere translazione e tramutamento.

Sponitore: In questa parte dice Tulio della controversia dell'azione, che quando sopr'a cciò è lla questione e' si conviene che ll'azione si tramuti in tutto o in parte, e perciò à nome translativa, cioè tramutativa. Et questo è o puote essere per sette maniere, le quali sono nominate nel testo, cioè: Quando non muove la questione quella persona a cui la conviene di muovere. Verbigrazia: Dice uno scolaio contra ad un altro: «Tu se' venuto troppo tardi a scuola». Et esso dice: «A te no 'nde rispondo, ché non ti si conviene muovermi questione di ciò, ma conviensi al nostro maestro». O non muove la questione contra quella persona che ssi conviene. Verbigrazia: Fue trovato che in Roma si trattava tradimento e fue alcuno che ll'aponea contra Iulio Cesare, et esso dicea: «Contra me non si conviene muovere di ciò questione, ma contra Catellina che ll'àe fatto e fa tutta fiata». O non muove la questione appo coloro che ssi conviene, cioè davanti a quelle persone che dee. Verbigrazia: Fue accusato il vescovo di simonia davanti al re di Navarra. Il vescovo dice: «Tu non m'accusi davante a giudice ch'io debbia rispondere, ma io son bene tenuto di ciò e d'altro davante l'appostolico». O non muove la quistione in quel tempo che ssi conviene. Verbigrazia: Uno fue accusato il giorno di Pasqua; esso dicea: «Non rispondo ora di questo, perciò che oggi non è tempo d'attendere a cotali convenenti». O non muove questione a quella lege che ssi conviene. Verbigrazia: Uno cittadino di Roma era in Parigi e volea piatire contra uno francesco secondo la legge di Roma; ma quel francesco dice che non dee rispondere a quella legge ma a quella di Francia. O non muove la questione di quel peccato che ssi conviene. Verbigrazia: Fue accusato uno, che non avea il membro masculino, ch'avesse corrotta una vergine; esso dice: «Io non risponderò di questo peccato». O non muove questione di quella pena che ssi conviene. Verbigrazia: Fue uno accusato ch'avea morto uno gallo et erali apposto che perciò dovea perdere la testa; esso dicea: «Non rispondo a questa pena, perciò che non tocca a questo peccato». Donde tutte queste questioni sono translative, cioè che ssi tramutano in altro fatto e stato, tal fiata in tutto e tal fiata in parte, sì come appare nelli exempli di sopra.

 

 

Argomento 39

Dice Tullio se l'una delle dette quattro cose

non fosse non sarebbe causa.

 

Tullio: E così conviene che ssia l'una di queste inn ogne maniera di cause, perciò che in qual causa no 'nde fosse alcuna, certo in quella non porrebbe avere contraversia, e perciò conviene che non sia tenuta causa.

Sponitore: Poi che Tulio àe divisate le parti della constituzione et àe detto che e come è ciascuna di quelle parti e le loro nomora, sì vuole Tulio provare che quando l'una di queste questioni, che sono del fatto o del nome o della qualità o del tramutare l'azione, non è intra parlieri, certo intra loro non puote essere controversia; e poi che 'ntra loro non à controversia, certo il fatto sopra il quale dicessero parole non sarebbe causa, e così non sarebbe materia di questa arte, cioè che non sarebbe dimostrativo né diliberativo né iudiciale. Et provando questo sì dimostra Tulio che lle predette cose in questa arte sono sì congiunte insieme che qualunque causa è dimostrativa o deliberativa o iudiciale sì conviene che sia constituzione o del fatto o del nome o della qualitade o dell'azione, et e converso che qualunque constituzione è del fatto o del nome o della qualità o dell'azione sì conviene che sia dimostrativa o deliberativa o iudiciale. Et omai perseverrà Tulio sua materia per dicere di ciascuna parte per sé.

 

 

Argomento 40

Del fatto.

 

Tullio: La contraversia del fatto si puote distribuire in tutti tempi: ché ssi puote fare quistione che è essuto fatto, in questo modo: «Ulixes uccise Aiace o no?». Et puotesi fare questione che ssi fa ora, in questo modo: «Sono i Fregelliani in buono animo verso lo comune o no?». Et puotesi fare questione che ssi farà, in questo modo: «Se noi lasciamo Cartagine intera, e' verranne bene al comune o no?».

Sponitore: In questa parte dice Tulio che lla controversia la quale è di fatto che ssia apposto ad altrui, la quale àe nome constituzione congetturale sì come fue detto in adietro e messo in exempli, sì puote essere in tutti tempi, cioè preterito, presente e futuro. Nel preterito pone Tulio l'exemplo della morte d'Aiaces, che fue cotale. Stando l'assedio di Troia sì fue morto il buon Achilles, et apresso la sua morte fue grande questione delle sue armi intra Ulixes et Aiaces. Et certo Ulixes fue, secondo che contano le storie, il più savio uomo de' Greci e 'l milior parliere, sicché per lo grande senno che iollui regnava e per lo bene dire mettea in compimento le grandi vicende, alle quali altre non sapea pervenire, e perciò adoperò e' più di male contra ' Troiani per lo suo senno che non fecero quasi tutta l'oste per arme, et alla fine si parve manifestamente, ch'elli fue trovatore del cavallo per lo quale fue Troia perduta e tradita; ma veramente in guerra non si fatigava molto con arme e non era di gran prodezza, ma tuttavolta dimandava che lli fossono concedute l'armi d'Achilles, e dicea che nn'era degno e ch'avea in quella guerra ben fatta l'opera perché etc. Et dall'altra parte Aiaces era uno cavaliere franco e prode all'arme, di gran guisa, ma non era pieno di grande senno e sanza molto [...] francamente avea portate l'armi in quella guerra, e perciò domandava l'armi d'Achilles e dicea che non si conveniano ad Ulixes. Onde alla fine l'armi furono concedute ad Ulixes, per la qual cosa montò tra lloro tanta invidia che divennero nemici mortali; et in questo mezzo tempo fue morto Aiaces e fue della sua morte accusato Ulixes, et esso si difendea e negava; e di questo sì era questione di fatto in preterito, cioè che già era fatto in tempo passato. Inel presente tempo mette Tulio l'exemplo de' Fragellani, che furo una gente i quali furono accusati in Roma ch'elli aveano male animo contra il comune. Et elli si difendeano e diceano che ll'aveano buono e dritto; e di ciò sì era questione di fatto presente, cioè se sono ora presentemente di buono animo o no. Nel futuro mette Tulio l'exemplo di Cartagine, la quale fue una delle più nobiLi cittadi e delle più poderose del mondo, e tenne guerra contro a Roma, sì ch'alla fine i Romani vinsero e presero la terra; e furo alcuni che voleano che lla cittade si disfacesse per lo bene di Roma, et altri consigliaro del no, perciò che 'l meglio ne potrebbe advenire s'ella rimanesse intera, e di ciò è questione del tempo futuro, cioè se bene o male n'averrà se Cartagine rimanesse intera o s'ella si disfacesse. Ma poi che Tulio à detto della controversia del fatto, sì dicerà di quella del nome in questo modo.

 

 

Argomento 41

Del nome.

 

Tullio: Controversia del nome è quando lo fatto è conceduto, ma è questione di quello ch'è fatto in che nome sia appellato; et in questo conviene che sia controversia del nome, perciò che non s'accordano della cosa; non che del fatto non sia bene certo, ma che quello ch'è fatto non pare all'uno quello ch'all'altro, e perciò l'uno l'appella d'un nome e l'altro d'un altro. Per la qual cosa in questa maniera la cosa dee essere diffinita per parole e brevemente discritta, come se alcuno à tolta una cosa sacrata d'uno luogo privato, se dee essere giudicato furo o sacrilego, ché certo in essa questione conviene difinire l'uno e l'altro, che sia furo e che sacrilego, e mostrare per sua discrezione che lla cosa conviene avere altro nome che quello che dicono li aversarii.

Sponitore: In questa parte dice Tulio della controversia del nome; e perciò che di questo è molto detto davanti, sì sine trapassa lo sponitore brevemente, dicendo solamente la tema del testo, sopra 'l quale il caso è cotale: Roberto accusa Gualtieri ch'elli àe malamente tolta una cosa sacrata, sì come uno calice o altra simile cosa la quale sia diputata a' divini mistieri, e dice che lla tolse d'uno luogo privato, cioè d'una casa o d'altro luogo non sacrato. Viene l'accusato e confessa il fatto. Dice l'accusatore: «Tu ài fatto sacrilegio». Dice l'accusato: «Non ò fatto sacrilegio, ma furto». Et così sono in concordia del fatto, ma non della cosa, cioè della proprietade per la quale si possa sapere che nome abbia questo fatto, perciò ch'all'accusatore pare una, ché dice ch'è sacrilegio, et all'accusato pare un'altra, ché dice ch'è furto. Onde in questa maniera di controversia si conviene che 'l parliere che dice sopra questa materia diffinisca e faccia conto in brevi parole che cosa è sacrilegio e che è furto; e così dee mostrare come questo fatto non à quel nome che dice l'aversario. Et è detto della controversia del nome; omai dicerà Tulio di quella del genere, in questo modo:

 

 

Argomento 42

Del genere.

 

Tullio: Controversia del genere è quando il fatto è conceduto e sono certi del nome d'esso fatto; ma è questione della quantitade del fatto o del modo o della qualitade, in questo modo: giusto o ingiusto – utile o inutile – e tutte cose nelle quali è questione chente sia quel fatto.

Sponitore: In questa parte dice Tulio della questione del genere, e di questa è tanto detto dinanzi che 'n poche parole dimorerà lo sponitore; e dice che quella controversia è del genere nella quale l'accusato confessa il fatto et è in concordia coll'accusatore del nome d'esso fatto, ma sono in discordia della quantitade del fatto, cioè se grande o piccolo o molto o poco. Verbigrazia: Un grande Romano quando dovea cacciare i nemici del suo comune si fugìo. Fue accusato ch'avea fatto danno e male alla maestà della città di Roma; l'accusato confessa il fatto e 'l nome del facto. Dice l'accusatore: «Questo è grande danno». Dice l'accusato: «Non è grande, ma piccolo». Ed è la discordia tra lloro della quantità, cioè se quel male è grande o piccolo. O sono in discordia del modo, cioè della comparazione del fatto, sì come fue detto qua indietro nell'exemplo di Cartagine, qual fosse la migliore parte tra disfare o lasciare. O sono in discordia della qualitade del fatto, sì come pare in exemplo d'Orestes che uccise la sua madre, e fue accusato che ll'avea morta ingiustamente; et esso si difende e dice che ll'à morta giustamente, ma bene confessa il fatto e 'l nome del fatto; ma sono in discordia della qualità, cioè se ll'àe fatto giustamente o ingiustamente. Ben è vero che Tulio non mette in exemplo della quantitade nel testo, né della comparazione, se non solamente della qualitade; e questo fae perciò che più sovente ne vien tra lle mani che non fanno l'altre, e perciò dice che tutte cose nelle quali si confessa il fatto e 'l nome del fatto, ma è questione della qualità d'esso fatto, sì è controversia del genere. Et poi che Tullio à detto di questa questione del genere secondo il suo parimento, sì procede immantenente a riprendere Ermagoras dell'errore suo in questa controversia del genere.

 

 

Argomento 43

Dell'errore d'Ermagoras.

 

Tullio: A questo genere Ermagoras sottopuose quattro parti, ciò sono deliberativo, demostrativo, iudiciale e negoziale. Il quale suo fallimento non mezanamente pare che ssia da riprendere, ma in breve, perciò che sse noi ci ne passiamo così tacendo fosse pensato che noi lo seguissimo sanza cagione; o se lungamente soprastessimo in ciò, paia che noi facessimo dimoro et impedimento agli altri insegnamenti.

 

 

Argomento 44

 

Tullio: Se deliberamento e dimostramento sono generi delle cause, non possono essere diritte parti d'alcuno genere di causa, perciò che una medesima cosa puote bene essere genere d'una e parte d'un'altra, ma non puote essere parte e genere d'una medesima. Et certo deliberamento e dimostramento sono genera delle cause. Ma o non è alcuno genere di cause, o è pur iudiciale solamente, o è iudiciale e dimostrativo e deliberativo. Dicere che non sia alcun genere di cause, con ciò sia cosa ch'e' medesimo dice che lle cause sono molte e sopra esse dà insegnamento, è grande forseneria. Un genere, cioè pur iudiciale solamente, non puote essere, acciò che diliberamento e dimostramento non sono simili intra lloro e molto si discordano dal genere iudiciale, e ciascuno à suo fine al quale si dee ritornare. Adunque è certo che tutti e tre son generi delle cause, e così deliberamento e dimostramento non possono essere a diritto tenute parti d'alcuno genere di causa. Dunque malamente disse ch'elli fossero parte della constituzione del genere.

 

 

Argomento 45

 

Tullio: Et s'elle non possono essere tenute diritte parti della causa del genere, molto meno fien tenute parti della diritta parte della causa; e parte della causa è ogne constituzione; donde no la causa alla constituzione, ma la constituzione s'acconcia alla causa. Ma dimostramento e diliberamento non possono essere tenute diritte parti della causa del genere, perciò che sono generi: donque molto meno debbono essere tenuti parte di quello ch'esso dice.

 

 

Argomento 46

 

Tullio: Appresso ciò, se lla constituzione et essa e ciascuna parte della constituzione è difensione contra quello ch'è apposto, conviene che quella che no è difensione non sia constituzione né parte di constituzione. Et certo deliberamento e dimostramento non sono constituzione. Dunque se constituzione et ella e la sua parte è difensione contra quello ch'è apposto, il dimostramento e 'l diliberamento non è constituzione né parte di constituzione. Ma piace a llui che ssia difensione. Dunque conviene che lli piaccia che non sia constituzione, né parte di constituzione. Et in altrettale isconvenevile fie condotto, se esso dica che constituzione sia la prima confermazione dell'accusatore o lla prima preghiera del difenditore; e così seguiranno lui tutti questi sconvenevoli.

 

 

Argomento 47

 

Tullio: Appresso ciò, la causa congetturale, cioè di fatto, non puote d'una medesima parte inn un medesimo genere essere congetturale e diffinitiva; et altressì la diffinitiva causa non puote essere d'una medesima parte inn uno medesimo genere diffinitiva e translativa. Et al postutto neuna constituzione né parte di constituzione puote avere e tenere la sua forza et altrui; perciò che ciascuna è considerata semplicemente per sua natura; se l'altra si prende, il nomero delle constituzioni si radoppia, non si cresce la forza della constituzione. Veramente la causa deliberativa insieme d'una medesima parte in un medesimo genere suole avere la constituzione congetturale e generale e diffinitiva e translativa, et alla fiata una e talvolta piusori. Adunque, essa non è constituzione né parte di constituzione. Et questo medesimo suole usatamente advenire della causa dimostrativa. Adunque sì come noi avemo detto davanti, questi, cioè deliberamento e dimostramento, sono generi delle cause e non parti d'alcuna constituzione.

Sponitore: In questa parte dice Tulio che Ermagoras dicea che lla controversia del genere avea quattro parti sotto sé, ciò sono deliberativo, demostrativo, iudiciale e negoziale; della qual cosa Tulio lo riprende in tutte guise, e mostra molte ragioni come Ermagoras errava malamente, e questo pruova manifestamente per argomenti dialetici: che dimostramento e deliberamento sono generi delle cause sì che lle cause sono parti di loro; e poiché sono generi, cioè il tutto delle cause, non possono essere parte delle cause, acciò ch'una cosa non puote essere tutto d'una cosa e parte di quella medesima. Et così per molte ragioni o vuoli argomenti conclude Tulio che Ermagoras avea mal detto, e poi seguentemente dice la sua sentenza: quali sono le parti della constituzione del genere, cioè della quantitade e del modo e della qualitade del fatto, sì come qui dinanzi fue detto. Et in ciò incomincia la sentenzia di Tullio in questo modo:

 

 

Argomento 48

Le parti della constituzione generale.

 

Tullio: Questa constituzione del genere pare a noi ch'abbia due parti: Iudiciale e negoziale.

Sponitore: Poi che Tullio àe ripresa l'oppinione d'Ermagoras delle quattro parti, sì dice la sua sentenza e dice che sono pur due parti, cioè quelle altre due che dicea Ermagoras: iudiciale e negoziale; et immantenente detta la sua sentenza, la quale vince quella d'Ermagoras e d'ogn'altro, sì dice e dimostra che è iudiciale e che è negoziale, in questo modo: GENERALE: Iudiciale-Negoziale.

 

 

Argomento 49

Di Iudiciale.

 

Tullio: Iudiciale è quella nella quale si questiona la natura di dritto e d'iguaglianza e la ragione di guiderdone o di pena.

Sponitore: La iudiciale constituzione è quella nella quale per diritto, cioè per ragione provenuta per usanza e per iguallianza, cioè per ragione naturale o per ragione scritta, si questiona sopra la quantitade o sopra la comparazione o sopra la qualitade d'un fatto, per sapere se quel fatto è giusto o ingiusto o buono o reo. Altressì è iudiciale quella nella quale è questione d'alcuno per sapere s'egli è degno di pena o di merito. Verbigrazia: «Alobroges è degno d'avere merito di ciò che manifestò la congiurazione di Catellina?», e questionasi del sì o del no. Et anche questo exemplo: «È Giraldo degno di pena di ciò che commise furto?», e questionasi del sì o del no. Et poi che à detto Tulio del iudiciale, sì dicerà dell'altra parte, cioè della negoziale.

 

 

Argomento 50

Di negoziale.

 

Tullio: Negoziale è quella nella quale si considera chente ragione sia per usanza civile o per equitade, sopra alla quale diligenzia sono messi i savi di ragione.

Sponitore: Dice Tulio che quella constituzione è appellata negoziale nella quale si considera per usanza civile, cioè per quella ragione la quale i cittadini o paesani sono usati di tenere i-lloro uso o in loro costuduti, o per equitade, cioè per legi scritte, chente ragioni debbiano essere sopra quella constituzione. Et intra la iudiciale e la negoziale àe cotale differenzia: che lla iudiciale tratta sopra le cose passate et intorno le leggi scritte e trovate; ma la negoziale intende intorno le presenti e future et intorno le legi et usanze che saranno scritte e trovate. Et questa è di molta fatica, perciò che ' parlieri s'affaticano di grande guisa a provarla et a formare nuove ragioni et usanze allegando in ciò ragioni da simile o da contrario. Et questa questione si tratta davante a' savi di legge e di ragione, ma in provare la iudiciale basta dicere pur quello che lla ragione ne dice. Et poi che Tulio à detto che è la iudiciale e che è la negoziale, sì dicerà delle parti della iudiciale per meglio dimostrare lo 'ntendimento di ciascuno capitolo dell'Arte.

 

 

Argomento 51

Di due parti di Iudiciale.

 

Tullio: La iudiciale dividesi in due parti, ciò sono assoluta et assuntiva.

Sponitore: In questa parte dice Tulio che quella questione la quale è iudiciale, sì come davanti è mostrato, sì à due parti: una ch'è appellata assoluta e l'altra la quale è appellata assuntiva; e dicerà di catuna per sé. IUDICIALE: Assoluta-Assuntiva.

 

 

Argomento 52

Dell'asoluta.

 

Tullio: Assoluta è quella che in sé stessa contiene questione o di ragione o d'ingiuria.

Sponitore: Dice Tulio che quella questione iudiciale del genere èe appellata assoluta la quale in sé medesima è disciolta e dilibera, sì che sanza niuna giunta di fuori contiene in sé questione sopra la qualitade o sopra la quantitade o sopra la comparazione del fatto, il qual fatto si cognosce s'egli è di ragione o d'ingiuria, cioè se quel fatto è giusto o ingiusto o buono o reo, sì come in questo exemplo donde fue cotale questione. Verbigrazia: Fecero quelli da Teba giusto o ingiusto quando per segnale della loro vittoria fecero un trofeo di metallo? Et certo questo fatto, cioè fare un trofeo di metallo per segnale di vittoria, piace per sé sanza neuna giunta et in sé contiene forza della pruova, perciò ch'era cotale usanza.

 

 

Argomento 53

Asuntiva.

 

Tullio: Assuntiva è quella che per sé non dà alcuna ferma cosa a difendere, ma di fuori prende alcuna difensione; e le sue parti sono quattro: concedere, rimuovere lo peccato, riferire lo peccato e compa­razione. ASUNIVA: concedere rimuovere-riferire-comparazione.

Sponitore: Tullio dice che quella constituzione è appellata assuntiva della quale nasce questione, la quale in sé non à fermezza per difendersi da quello peccato ch'è a llui apposto, ma d'un altro fatto di fuori da quello prende argomento da difendersi; sì come nella questione d'Orestes, che fue accusato ch'avea morta la sua madre, et elli dicea che ll'avea morta giustamente. Et certo il suo dire parea crudel fatto, sì che queste parole per sé non ànno difensione com'elli l'abbia fatto giustamente, ma prende sua difensione d'un altro fatto di fuori e dice: «Io l'uccisi giustamente, perciò ch'ella uccise il mio padre». Et così pare che con questa giunta piaccia la sua ragione. Et questa cotale questione assuntiva à quattro parti, delle quali il testo dicerà di catuna perfettamente pel sé.

 

 

Argomento 54

Di concedere.

 

Tullio: Concedere e concessione è quando l'accusato non difende quello ch'è fatto ma addomanda che ssia perdonato; e questa si divide in due parti, ciò sono purgazione e preghiera.

Sponitore: Poi che Tulio avea detto che è e quale la questione assuntiva e com'ella si divide in quattro parti, sì vuole dicere di ciascuna per sé divisatamente perché 'l convenentre sia più aperto. Et primieramente dice che è concedere, e dice che quella constituzione è appellata concessione quando l'accusato concede il peccato e confessa d'averlo fatto, ma domanda che ssia perdonato; e questo puote essere in due maniere: o per purgazione o per preghiera, e di ciascuna di queste dirà Tulio partitamente, e prima della purgazione.

 

 

Argomento 55

Di purgazione.

 

Tullio: Purgazione è quando il fatto si concede ma la colpa si rimuove, e questa sì à tre parti: imprudenzia, caso e necessitade. PURGAZIONE: imprudenzia-caso-necessitade.

Sponitore: Dice Tulio che quella maniera di concedere la quale è per purgazione sì è et aviene quando l'accusato confessa, ma lievasi la colpa e dice che quel fatto non fue sua colpa; e questo puote fare in tre maniere, delle quali è prima imprudenzia, cioè non sapere. Verbigrazia: Mercatanti fiorentini passavano in nave per andare oltramare. Sorvenne loro crudel fortuna di tempo che lli mise in pericolosa paura, per la quale si botaro che s'elli scampassero e pervenissero a porto che elli offerrebboro delle loro cose a quello deo che là fosse, et e' medesimi l'adorrebbero. Alla fine arrivaro ad uno porto nel quale era adorato Malcometto ed era tenuto deo. Questi mercatanti l'adoraro come idio e feciorli grande offerta. Or furono accusati ch'aveano fatto contra la legge; la qual cosa bene confessavano, ma allegavano imprudenzia, cioè che non sapeano, e perciò diceano che fosse perdonato. Et di ciò era questione, se doveano essere puniti o no. La seconda maniera è caso, cioè impedimento ch'adiviene, sì che non si puote fare quello che ssi dee fare. Verbigrazia: Un mercatante caursino avea inprontato da uno francesco una quantità di pecunia a pagare in Parigi a certo termine et a certa pena. Avenne che 'l debitore, portando la moneta, trovò il fiume di Rodano sì malamente cresciuto che non poteo passare né essere al termine che era ordinato. Colui che dovea avere domandava la pena, l'altro confessava bene ch'avea fallito del termine, ma non per sua colpa, se non che 'l caso era advenuto ch'avea impedimentito la sua venuta, e però dicea che lla pena non dovea pagare; e di ciò è questione, se lla dovea pagare o no. La terza maniera è necessitade, cioè che conviene che ssia così et altro non potea fare. Verbigrazia: Statuto era in Costantinopoli che qualunque nave viniziana arrivasse nel porto loro, la nave e ciò che entro vi fosse si publicasse al segnore. Avenne che mercatanti genovesi allogaro una nave di Vinegia e passaro con grande carico d'avere. Convenne che per impeto di tempo per forza di venti, contra ' quali non si poteano parare, pervennero nel porto e fue presa la nave e le cose per lo segnore. Ben confessavano li mercatanti che lla nave era veniziana, ma per necessitade erano venuti in esso porto, e però diceano che non doveano perdere le cose; e di ciò era questione, se lle doveano perdere o no. Tutto altressì i Veniziani, cui fue la nave, raddomandavano la nave o la valenza; i mercatanti diceano che l'amenda non dovea essere domandata, perciò che per necessitade e non per volontade erano iti in quel porto. Et poi che Tullio àe detto della purgazione e delle sue parti, sì dicerà della preghiera.

 

 

Argomento 56

Della preghiera.

 

Tullio: Preghiera è quando l'accusato confessa ch'elli àe commesso quel peccato e confessa che ll'àe fatto pensatamente, ma sì domanda che lli sia perdonato, la qual cosa molte rade fiate puote advenire.

Sponitore: Tullio dimostra in questa picciola parte del testo che cosa è appellata preghiera in questa arte. Et dice che allotta è questione di preghiera quando l'accusato confessa e dice che fece quel peccato che gli è aposto e ricognosce che ll'à fatto pensatamente, ma tutta volta domanda perdono. Onde nota che questa preghiera puote essere in due maniere, o aperta o ascosa. Verbigrazia: In questo modo è la preghiera aperta: Dice l'accusato: «Io confesso bene ch'io feci questo fatto, ma pregovi per amore e per reverenza di Dio che voi mi perdoniate». La preghiera ascosa è in questo modo: «Io confesso ch'io feci questo fatto e non domando che voi mi perdoniate; ma se voi ripensaste quanto bene e come grande onore i' òe fatto al comune, ben sarebbe degna cosa che mi fosse perdonato». Ma ssì dice Tullio che queste preghiere possono advenire rade volte, spezialmente davante a' giudici che sono giurati a lege sie che non anno podere di perdonare. Ben puote alcuna fiata lo 'mperadore e 'l sanato avere provedenza in perdonare gravi misfatti, sì come poteano li anziani del popolo di Firenze ch'aveano podere di gravare e di disgravare secondo lo loro parimento. Et poi che Tullio àe detto della prima parte della constituzione assuntiva, cioè della concessione e che cosa è concedere, et à delle due maniere di concedere detto, cioè di purgazione e di preghiera, sì dicerà della seconda parte, cioè rimuovere lo peccato.

 

 

Argomento 57

Di rimuovere.

 

Tullio: Rimuovere lo peccato è quando l'accusato si sforza di rimuovere quel peccato da sé e da sua colpa e metterlo sopra un altro per forza e per podestà di lui; la qual cosa si puote fare in due guise: o mettere la colpa o mettere lo fatto sopr'altrui. Et certo la colpa e la cagione si mette sopra altrui dicendo che quel sia fatto per sua forza e per sua podestate. Il fatto si mette sopr'altrui dicendo che dovea un altro e potea fare quel fatto. RIMUOVERE: colpa fatto.

Sponitore: In questo luogo dice Tullio ch'è rimuovere lo peccato e come si puote fare, et è cotale il caso: Uno è accusato d'uno malificio, et elli vegnendo a sua defensione sì leva da ssé quel maleficio e mettelo sopra un altro, o dice bene che ll'à fatto, ma un altro ch'avea in lui forza e signoria il costrinse a ffare quel male; e questo rimovimento del peccato dice Tullio che ssi puote fare in due guise: l'una si mette la colpa e la cagione sopra un altro, l'altra si mette il fatto sopra altrui. Et certo la colpa e la cagione si mette sopr'altrui quando l'accusato dice che elli à fatto quel male per colpa d'alcuno il quale à sopra lui forza e signoria. Verbigrazia: Il comune di Firenze elesse ambasciadori e fue loro comandato che prendessero la paga dal camarlingo per loro dispensa et immantenente andassero alla presenzia di messer lo papa per contradiare il passamento de' cavalieri che veniano di Cicilia in Toscana contra Firenze. Questi ambasciadori domandaro il pagamento e 'l signore no 'l fece dare, e 'l camarlingo medesimo negò la pecunia, sicché li ambasciadori non andaro e' cavalieri vennero. Della qual cosa questi ambasciadori fuorono accusati, ma elli si levaro la colpa e la cagione e miserla sopra 'l signore e sopra 'l camarlingo, i quali aveano la forza e la segnoria e non fecero lo pagamento. Mettere il fatto sopr'altrui è quando l'accusato dice ch'egli quel fatto non fece e non ebbe colpa né cagione del fare, ma dice che alcuno altro l'à fatto et ebbevi colpa e cagione, mostrando che quell'altro sopra cui elli il mette dovea e potea fare quel male. Verbigrazia: Catone e Catellina andavano da Roma a Rieti, et incontrarono uno parente di Catone, a cui Catellina portava grande malavoglienza per cagione della coniurazione di Roma, e perciò in mezzo della via l'uccise; né Catone non avea podere di difenderlo, perciò ch'era malato di suo corpo, ma rimase intorno al morto per ordinare sua sopultura. Et Catellina si n'andò inn altra parte molto avaccio e celatamente. In questo mezzo genti che passavano per lo camino trovaro il morto di novello, e Catone intorno lui, sì pensaro certamente che Catone avesse fatto il malificio, e perciò fue esso accusato di quella morte; ond'elli in sua defensione levava da ssé quel fatto dicendo che fatto no-ll'avea e che no 'l dovea fare, perciò ch'era suo parente, e dicea che no-ll'arebbe potuto fare, perciò ch'elli era malato di sua persona. Et così recava il fatto e la colpa sopra Catellina, perciò che 'l dovea fare come di suo nemico e poteal fare, ch'era sano e forte e di reo animo. Et poi che Tulio àe insegnato rimuovere lo peccato, sì insegnerà in questa altra partita riferire il peccato.

 

 

Argomento 58

Tullio dice che è riferire il peccato.

 

Tullio: Riferire il peccato è quando si dice che ssia fatto per ragione, in perciò che alcuno avea tutto avanti fatto a llui ingiuria.

Sponitore: Dice Tullio che riferire il peccato è allora quando l'accusato dice ch'elli àe fatto a ragione quello di che elli è accusato, perciò c'a llui fue prima fatta tale ingiuria che dovea a rragione prendere tale vengianza, sì come apare nell'exemplo d'Orestes, che fue accusato della morte di sua madre, et esso dicea che ll'avea morta a ragione, perciò che primieramente avea ella fatta a llui ingiuria, cioè ch'avea morto il padre d'Orestes; e di questo nasce cotale questione se Orestes fece quel fatto a ragione o no. Et poi che Tullio àe insegnato riferire lo peccato, sì insegnerà omai che è comparazione.

 

 

Argomento 59

Tullio dice che è comparazione.

 

Tullio: Comparazione è quando alcuno altro fatto si contende che fue diritto et utile, e dicesi che quello del quale è fatta la riprensione fue commesso perché quell'altro si potesse fare.

Sponitore: In questo luogo dice Tullio che quella questione è appellata comparazione nella quale l'accusato dice ch'à fatto quello ch'è a llui apposto, per cagione di poter fare un altro fatto utile e diritto. Verbigrazia: Marco Tullio, stando nel più alto officio di Roma, sentìo che coniurazione si facea per lo male del comune, ma non potea sapere chi né come. Alla fine diede dell'avere del comune in grande quantitade ad una donna la quale avea nome Fulvia, et era amica per amore di Quinto Curio, il quale era sapitore del tradimento; e per lei trovò e seppe dinanzi tutte le cose in tale maniera ch'elli difese la cittade e 'l comune della molt'alta tradigione. Ma alla fine fue ripreso ch'elli avea troppo malamente dispeso l'avere di Roma. Et elli in defensione di sé dicea che quelle spese avea fatte per fare un altro fatto utile e diritto, cioè per scampare la terra di tanta distruzione, e quello scampamento non potea fare sanza quella dispesa; e così mostra che 'l fatto del quale elli è ripreso fue fatto per bene. Et poi che Tullio àe detto delle quattro parti della constituzione assuntiva, la quale è parte della iudiciale sì come pare davanti nel trattato della constituzione del genere, sì ridicerà elli brevemente sopra la questione traslativa, della quale fue assai detto in adietro, per dire alcuna cosa che là fue intralasciata.

 

 

Argomento 60

Come Ermagoras fue trovatore

della questione translativa.

 

Tullio: Nella quarta questione, la quale noi appelliamo translativa, certo la controversia d'essa questione è quando si tenciona a cui convegna fare la questione, o con cui od in che modo, o davante a cui, o per quale ragione, o in che tempo; e sanza fallo tuttora è controversia o per mutare o per indebolire l'azione. Et credesi che Ermagoras fue trovatore di questa constituzione; non che molti antichi parlieri non l'usassero spessamente, ma perciò che lli scrittori dell'arte non pensaro che fosse delle capitane e non la misero in conto delle constituzioni. Ma poi che da llui fue trovata, molti l'ànno biasimata, i quali noi pensamo c'ànno fallito non pur in prudenzia; ché certo manifesta cosa è che sono impediti per invidia e per maltrattamento.

Sponitore: Questo testo di Tullio è assai aperto in se medesimo, e spezialmente perciò che della questione o constituzione translativa è assai sofficientemente trattato indietro in altra parte di questo libro, e là sono divisati molti exempli per dimostrare come si tramuta l'azione quando non muove la questione quelli che dee, o contra cui dee, o innanzi cui dee, o per la ragione che dee, o nel tempo che dee. Sicché al postutto in questa translativa conviene che sempre sia: o per tramutare l'azione in tutto, come appare indietro nell'exemplo di colui che risponde all'aversario suo: «Io non ti risponderò di questo fatto né ora né giamai»; e così in tutto tramuta l'azione dell'aversario etc. O è per indebolire l'azione in parte ma non del tutto, sì come appare nell'exemplo di colui che risponde all'aversario suo: «Io ti risponderò di questo fatto, ma non in questo tempo» o «non davante a queste persone». Et dice Tullio che Ermagoras fue trovatore della translativa constituzione, cioè che lla mise nel conto delle quatro constituzioni sì come detto fue inn adietro. Et di ciò fue ripreso da alquanti che non erano bene savi e che aveano invidia e maltrattamento contra lui. Nota che invidia è dolore dell'altrui bene, e maltrattamento è dicere male d'altrui.

 

 

Argomento 61

Tullio dice che davanti dicerà exempli

in ciascuna maniera di constituzioni.

 

Tullio: Già avemo disposte le constituzioni e le loro parti; ma li axempli di ciascuna maniera parrà che noi possiamo meglio divisare quando noi daremo copia di ciascuno de' loro argomenti; perciò ch'allotta sarà più chiara la ragione d'argomentare, quando l'exemplo si potrà a mano a mano aconciare al genere della causa.

Sponitore: Vogliendo Tullio passare al processo del suo libro, brievemente ripete ciò ch'à detto avanti, dicendo che dimostrato à che sono le constituzioni e le loro parti, ma in altra parte porrà certi exempli in ciascuno genere delle cause, cioè nel deliberativo e nel dimostrativo e nel iudiciale, quando tratterà il libro di ciascuno in suo stato. E da cciò si parte il conto e torna a trattare secondo che ssi conviene all'ordine del libro per insegnamento dell'arte.

 

 

Argomento 62

Qual causa sia simpla e quale congiunta.

 

Tullio: Poi ch'è trovata la constituzione della causa, immantenente ne piace di considerare se lla causa è simpla o congiunta. Et s'ella è congiunta, si conviene considerare se ella è congiunta di piusori questioni o d'alcuna comparazione.

Sponitore: Apresso al trattato nel quale Tullio àe insegnato trovare le constituzioni e le sue parti, sì vuole insegnare qual causa sia simpla, cioè pur d'uno fatto e quale sia congiunta, cioè di due o di più fatti, e quale sia congiunta d'alcuna comparazione, e di ciascuna dice exemplo in questo modo:

 

 

Argomento 63

Della causa simpla.

 

Tullio: Simpla è quella la quale contiene in sé una questione assoluta in questo modo: «Stanzieremo noi battaglia contra coloro di Corinto o non?».

Sponitore: Dice Tullio che quella causa è simpla la quale è pur d'uno fatto e che non è se non d'una questione solamente. Verbigrazia: La città di Corinto non stava ubidiente a Roma, onde i consoli di Roma misero a consiglio se paresse loro di mandare oste a fare la battaglia contra loro, o no. Et così vedi che causa simpla è pur d'una questione del sì o del no.

 

 

Argomento 64

Della causa congiunta.

 

Tullio: Congiunta di piusori questioni è quella nella quale si dimanda di piusori cose in questo modo: «È Cartagine da disfare o da renderla a' Cartagianesi, o è da menare inn altra parte loro abitamento?»

Sponitore: Poi che Tullio à detto della causa simpla, sì dice della congiunta, dicendo che quella causa è congiunta nella quale àe due o tre o quattro o più questioni. Verbigrazia: I Romani vinsero a forza d'arme la cittade di Cartagine, et erano alcuni che diceano che al postutto si disfacesse; altri diceano che lla cittade fosse renduta agli uomini della terra, altri diceano che lla cittade si dovesse mutare di quel luogo et abitare in altra parte. E così vedi che questa causa è congiunta di tre questioni che sono dette.

 

 

Argomento 65

Della causa congiunta di comparazione.

 

Tullio: Di comparazione è quella nella quale contendendo si questiona qual sia il meglio o qual sia finissimo, in questo modo: «È da mandare oste in Macedonia contra Filippo inn aiuto a' compagni, o è da tenere in Italia per avere grandissima copia di genti contra Anibal?».

Sponitore: Poi che Tullio avea detto della causa la quale è congiunta di piusori questioni, sì dice di quella causa ch'è congiunta di comparazione di due o di tre o di quattro o di più cose, nella quale si considera qual partito sia il migliore de' due o di tre o di più, e se tutti sono buoni e l'uno migliore che ll'altro, per sapere qual sia finissimo, cioè il sovrano di tutti. Verbigrazia: I Romani aveano mandata oste in Macedonia contra Filippo re di quello paese, et in quello medesimo tempo attendeano alla guerra d'Anibal, che venia contra loro ad oste. Onde alcuni savi di Roma diceano che 'l migliore consiglio era mandare gente in Macedonia, per attare l'altra loro oste la quale era in questa contrada; altri diceano che maggior senno era di ritenere la gente in Italia, per adunare grandissima oste contra Anibal; e così contendeano qual fosse o il migliore o 'l finissimo partito: o tenere o mandare la gente.

 

 

Argomento 66

Della contraversia inn iscritto et in ragionamento.

 

Tullio: Poi è da pensare se lla controversia è in scritta o è in ragionamento.

Sponitore: Apresso ciò che Tulio à dimostrato qual causa è simpla e quale è congiunta e quale di comparazione, sì vuole fare intendere quale contraversia nasce et aviene di cose e di parole scritte, e qual nasce pur di ragionamento, cioè di dire parole e di cose che non sono scritte; e così vuole Tullio apertamente insegnare per rettorica ciò c'altre de' dire a ciascun ponto di tutte le cause che possano intervenire; e perciò dicerà della scritta per sé e del ragionamento per sé, e di ciascuno partitamente in questo modo:

 

 

Argomento 67

Della contraversia che nasce di cose scritte.

 

Tullio: Contraversia inn iscritta è quella che nasce d'alcuna qualitade di scrittura. Et certo le maniere di questa che sono partite delle constituzioni sono cinque: Che talvolta pare che lle parole medesimo siano discordanti dalla sentenzia dello scrittore; e talvolta pare che due legi o più discordino intra se stesse; e talvolta pare che quello ch'è scritto signiffichi due cose o più; e talvolta pare che di quello ch'è scritto si truovi altro che non è scritto; e talvolta pare che ssi questioni in che sia la forza della parola, quasi come in diffinitiva constituzione. Per la qual cosa noi nominiamo la prima di queste maniere di scritto e di sentenzia, il secondo appelliamo di legi contrarie, la terza apelliamo dubiosa, la quarta appelliamo di ragionevole, la quinta apelliamo diffinitiva.

Sponitore: Poi che Tullio à dimostrato qual causa sia pur d'un fatto o di più, immantenente vuole dimostrare qual contraversia è in scritta e quale in ragionamento; et in questo dice primieramente di quella ch'è inn iscritto, cioè che nasce d'alcuna scrittura. Et questo puote essere in cinque modi. Il primo modo è appellato di scritto e di sentenza, perciò che lle parole che sono scritte non pare che suonino come fue lo 'ntendimento di colui che lle scrisse. Verbigrazia: Una lege era nella cittade di Lucca, nella quale erano scritte queste parole: «Chiunque aprirà la porta della cittade di notte, in tempo di guerra, sia punito nella testa». Avenne che uno cavaliere l'aperse per mettere dentro cavalieri e genti che veniano inn aiuto a Lucca, e perciò fue accusato che dovea perdere la testa secondo la legge scritta. L'accusato si difendea dicendo che lla sentenzia e lo 'ntendimento di colui che scrisse e fece la legge fue che chi aprisse la porta per male fosse punito; e così pare che lle parole scritte non siano accordanti alla sentenzia dello scrittore, e di ciò nasce controversia intra loro, se si debbia tenere la scritta o la sentenza. La seconda maniera è appellata di contrarie leggi, perciò che pare che due leggi o più discordino intra se stesse. Verbigrazia: Una legge era cotale, che chiunque uccidesse il tiranno prendesse del senato cheunque merito volesse. Et nota che tiranno è detto quelli che per forza di suo corpo o d'avere o di gente sottomette altrui al suo podere. Un'altra legge dice che morto il tiranno dovessero essere uccisi cinque de' più prossimani parenti. Or avenne che una femina uccise il suo marito, il quale era tiranno, e domandò al senato per guidardone e per merito un suo figlio: la prima legge concede che ssia dato, l'altra comanda che ssia morto. Et così sono due leggi contrarie, e perciò nasce questione se alla femina debbia essere renduto il suo figliuolo o se debbia essere morto. La terza maniera è apellata dubbiosa, perciò che pare che quel ch'è scritto significhi due cose o più. Verbigrazia: Alexandro fece testamento nel quale fece scrivere così: «Io comando che colui ch'è mia reda dia a Cassandro cento vaselli d'oro e quali esso vorrà». Apresso la morte d'Alexandro venne Cassandro e domandava cento vaselli al suo volere e che a llui piacessero. Dice la reda: «Io ti debbo dare que' ch'io vorrò». Et così di quella parola scritta nel testamento, cioè «i quali esso vorrà», si è dubbiosa a intendere del cui volere Alexandro avea detto; e di ciò nasce questione intra loro. La quarta maniera è appellata ragionevole, perciò che di quello ch'è discritto si truova e se ne ritrae altro che no è scritto. Verbigrazia: Marcello entrò nella chiesa di Santo Petro di Roma e ruppe il crocifixo, e tagliò le imagini di là entro. Fue accusato, ma non si truova neuna legge scritta sopra così fatto malificio, né convenevole non era che nne scampasse sanza pena; e perciò il suo adversario ritraeva d'altre leggi scritte quella pena che ssi convenia a Marcello ragionevolemente. La quinta maniera è appellata diffinitiva, perciò che pare che ssi questioni la forza d'una parola scritta, sicché conviene che quella parola sia diffinita e dicasi il proprio intendimento di quella parola. Verbigrazia: Dice una legge: «Se 'l signore della nave n'abandona per fortuna di tempo et un altro va a governarla e scampa la nave, sia sua». Avenne che una nave di Pisa venia in Tunisi e presso al porto sorvenne sì forte tempesta nel mare, che 'l signore uscìo della nave et entrò inn una picciola barca; un altro ch'era malato rimase nella nave e tennesi tanto là entro che 'l mare tornò in bonaccia, e la nave campò in terra. E perciò dicea che lla nave era sua secondo la legge, perciò che 'l segnore l'avea abandonata et esso l'avea difesa. Il segnore dicea che perch'elli entrasse nella picciola barca non abandonava perciò la nave; e così era questione intra loro sopra questa parola dell'abandono della nave; e per sapere la forza d'essa parola conviene che ssi difinisca e dicasi il proprio intendimento. Già à detto Tullio di quella contraversia la quale è in iscritta e delle sue cinque parti. Omai dicerà di quella contraversia ch'è in ragionamento.

 

 

Argomento 68

Della contraversia la quale nasce di ragionamento.

 

Tullio: Ragionamento è quando tutta la questione è inn alcuno argomento e non inn iscrittura.

Sponitore: Quella è contraversia in ragionamento nella quale non si considera alcuna cosa che ssia per scrittura, ma prendesi argomento e pruova per parole fuori di scritta a dimostrare che dee essere sopra quella questione. Verbigrazia: Dice Anibaldo che Italia è migliore paese che Francia; dice Lodoigo che no; e di ciò era questione tra lloro, e perciò conviene recare argomenti in ragionando per mostrare che nne dee essere, e questo senza scritta acciò che sopra questo no è legge né scrittura.

 

 

Argomento 69

Delle quattro parti della causa.

 

Tullio: Adunque, poi che considerato è il genere della causa e cognosciuta la constituzione et inteso quale è simpla e quale è congiunta, e veduto quale contraversia è di scritto e di ragionamento, omai fie da vedere quale è la quistione e quale è la ragione e quale è il giudicamento e quale è il fermamento della causa; le quali cose tutte convengono muovere della constituzione.

Sponitore: In questa parte dice Tullio che poi ch'elli à insegnato che è lo genere delle cause, cioè dimostrativo e diliberativo e giudiciale, et à fatto cognoscere che è la constituzione, cioè e qual sia congetturale e quale diffinitiva e quale translativa e quale negoziale, et à fatto intendere quale è simpla e quale congiunta, cioè qual contiene in sé una questione o più, et à fatto vedere qual contraversia è inn iscritto e quale in ragionamento, sì come tutti questi insegnamenti paionsi adietro là dove lo sponitore l'à messo inn iscritto e trattato di ciascuno sofficientemente, omai vuole Tullio procedere e dimostrare apertamente qual sia la questione e la ragione e 'l giudicamento e 'l fermamento della causa; le quali cose tutte muovono e nascono della constituzione, ciò viene a dire che la constituzione è il cominciamento di queste cose.

 

 

Argomento 70

Della questione.

 

Tullio: Questione è quella contraversia la quale s'ingenera del contastamento delle cause in questo modo: «Non facesti a ragione – Io feci a ragione». Questo è contastamento delle cause nella quale è la constituzione, e di questa nasce contraversia la quale noi appelliamo questione, in questo modo: se fatto l'à a ragione o no.

Sponitore: Nel testo il quale è detto davanti insegna Tullio cognoscere e sapere che è la questione; et in ciò dice che questione è quella che ssi conviene considerare sopr'a cciò di che le parti tencionano, e così s'ingenera del contastamento delle parti, cioè di quello che ll'uno appone e l'altro difende. Verbigrazia: Dice la parte che appone all'altra: «Tu non ài fatta ragione, ché tu prendesti il mio cavallo»; e la parte che ssi difende risponde e dice: «Sì, feci ragione». Or è la causa ordinata, cioè che ciascuna parte à detto, l'una accusando e l'altra difendendo, e questa è appellata constituzione. Sopra questo si conviene sapere se ll'accusato à fatta ragione o no. Questo è quello che Tullio appella questione. Dunque potemo intendere che quando le parti ànno detto e quando l'accusatore àe apposto incontra l'aversario suo e l'accusato àe risposto o negando o confessando, sì è la causa cominciata et ordinata; e però infine a questo punto èe appellata constituzione, cioè viene a dire che lla causa è cominciata et ordinata; da quinci innanzi, se l'accusato niega e difendesi, si conviene che ssi connosca se lla sua defensione è dritta o no, cioè quando dice: «Io feci ragione» conviensi trovare s'elli à fatto ragione o no, e questa è appellata questione. Et perciò che la scusa dell'accusato, a dire pur così semplicemente: «Io feci ragione», non vale neente se non ne mostra ragione per che e come, insegnerà Tullio immantenente che ragione sia.

 

 

Argomento 71

Di ragione.

 

Tullio: Ragione è quella che contiene la causa, la quale se ne fosse tolta non rimarrebbe alcuna cosa in contraversia. In questo modo mosterremo, per cagione d'insegnare, un leggieri e manifesto exemplo. Se Orestres fosse accusato di matricidio et elli non dicesse: «Io il feci a ragione, perciò ch'ella avea morto il mio padre», non avrebbe difensione; e se non l'avesse non sarebbe contraversia. Dunque la ragione di questa causa è ch'ella uccise Agamenon.

Sponitore: Sì come appare nel testo di Tulio, ragione è quella che sostiene la causa in tal modo che, chi non assegna e mostra la ragione della sua causa, certo non sarà controversia, cioè non à difensione; e così la causa dell'aversario rimane ferma e non à contastamento. Verbigrazia: Vero fue che lla madre d'Orestres uccise Agamenon suo marito e padre d'Orestres; per la qual cosa Orestres, per movimento di dolore, fece matricidio, cioè che uccise la madre. Fue accusato di matricidio, et elli confessa, ma dice che 'l fece a ragione; se non dice perché e come, la sua difensione non vale neente, e se le difensione non vale neente non è contraversia né questione. Ma se dice così: «Io lo feci a ragione perciò ch'ella uccise il mio padre», sì mantiene la sua causa e vale la sua difensa, mostrando la ragione e la cagione perch'elli fece il matricidio. Et poi che Tullio à dimostrato che è questione e che ragione, sì dimosterrà che è giudicamento.

 

 

Argomento 72

Del giudicamento.

 

Tullio: Giudicamento è quella contraversia la quale nasce de lo 'ndebolire e del confirmare la ragione. Et in ciò sia quel medesimo exemplo della ragione che noi aven detta poco davanti: «Ella avea morto il mio padre». Dice il savio: «Sanza te figliuolo convenia ch'essa madre fosse uccisa; perciò che 'l suo fatto si potea bene punire sanza tuo perverso adoperamento». Di questo mostramento della ragione nasce quella somma controversia la quale noi appelliamo giudicamento, la quale è cotale: se fosse diritta cosa che Orestres uccidesse la madre, perciò ch'ella avea morto il suo padre.

Sponitore: Tullio avea detto et insegnato che è ragione; et perciò che della ragione nasce il giudicamento, sì tratta egli del giudicamento per dimostrare come e quando et in che luogo sia. Verbigrazia: L'accusato assegna ragione perché fece quel fatto e conferma la sua difensa per quella ragione. L'accusatore dice contra questa difensa et indebolisce la ragione dell'accusato. Unde di ciò che conferma l'uno et inforza la sua difensione e l'altro la infievolisce e falla debole, sì ne nasce una questione la quale è appellata giudicamento, perciò che quando ella è provata si puote giudicare. Et in ciò sia quel medesimo exemplo di sopra: Orestres assegna la ragione per la quale elli uccise Clitemesta sua madre: perciò ch'ella avea morto Agamenon; e così conferma la sua defensione. Ma contra lui dice l'aversario: «Tu non la dovei punire né non convenia ad te punirla di ciò, ma altre la dovea e potea punire sanza tua perversità, e sanza tua così crudele opera, come del figliuolo uccidere sua madre». Et così indebolia la ragione d'Orestres e mettealo in vituperoso abominio, e sopra questo, cioè sopra 'l confermamento e sopra lo 'ndebolimento della ragione, nasce questione la quale è appellata giudicamento perciò che ssi puote giudicare. Et omai à detto Tullio che è questione e che è ragione e che è giudicamento; sì dicerà che è fermamento.

 

 

Argomento 73

Del fermamento.

 

Tullio: Fermamento è il firmissimo et appostissimo argomento al giudicamento, come se Orestres volesse dire che ll'animo il quale la madre avea contra il suo padre, quel medesimo avea contra lui e contra le sue sorelle e contra il reame e contra l'alto pregio della sua ingenerazione e della sua familia, sicché in tutte guise doveano i suoi figliuoli prendere in lei la pena.

Sponitore: Poi che Tullio àe dimostrato che è questione e ragione e giudicamento, sì dice in questa parte che è fermamento. E certo lo 'nsegnamento suo è molto ordinatamente: ché primieramente è questione intra lle parti sopr'alcuna cosa la qual'è aposta ad uno e detto sopra lui che non à fatto bene o ragione, et elli in sua difesa dice ch'à fatto bene o ragione, e di questo nasce la questione, cioè se esso à fatto ragione o no. Apresso dice l'accusato la cagione per la quale elli avea ragione di fare ciò, e questa è appellata ragione. Et quando l'accusato à detta la ragione, il suo adversario dice contra quella ragione et indebolisce quello dove l'accusato ferma la ragione, e questa è appellata giudicamento. Fermamento. Poi che lla questione del giudicamento è nata, sì conviene che ll'accusato tragga innanzi i fermissimi argomenti bene apposti contra il giudicamento. Verbigrazia: Orestres à detto che uccise la madre perciò ch'ella avea morto il padre, e così assegna la ragione perch'elli l'uccise; il suo adversario mettendolo in questione di giudicamento dice c'a llui non si convenia ma ad altrui, e così indebolisce la sua ragione. Or conviene che Orestres dica manifesti argomenti, e dice così: «Tutto altressì com'ella uccise il suo marito mio padre, così avea ella conceputo d'uccidere me e le mie sorelle, cui ella avea ingenerate di suo corpo, e mettere il nostro regno a distruzione et abassare l'altezza del nostro sangue, e mettere in periglio la nostra famiglia». Ed in questi argomenti accoglie fermissima defensione della sua ragione contra il giudicamento, e dice: «Perciò ch'ella fece così disperato maleficio et avea pensato di fare cotanta crudelitade, sì fue al postutto convenevole che lli suoi propii figliuoli ne le dessero pena e non altri». Et questi sono fermissimi argomenti ne' quali dice che 'l fatto della madre fue crudele, superbo e malizioso. Et nota che quel fatto è appellato superbo il quale alcuno adopera contra ' maggiori, sì come quella fece uccidendo il re Agamenon. Et quello è crudele fatto il quale alcuno adopera contra ' suoi, sì come quella fece contra la sua famiglia. Et quello è malizioso fatto il quale è molto fuori d'uso, sì com'è contra naturale usanza ch'alcuna femina uccida il suo marito e figliuoli e distrugga un alto reame. Onde questi fermissimi argomenti e quali l'accusato mette davanti per confermare le sue ragioni et incontra lo 'ndebolimento che facea l'aversario, sì è appellato fermamento.

 

 

Argomento 74

In quale constituzione non à giudicamento.

 

Tullio: Et certo nell'altre constituzioni si truovano giudicamenti a questo medesimo modo; ma nella congetturale constituzione, perciò che in essa non s'asegna ragione (acciò che 'l fatto non si concede) non puote giudicamento nascere per dimostranza di ragione; e però conviene che questione sia quel medesimo che giudicamento: «fatto è, nonn è fatto, s'è fatto o no». Che al vero dire, quante constituzioni o lor parti sono nella causa, conviene che vi si truovino altrettante questioni, ragioni, giudicamenti e fermamenti.

Sponitore: In questa parte del testo dice Tullio che, sì come per lui è stato detto davanti, così si possono trovare giudicamenti inn ogne constituzione; salvo che nella constituzione congetturale, della quale è molto trattato inn adietro, perciò che in essa l'accusato nonn asegna neuna ragione, anzi niega, al postutto non ne puote nascere giudicamento. Verbigrazia: Uno accusò Ulixes ch'elli avea morto Aiaces. Dice Ulixes: «Non feci» et così nega quel fatto che gli è apposto. Et perciò non conviene che sopra 'l suo negare assegni alcuna ragione. Et poi che nonn asegna ragione, il suo adversario nonn abisogna d'indebolire la ragione dell'accusato. Dunque no 'nde puote nascere giudicamento; e perciò conviene che in queste constituzioni congetturali la questione e lo giudicamento siano ad una cosa: ché là ove dice l'accusatore «Tu uccidesti» et Ulixes dice «Non uccisi», la questione e 'l giudicamento fie sopra questo, cioè se ll'uccise o no. Poi dice Tullio che quante constituzioni à una causa, altrettante v'à questioni e ragioni e giudicamenti e fermamenti.

 

 

Argomento 75

Dell'altre parti della causa.

 

Tullio: Trovate nella causa tutte queste cose, son poi da considerare ciascuna parte della causa; ch'al ver dire non si dee pur pensare prima ciò che ssi dee dicere in prima; perciò che se le parole che sono da dire in prima tu vuoli inforzatamente congiungere et adunare colla causa, conviene che d'esse medesime traghe quelle che sono da dire poi.

Sponitore: Or dice Tullio: Dacché 'l parliere connosce la causa et àe inteso ciò ch'elli n'àe insegnato per tutto il libro insine a questo luogo, quando alcuna causa viene sopra la quale convegna che dica, sì dee il buono parliere pensare con molta diligenzia e considerare nella sua mente, anzi che cominci a dire, tutte le parti della sua causa insieme e non divise. Ché s'elli pensasse in prima pur quella che prima sia da dire e non pensasse ch'elli dovesse dire poi, senza fallo il suo cominciamento si discorderebbe dal mezzo et il mezzo dalla fine. Ma chi accorda bene le sue parole colla natura della causa et in innanzi pensa che ssi convenga dire davanti e che poi, certo la comincianza fie tale che nne nascerà ordinatamente il mezzo e la fine. Tutto altressì fae il buono drappiere, che non pensa prima pur della lana, ma considera tutto il drappo insieme anzi che llo cominci, e de' aver la lana e 'l colore e la grandezza del drappo, e provedesi di tutte cose che sono mistieri, e poi comincia e fae il drappo.

 

 

Argomento 76

Di sei parti della diceria.

 

Tullio: Per la qual cosa, quando il giudicamento e quelli argomenti che bisognano di trovare al giudicamento saranno diligentemente trovati secondo l'arte e trattati con cura e con cogitatione, ancora sono da ordinare l'altre parti della diceria, le quali pare a nnoi al tutto che siano sei: Exordio, narrazione, partigione, confermamento, riprensione e conclusione.

Sponitore: Poi che Tullio sofficientemente à dimostrato la chiarezza delle cause et àe comandato che 'l buono parliere innanzi pensi tutte le parti della causa per accordare il mezzo e la fine colla comincianza del suo dire, sì che sia l'una parola nata dell'altra, sì dice esso medesimo che poi che tutto questo ch'è fatto, e trovato il giudicamento della causa e ciò che vi bisogna secondo i comandamenti di rettorica (i quali si convengono trattare con molto studio e con grande deliberazione); anco sopra tutto questo si convengono pensare l'altre parti della diceria, delle quali non è detto neente, e sono sei; e di ciascuna per sé tratterà il libro interamente.

Lo sponitore chiarisce tutto ciò ch'è detto inn adietro.

Sponitore: Et sopra questo punto, anzi che 'l conto vada più innanzi, piace allo sponitore di pregare il suo porto, per cui amore è composto il presente libro non sanza grande afanno di spirito, che 'l suo intendimento sia chiaro e lo 'ngegno aprenditore, e la memoria ritenente a intendere le parole che son dette inn adietro e quelle che seguitano per innanzi, sì che sia, come desidera, dittatore perfetto e nobile parladore, della quale scienzia questo libro è lumiera e fontana. Et avegna che 'l libro tratti pur sopra controversie et insegni parlare sopra le cose che sono in tencione, et insegna cognoscere le cause e lle questioni, e per mettere exempli dice sovente dell'accusato e dell'accusatore, penserebbe per aventura un grosso intenditore che Tullio parlasse delle piatora che sono in corte, e non d'altro. Ma ben conosce lo sponitore che 'l suo amico è guernito di tanto conoscimento ch'elli intende e vede la propria intenzione del libro, e che lle piatora s'apartengono a trattare ai segnori legisti; e che rettorica insegna dire appostatamente sopra la causa proposta, la qual causa no è pur di piatora né pur tra accusato et accusatore, ma è sopra l'altre vicende, sì come di sapere dire inn ambasciarie et in consigli de' signori e delle comunanze et in sapere componere una lettera bene dittata. Et se Tullio dice che nelle dicerie intra le parti sono le constituzioni e questioni e ragioni e giudicamento e fermamento, ben si dee pensare un buono intenditore che tuttodie ragionano le genti insieme di diverse materie, nelle quali adiviene sovente che ll'uno ne dice il suo parere e dicelo in un suo modo e l'altro dice il contrario, sì che sono in tencione; e l'uno appone e l'altro difende, e perciò quelli che appone contra l'altro è appellato accusatore e quelli che difende èe appellato accusato, e quello sopra che contendono è appellata causa. Onde se ll'uno appone e l'altro niega, al postutto di questo non puote nascere questione se non di sapere se quella cosa che niega elli l'à fatta o detta o no. Ma quando l'uno appone e l'altro difende, sì è la causa incominciata et ordinata tra lloro. Et questo è la constituzione della quale nasce la questione, cioè se lla sua difesa è a ragione o no; e poi ciascuno contende come pare a llui per confermare le sue parole e per indebolire quelle dell'altro, sì come appare per adietro nel trattato della questione e della ragione e del giudicamento e del fermamento. Onde non sia credenza d'alcuno che, sì come dicono li exempli messi inn adietro, che Orestes fosse accusato in corte della morte di sua madre; ma le genti ne contendeano intra loro, ché ll'uno dicea che non avea fatto né bene né ragione, e questo è appellato accusatore, un altro dicea in defensione d'Orestes ch'elli avea fatto bene e ragione, e questo è appellato nel libro accusato. De' consiglieri. Così aviene intra ' consiglieri de' signori e delle comunanze, che poi che sono asemblati per consigliare sopra alcuna vicenda, cioè sopra alcuna causa la quale è messa e proposta davanti loro, all'uno pare una cosa et all'altro pare un'altra; e così è già fatta la constituzione della causa, cioè ch'è cominciata la tencione tra lloro, e di ciò nasce questione s'elli à ben consigliato o no. Et questo è quello che Tullio appella questione. Et perciò l'uno, poi ch'elli àe detto e consigliato quello che llui ne pare, immantenente assegna la ragione per la quale il suo consiglio èe buono e diritto. Et questo è quello che Tullio appella ragione. Et poi ch'elli àe assegnata la cagione e la ragione per che, si sforza di mostrare perché s'alcuno consigliasse o facesse il contrario come sarebbe male e non diritto; e così infievolisce la partita che è contra il suo consiglio; e questo è quello che Tullio appella giudicamento. Et poi ch'elli àe indebolita la contraria parte, sì raccoglie tutti i fermissimi argomenti e le forti ragioni che puote trovare per più indebolire l'altra parte e per confermare la sua ragione; e questo è quello che Tullio appella fermamento. Et certo queste quattro parti, cioè questione, ragione, giudicamento e fermamento, possono essere tutte nella diceria dell'uno de' parlatori, sì come appare in ciò ch'è detto di sopra. Et puote bene essere la sua diceria pur dell'una, cioè pur infine alla questione, dicendo il suo parere e non assegnando sopra ciò altra ragione. Et puote bene essere pur di due, cioè dicendo il suo parere et assegnando ragione per che. Et puote bene essere pur di tre, cioè dicendo il suo parere et assegnando ragione per che et indebolendo la contraria parte. Et puote essere di tutte e quattro sì come fue dimostrato di sopra. Quest'è la diceria del primo parliere. E poi ch'elli à consigliato e posto fine al suo dire, immantenente si leva un altro consigliere e dice tutto il contrario che àe detto colui davanti; e così è fatta la constituzione, cioè la causa ordinata, e cominciata la tencione; e sopra i loro detti, che sono varii e diversi, nasce questione, se colui avea bene consigliato o no. Poi dimostra la ragione perché il suo consiglio è migliore. Apresso indebolisce il detto e 'l consiglio di colui ch'avea detto dinanzi da llui; e poi riconferma il consiglio suo per tutti i più fermi argomenti che può trovare. Adunque le predette quattro cose o parti possono essere nel detto del primo parliere e nel detto del secondo e di ciascuno parlamentare. Cosìe usatamente adviene che due persone si tramettono lettere l'uno all'altro o in latino o in proxa o in rima o in volgare o inn altro, nelle quali contendono d'alcuna cosa, e così fanno tencione. Altressì uno amante chiamando merzé alla sua donna dice parole e ragioni molte, et ella si difende in suo dire et inforza le sue ragioni et indebolisce quelle del pregatore. In questi et in molti altri exempli si puote assai bene intendere che lla rettorica di Tullio non è pure ad insegnare piategiare alle corti di ragione, avegna che neuno possa buono advocato essere né perfetto se non favella secondo l'arte di rettorica.

Et ben è vero che llo 'nsegnamento ch'è scritto inn adietro pare che ssia molto intorno quelle vicende che sono in tencione et in contraversia tra alcune persone, le quali contendano insieme l'uno incontra l'altro; e potrebbe alcuno dicere che molte fiate uno manda lettera ad altro ne la quale non pare che tencioni contra lui (altressì come uno ama per amore e fa canzoni e versi della sua donna, nelli quali non à tencione alcuna intra llui e la donna), e di ciò riprenderebbe il libro e biasmerebbe Tullio e lo sponitore medesimo di ciò che non dessero insegnamento sopra ciò, maximamente a dittare lettere, le quali si costumano e bisognano più sovente et a più genti, che non fanno l'aringhiere e parlare intra genti. Ma chi volesse bene considerare la propietà d'una lettera o d'una canzone, ben potrebbe apertamente vedere che colui che lla fa o che lla manda intende ad alcuna cosa che vuole che sia fatta per colui a cui e' la manda. Et questo puote essere o pregando o domandando o comandando o minacciando o confortando o consigliando; e in ciascuno di questi modi puote quelli a cui vae la lettera o la canzone o negare o difendersi per alcuna scusa. Ma quelli che manda la sua lettera guernisce di parole ornate e piene di sentenzia e di fermi argomenti, sì come crede poter muovere l'animo di colui a non negare, e, s'elli avesse alcuna scusa, come la possa indebolire o instornare in tutto. Dunque è una tencione tacita intra loro, e così sono quasi tutte le lettere e canzoni d'amore in modo di tencione o tacita o espressa; e se così no è, Tullio dice manifestamente, intorno 'l principio di questo libro, che non sarebbe di rettorica. Ma tuttavolta, o tencione o no tencione che sia, Tullio medesimo, luogo innanzi, isforza i suoi insegnamenti in parlare et in dittare secondo la rettorica; e là dove Tullio sine pasasse o paresse che dica pur insegnamenti sopra dire tencionando, lo sponitore isforzerà lo suo poco ingegno in dire tanto e sì intendevolemente che 'l suo amico potrà bene intendere l'una materia e l'altra. Et ecco Tullio che incomincia a dire di quelle partite della diceria o d'una lettera dittata, delle quali non avea detto neente in adietro: e queste parti sono sei, sì come apare in questo arbore: DICERIA: exordio-narrazione-partigione-confirma­zione riprensione-conclusione.

Queste sono le sei parti che Tullio mostra certamente che sono nella diceria o nella pistola, specialmente in quelle che sono tencionando, sì come appare nel detto dello sponitore qui adietro; e, sì come detto fue in altra parte di questo libro, Tullio reca tutta la rettorica alle cause le quali sono in contraversia et in tencione. Et ben dice tutto a certo che lle parole che non si dicono per tencione d'una parte incontra un'altra non sono per forma né per arte di rettorica. Ma perciò che lla pistola, cioè la lettera dettata, spessamente non è per modo di tencionare né di contendere, anzi è uno presente che uno manda ad un altro, nel quale la mente favella et è udito colui che tace e di lontana terra dimanda et acquista la grazia, la grazia ne 'nforza e l'amore ne fiorisce, e molte cose mette inn iscritta le quali si temerebbe e non saprebbe dire a lingua in presenzia; sì dirae lo sponitore un poco dell'oppinione de' savi e della sua medesima in quella parte di rettorica ch'apartene a dittare, sì come promise al cominciamento di questo libro. Et dice che dittare è un dritto et ornato trattamento di ciascuna cosa, convenevolemente aconcio a quella cosa. Questa è la diffinizione del dittare, e perciò conviene intendere ciascuna parola d'essa diffinizione. Unde nota che dice «dritto trattamento» perciò che lle parole che ssi mettono inn una lettera dittata debbono essere messe a dritto, sicché s'accordi il nome col verbo, e 'l mascunino e 'l feminino, e lo singulare e 'l plurale, e la prima persona e la seconda e la terza, e l'altre cose che ssi 'nsegnano in gramatica, delle quali lo sponitore dirà un poco in quella parte del libro che fie più avenente; e questo dritto trattamento si richiede in tutte le parti di rettorica dicendo e dittando. Et dice «ornato trattamento» perciò che tutta la pistola dee essere guernita di parole avenanti e piacevoli e piene di buone sentenze; et anche questo ornato si richiede in tutte le parti di rettorica, sì come fue detto inn adietro sopra 'l testo di Tullio. Et dice «trattamento di ciascuna cosa» perciò che, sì come dice Boezio, ogne cosa proposta a dire puote essere materia del dittatore; et in questo si divisa dalla sentenzia di Tullio, che dice che lla materia del parliere non è se non in tre cose, ciò sono dimostrativo, deliberativo e iudiciale. Et dice «convene­volemente aconcio a quella cosa» perciò che conviene al dittatore asettare le parole sue alla sua materia. Et ben potrebbe il dittatore dicere parole diritte et ornate, ma non varrebbero neente s'elle non fossero aconcie alla materia. Così è divisato il dittatore da cciò che dice Tullio; e perciò di queste due materie, cioè del dire e del dittare, e dello 'nsegnamento dell'uno e dell'altro potrà l'amico dello sponitore prendere la dritta via. Et per questo divisamento conviene che lle parti della pistola si divisino da queste della diceria che Tullio à detto che sono sei, ciò sono: exordio, narrazione, partigione, confermamento, riprensione e conclusione. I. È oppinione di Tullio che exordio sia la prima parte della diceria, il quale apparecchia l'animo dell'uditore a l'altre parole che rimagnono a dire, e questo è appellato prologo della gente. II. Et dice che narrazione è quella parte della diceria nella quale si dicono le cose che sono essute o che non sono essute, come se essute fossoro; e questo è quando uomo dice il fatto sopra 'l quale esso ferma la forma della sua diceria. III. Et dice che è partigione quando il parliere à narrato e contato il fatto et e' sì viene partiendo la sua ragione e quella dell'aversario e dice: «Questo fue così, e quest'altro così»; et in questo modo acoglie quelle partite che sono a llui più utili e più contrarie all'aversario, et afficcale all'animo dell'uditore; et allora pare ch'al tutto abbia detto tutto 'l fatto. IV. Et dice che confermamento è quella parte della diceria nella quale il parlieri reca argomenti et assegna ragioni per le quali agiugne fede et altoritade alla sua causa. V. Et dice che riprensione è quella parte della diceria nella quale il parliere reca cagioni e ragioni et argomenti per li quali attuta e menoma et indebolisce il confermamento dell'aversario. VI. Et dice che conclusione è lla fine e 'l termine di tutta la diceria. Queste sono le sei parti che dice Tullio che sono e debbono essere nella diceria; e di ciascuna tratterà qua innanzi il libro sofficientemente. Ma in questo ch'è detto puote uomo bene intendere che queste sei medesime possono convenire inn una pistola, di tal materia puote ella essere. Ma tuttavolta, di qualunque materia sia, nelle tre di queste sei parti s'accorda bene la pistola colla diceria, cioè nello exordio, narrazione e nella conclusione; ma ll'altre tre, cioè partigione, confermamento e reprensione, possono più lievemente rimanere e non avere luogo nella pistola. Tutto altressì la pistola àe cinque parti, delle quali l'una può bene rimanere e non avere luogo nella diceria, cioè «salutatio»; l'autra, cioè «petitio», avegnaché Tulio no-lla nominasse intra lle parti della diceria, sì vi puote e dee avere luogo in tal maniera ch'appena pare che diceria possa essere sanza petizione. Dunque le parti della pistola sono cinque, ciò sono salutazione, exordio, narrazione, petizione e conclusione, sì come appare in questo arbore: EPISTOLA: salutazione-exordio-narrazione-petizione conclusione.

Et se alcuno domandasse per qual cagione Tullio intralasciò la salutazione e non ne trattò nel suo libro, certo lo sponitore ne renderà bene ragione in questo modo. Certa cosa è che Tullio nel suo libro tratta delle dicerie che ssi fanno in presenzia, nelle quali non bisogna di contare il nome del parlieri né dell'uditore. Ma nella pistola bisogna di mettere le nomora del mandante e del ricevente, c'altrimente non si puote sapere a certo né l'uno né l'altro. Apresso ciò, la salutazione pare che sia dell'exordio; ché sanza fallo chi saluta altrui per lettera già pare che cominci suo exordio. Et Tullio trattòe dello exordio compiutamente, non curò di divisare della salutazione né distendere il suo conto intorno le saluti, maximamente perciò che pare che rechi tutta la rettorica a parlare et in controversia tencionando. Et in perciò furo alcuni che diceano che lla salutazione non era parte della pistola, ma era un titolo fuor del fatto. Et io dico che la salutazione è porta della pistola, la quale ordinatamente chiarisce le nomora e' meriti delle persone e l'affezione del mandante. Et nota che dice «porta», cioè entrata della pistola, e che chiarisce le nomora, cioè del mandante e del ricevente; e dice «i meriti delle persone», cioè il grado e l'ordine suo, sì come a dire: «Innocenzio papa», «Federigo Imperadore», «Acchilles cavaliere», «Oddofredi Judice», e così dell'altre gradora. Et dice «ordinatamente», cioè che mette il nome e 'l grado di ciascuno come s'aviene; e dice «l'affezione del mandante», cioè com'elli manda al ricevente salute o altra parola di bene, o per aventura di male, secondo la sua affezione, cioè secondo la sua volontade. Adunque pare manifestamente che lla salutazione è così parte della pistola come l'occhio dell'uomo. Et se l'occhio è nobile membro del corpo dell'uomo, dunque la salutazione è nobile parte della pistola, c'altressì allumina tutta la lettera come l'occhio allumina l'uomo. Et al ver dire, la pistola nella quale non à salutazione è altrettale come la casa che non à porta né entrata e come 'l corpo vivo che non à occhi. Et perciò falla chi dice che salutazione è un titolo fuor del fatto; anzi si scrive e s'inchiude e sugella dentro; ma 'l titolo della pistola è la soprascritta di fuori, la quale dice a cui sia data la lettera. Ben dico c'alcuna volta il mandante non scrive la salutazione, o per celare le persone se lla lettera pervenisse ad altrui o per alcun'altra cosa o cagione. Né non dico che tutta fiata convenga salutare, ma o per desiderio d'amore, o per solazzo, talora si mandano altre parole che portano più incarnamento e giuoco che non fa a dire pur salute. Et a' maggiori non dee uomo mandare salute, ma altre parole che significhino reverenzia e devozione; e talvolta no scrivemo a' nemici altro che lle nomora e tacemo la salute, o per aventura mettemo alcuna altra parola che significa indegnamento o conforto di ben fare o altra cosa; sì come fa il papa che scrivendo a' giudei o ad altri uomini che non sono della nostra catholica fede o a' nemici della Santa Chiesa tace la salute, e talvolta mette in quel luogo spirito di più sano consiglio o connoscere la via della veritade o abundare inn opera di pietade et altre simili cose.

Adunque provedere dee il buono dittatore che, similemente come saluta l'uno uomo l'autro trovandolo in persona, così il dee salutare in lettera mettendo et adornando parole secondo che la condizione del ricevente richiede. Ché quando uomo va davante a messer lo papa o davante ad imperadore o a altro segnore ecclesiastico o seculare, certo elli va con molta reverenzia et inchina la testa, et alla fiata si mette in terra ginocchioni per basciare il piede al papa o allo 'mperadore. Tutto altressì dee lo dettatore nominare lo ricevente e la sua dignitade con parole di sua onoranza e metterlo dinanzi; apresso dee nominare sé medesimo e la sua dignitade, e poi dee scrivere la sua affezione, cioè quello che desidera che venga a colui che riceve la lettera, sì come salute o altro che sia avenante, tuttavolta guardando che questa affezione sia di quella guisa e di quelle parole che ssi convegnono al mandante et al ricevente. Ché quando noi scrivemo a' maggiori di noi o di nostro paraggio o di minore grado, noi dovemo mandare tali parole che ssiano accordanti alle persone et allo stato loro. Et non pertanto ch'io abbia detto che 'l nome del maggiore si de' mettere dinanzi e del pare altressì, io òe ben veduto alcuna fiata che grandi principi e signori scrivendo a mercatanti o ad altri minori mettono dinanzi il nome di colui a cui mandano, e questo è contra l'arte; ma fannolo per conseguire alcuna utilitade. Perciò sia il dittatore accorto et adveduto in fare la salutazione avenante e convenevole d'ogne canto, sicché in essa medesima con quisti la grazia e la benivoglienza del ricevente, sì come noi dimostramo avanti secondo la rettorica di Tullio. Et bene è questa materia sopr'alla quale lo sponitore potrebbe lungamente dire e non sanza grande utilitade. Ma considerando che lla subtilitade perché 'l verbo non si mette nella salutazione, e che 'l nome del mandante si mette in terza persona per significamento di maggiore umilitade, e che tal fiata si scrive pur la primiera lettera del nome, par che tocchi più a' dittatori in latino che 'n volgare, sene passerà lo sponitore brevemente e seguirà la materia di Tullio per dicere dell'altre parti della diceria e di quelle della pistola, sì come porta l'ordine. Et in questo luogo si parte il conto della salutazione, e dirà dell'exordio in due guise: l'una secondo ciò che nne dice Tullio e che pare che ss'apartegna a diceria, l'altra secondo che ssi conviene ad una lettera dittata et ad una medesima diceria, oltre quello che porta il testo di Tullio.

 

 

Argomento 77

Exordio.

 

Tullio: Et perciò che exordio dee essere principe di tutti, e noi primieramente daremo insegnamenti in fare exordio.

Sponitore: Vogliendo Tullio trattare dell'exordio prima che dell'altre parti della diceria, sì ll'apella principe dell'altre parti tutte; e certo è de ragione: l'una perciò che ssi mette e si dice tuttora davanti a l'autre, l'altra perciò che nel exordio pare che noi aconciamo et apparecchiamo l'animo dell'uditore ad intendere tutto ciò che noi volemo dire di poi.

 

 

Argomento 78

Dell'exordio.

 

Tullio: Exordio è un detto el quale acquista convenevolemente l'animo dell'uditore all'altre parole che sono a dire; la qual cosa averrà se farà l'uditore benivolo, intento e docile. Per la qual cosa chi vorràbene exordire la sua causa, ad lui conviene diligentemente procedere e conoscere davanti la qualitade della causa.

Sponitore: Poi che Tullio avea contate le parti della diceria, sì vuole in questa parte trattare di ciascuna per sé divisatamente, e prima dello exordio, del quale tratta in questo modo: Primieramente dice che è exordio, mostrando che tre cose dovemo noi fare nell'exordio, cioè fare che ll'uditore davanti cui noi dicemo sia inver noi benivolente et intento e docile a cciò che noi volemo dire. Et perciò ne conviene connoscere la qualitade del convenente sopra 'l quale noi dovemo dire o dittare. Nel secondo luogo divide l'exordio in due parti, cioè principio et «insinuatio», e mostrane in qual convenentre noi dovemo usare principio et in quale «insinuatio». Nel terzo luogo ne fa intendere donde noi potemo trarre le ragioni per acquistare benivoglienza et intenzione e docilitade, e come noi dovemo queste tre usare in quello exordio ch'è appellato principio e come in quello ch'è appellato «insinuatio». Nel quarto luogo pone le virtù e' vizi dell'exordio. Et perciò dice che exordio è uno adornamento di parole le quali il parlieri e 'l dittatore propone davanti nel cominciamento del suo dire in maniera di prolago, per lo quale si sforza di dire e di fare sì che l'uditore sia benivolo verso lui, cioè che lli piaccia esso e 'l suo parlamento, e procacciasi di dire e di fare sì che l'uditore sia intento a llui et al suo detto; similemente si studia di dire e di fare sì che ll'uditore sia docile, cioè che prenda et intenda la forza delle parole. Et perciò dico che immantenente che ll'uditore è docile sicché voglia intendere e connoscere la natura del fatto e la forza delle parole, sì è elli intento; ma perché l'uditore sia intento a udire, puote bene essere che non sia docile ad intendere. Et di ciascuno di questi tre dirà il conto quando verrà il suo luogo. Ma perciò che 'l parliere che non conosce dinanzi di che maniera e di chente ingenerazione sia la sua causa non puote bene advenire alle tre cose che sono dette inn adietro, cioè che ll'uditore sia benivolo, intento e docile, sì dicerà Tullio quante e quali sono le generazioni delle cause, in questo modo:

 

 

Argomento 79

Qualitadi delle cause.

 

Tullio: Le qualitadi delle cause sono cinque: onesto, mirabile, vile, dubitoso et oscuro.

Sponitore: In questa picciola parte nomina Tullio le qualitadi delle cause, cioè di quante generazioni sono le dicerie. Et s'alcuno m'aponesse che Tullio dice contra ciò che esso medesimo avea detto in adietro, cioè che le generazioni e le qualitadi sono tre, deliberativo, dimostrativo e iudiciale, et or dice che sono cinque, cioè onesto, mirabile, vile, dubitoso et oscuro, io risponderei che lle primiere tre sono qualitadi substanziali sìe incarnate alla causa che non si possono variare. Onde quella causa ch'è deliberativa non puote essere non deliberativa, e quella ch'è dimostrativa non puote essere non dimostrativa; altressì dico della iudiciale. Ma quella causa ch'è onesta puote bene essere non onesta, e quella ch'è mirabile puote essere non mirabile, e così dico della vile e della dubbiosa e della oscura. Adunque sono queste qualitadi accidentali che possono essere e non essere; ma le prime tre sono substanziali che non si possono mutare.

 

 

Argomento 80

Dell'onesta.

 

Tullio: Onesta qualitade di causa è quella la quale incontanente, sanza nostro exordio, piace all'animo dell'uditore.

Sponitore: Quella causa è onesta sopr'alla quale dicendo parole, immantenente, sanza fare prolago, l'animo dell'uditore si muove a credere et a piacere le parole che 'l parliere dice sopra 'l convenente; et in questo non fa bisogno usare parole per acquistare la benivoglienza dell'uditore, perciò che ll'onestade della causa l'à già acquistata per sua dignitade, sì come nella causa di colui che accusa il furo o che difende il padre o l'orfano o le vedove o le chiese.

 

 

Argomento 81

Mirabile.

 

Tullio: Mirabile è quello dal quale è straniato l'animo di colui che de' audire.

Sponitore: Quella causa è appellata mirabile la quale è di tale convenente che dispiace all'uditore, perciò ch'è di sozza e di crudele operazione. Et perciò l'animo dell'uditore è contra noi et è straniato dalla nostra parte; et in questo abisogna d'acquistare benivolenzia sì che l'uditore intenda, sì come nella causa di colui c'avesse morto il suo padre o fatto furto o incendio. Dunque potemo intendere che una medesima causa puote essere onesta e mirabile: onesta dall'una parte, cioè di colui che difende il suo padre, mirabile dall'altra parte, cioè di colui medesimo che è contra la sua madre propia. E di questo uno exemplo si puote intendere tutti i somiglianti.

 

 

Argomento 82

Del vile.

 

Tullio: Vile è quello del quale non cura l'uditore e non pare che sia da mettere grande opera a intendere.

Sponitore: Quella causa è appellata vile la quale è di picciolo convenente, sì che non pare che ne sia molto da curare e l'uditore non sine travaglia molto ad intendere, sì come la causa d'una gallina o d'altra cosa che sia di poco valere. Et in questa causa dovemo noi procacciare di fare sì che ll'uditore sia intento alle nostre parole.

 

 

Argomento 83

Dubitoso.

 

Tullio: Dubitoso è quello nel quale o la sentenzia è dubia o la causa è in parte onesta et in parte è sozza e disonesta, sicché ingenera benivolenzia e offensione.

Sponitore: Quella causa è appellata dubitosa nella quale l'uditore non è certo a che la cosa debbia pervenire o a che sentenzia alla fine torni, sì come nella causa d'Orestes che dicea ch'avea morta la sua madre giustamente per due ragioni: l'una perciò ch'ella avea morto il suo padre, l'altra perciò che 'l deo Apollo glile comandò. Onde l'uditore non è certo la quale di queste due cagioni cagia in sentenzia. Altressì è dubitosa quella causa nella quale àe parte d'onestade e perciò piace all'uditore, et àe parte di disonestade e perciò dispiace all'uditore, sì come nella causa de filio: d'un furo che fue accusato d'un furto e 'l suo figliuolo si sforzava di difenderlo in tutte guise. Certo la causa era onesta quanto in difender lo padre, ma era disonesta quanto in difendere lo furo.

 

 

Argomento 84

Dell'oscuro.

 

Tullio: Oscuro è quello nel quale l'uditore è tardo, o per aventura la causa è impigliata di convenenti troppo malagevoli a conoscere.

Sponitore: Dice Tullio che quella causa è appellata oscura nella quale l'uditore è tardo, cioè che non intende ciò che portano le parole del dicitore sì bene né sì tosto come si conviene, perciò che non è forse ben savio o forse ch'è fatigato per li detti d'altri parlieri che aveano detto innanzi; o per aventura la causa è impigliata di cose e di ragioni che sono oscure e malagevoli ad intendere.

 

 

Argomento 85

Della divisione dell'exordio.

 

Tullio: Et perciò che lle qualitadi delle cause sono tanto diverse, sì convene che li exordii siano diversi e dispari e non simili in ciascuna qualitade di cause; per la qual cosa exordio si divide in due parti, ciò sono principio et «insinuatio».

Sponitore: Perciò – dice Tullio – che le generazioni e le qualitadi delle cause sono tanto diverse, cioè che sono in cinque modi sì come detto è qui di sopra, e l'uno modo non è accordante all'altro, sì conviene che in ciascuna qualità di cause et in catuno de' detti cinque modi abbia suo modo di fare exordio, tale che ssi convegna alla qualitade sopr'alla quale noi dovemo parlamentare o dittare. Et vogliendo Tullio insegnare ciò apertamente, sì dice che exordio è di due maniere: una ch'è appellata principio et un'altra ch'è appellata «insinuatio»; e di ciascuna dirà elli interamente. E così dovemo e potemo sapere che le cause sopra le quali dice alcuno parlieri o sopra le quali scrive alcuno dittatore sono cinque, cioè sono: onesto, mirabile, vile, dubitoso et oscuro, sì come apare in adietro. Et sopra tutte qualitadi sono due modi de exordio e non più, cioè principio et «insinuatio».

 

 

Argomento 86

Del principio.

 

Tullio: Principio è un detto il quale apertamente et in poche parole fa l'uditore benivolo o docile o intento.

Sponitore: Quella maniera de exordio è appellata principio quando il parlieri o 'l dittatore quasi incontanente alla comincianza del suo dire, sanza molte parole e sanza neuno infingimento ma parlando tutto fuori et apertamente, fa l'animo dell'uditore benvolente a llui et alla sua causa, o talora il fa docile o intento, sì come fece Pompeio parlando a' Romani sopra 'l convenente della guerra con Julio Cesare, che fece tale exordio: «Perciò che noi avemo il diritto dalla nostra parte e combattemo per difendere la nostra ragione e del nostro comune, sì dovemo noi avere sicura speranza che li dii saranno in nostro adiuto».

 

 

Argomento 87

Dell'insinuatio.

 

Tullio: Insinuatio è un detto il quale, con infingimento parlando dintorno, covertamente entra nell'animo dell'uditore.

Sponitore: Tullio dice che quella maniera de exordio è apellata «insinuatio» quando il parlieri o 'l dittatore fa dinanzi un lungo prolago di parole coverte, infingendo di volere ciò che non vuole, o di non volere quello che dee volere, e così va dintorno con molte parole per sorprendere l'animo dell'uditore sì che sia benevolo o docile o intento, sì come disse Sino parlando a coloro che riteneano la sua persona in gravosi tormenti: «Insin a ora v'ò io pregato che mi traeste di tante pene; oimai non dimando se non la morte, ma grandissimi tesauri avrei dato a chi m'avesse scampato». Et in questo modo covertamente s'infingea di non volere quello che volea, per venire in animo di loro che llo scampassero per avere, da che mercé non valea. Et cosìe à divisato il conto che è principio e che è «insinuatio»; omai dicerà quale di questi due modi de exordio dovemo usare in ciascuno de' cinque modi delle cause, cioè nell'onesto, nel vile, nel mirabile, nel dubitoso e nell'oscuro.

 

 

Argomento 88

Della mirabile.

 

Tullio: Nella mirabile generazione di causa, se ll'uditore non fosse al tutto turbato contra noi, ben potemo acquistare benivoglienza per principio. Ma s'ei troppo malamente fosse straniato ver noi, allora ne conviene rifuggire a «insinuatio», in però che volere così isbrigatamente pace e benivoglienza dalle persone adirate non solamente non si truova, ma cresce et infiamasi l'odio.

Sponitore: Inn adietro è bene detto che quella causa è appellata mirabile la quale è di rea operazione, sicché pare che dispiaccia all'uditore. Et perciò dice Tullio che quando la nostra causa è mirabile puote bene essere alcuna fiata che ll'uditore non sia del tutto coruccioso contra noi. Et allora potemo noi acquistare la sua benivolenza per quel modo de exordio ch'è appellato principio, cioè dicendo un breve prologo in parole aperte e poche. Ma se ll'uditore fosse adiroso e curicciato contra noi malamente, certo in quel caso ne conviene ritornare ad altro modo de exordio, cioè «insinuatio», e fare un bel prologo di parole infinte e coverte, sicché noi possiamo mitigare l'animo suo et acquistare la sua benivolenza e ritornare in suo piacere. Ch'al ver dire, quando l'uditore èe adirato e curiccioso, chi volesse acquistare da llui pace così subitamente per poche et aperte parole dicendo il fatto tutto fuori, certo non la troverebbe, ma crescerebbe l'ira et infiamerebbe l'odio; e perciò dee andare dintorno et entrarli sotto covertamente.

 

 

Argomento 89

Della causa vile.

 

Tullio: Nella causa la quale è di vile convenente, per cagione di trarrela di vilanza e di dispetto, ne conviene fare l'uditore intento.

Sponitore: Quando la nostra causa ella è vile, cioè di piccolo convenente sicché l'uditore poco cura d'intendere, allora ne conviene usare principio et in esso fare che ll'uditore sia intento alle nostre parole; e questo potemo ben fare traendola di viltanza e facciendola grande et innalzandola, sì come fece Virgilio volendo trattare de l'api: «Io dicerò cose molto meravigliose e grandi delle picciole api».

 

 

Argomento 90

Della dubbiosa qualità.

 

Tullio: Nella dubbiosa qualità di causa, se lla sentenza è dubbia si conviene incominciare l'exordio dalla sentenzia medesima. Ma se lla causa è in parte onesta e in parte disonesta si conviene acquistare benivolenzia, sicché paia che tutta la causa ritorni in onesta qualitade.

Sponitore: La causa dubitosa, sì come fue detto in adietro, èe in due maniere: l'una che lla sentenzia è dubbia, sì come apare nell'exemplo d'Orestes, che per due ragioni e cagioni dicea ch'avea ben fatto d'uccidere la madre. Et in quel caso dovea elli incuninciare il suo exordio da quella ragione dalla quale elli più ferma nel suo animo di voler provare, e per la quale crede avere la sentenzia inn aiuto. Ma se 'l convenente è dubitoso perciò che sia in parte onesto et in parte disonesto, in quello caso dee il buono parlieri nell'exordio acquistare la benivolenzia dell'uditore per principio, sicché tutta la causa paia che sia onesta.

 

 

Argomento 91

La causa onesta.

 

Tullio: Quando la causa fie onesta, o potemo intralasciare lo principio, o, se ne pare convenevole, comincieremo alla narrazione o dalla legge, o d'alcuna fermissima ragione della nostra diceria. Ma se ne piace usare principio, dovemo usare le parti di benivoglienza per accrescere quella che è.

Sponitore: Quando il conveniente sopra 'l quale ne conviene dire è onesto, certo per la natura del fatto propia avemo noi la benivoglienza dell'uditore sanza altro adornamento di parole. Perciò quando noi venimo a dire noi potemo bene intralasciare lo principio e non fare neuno exordio né prolago di parole, e cominciare la nostra diceria alla narrazione, cioè pur dire lo fatto; e bene potemo cominciare da quella legge che tocca alla nostra materia o da quella ragione che sia più fermo argomento e più certo. Ma se nne piace usare principio e fare alcuno prologo, certo noi lo potemo bene, non per acquistare benivolenza ma per crescere quella che v'è. Et perciò in detto caso il nostro principio dee essere in parole apropiate a benivolenza.

 

 

Argomento 92

Della causa obscura.

 

Tullio: Nella causa la quale è oscura conviene che nel nostro principio noi facciamo che ll'uditore sia docile.

Sponitore: In adietro fue dimostrato qual causa e quando sia oscura. Et perciò dice TULLIO che nella causa la quale sia oscura all'uditore a intendere noi dovemo usare quella parte de exordio la quale è appellata principio, et in quello dovemo noi sì dire che ll'uditore sia docile, cioè ch'elli intenda e ch'elli senta la natura del fatto, in questo modo: che noi diremo in poche parole sommatamente la sustanzia del fatto dell'una parte e dell'altra. Et poi che noi vedremo che ll'uditore sia apparecchiato in via d'intendere il fatto, noi andremo innanzi a dire la nostra ragione sì come si conviene al fatto.

 

 

Argomento 93

Le ragioni delle cose.

 

Tullio: Et perciò che infin ad ora noi avemo detto che ssi conviene fare nell'exordio, oimai rimane a dimostrare per quali ragioni ciascuna cosa si possa fare.

Sponitore: Infino a questo luogo à insegnato TULLIO tutto ciò che ssi conviene dire o fare nello exordio; e perciò ch'elli àe detto in quale exordio ed in qual causa ne conviene usare parole per acquistare benivolenza, sì vuole elli da qui innanzi mostrare le ragioni come si puote ciò fare; e questo insegnamento fa bene di sapere.

 

 

Argomento 94

De' quattro luoghi della temperanza.

 

Tullio: Benivolenza s'acquista di quatro luogora: dalla nostra persona, da quella de' nostri adversarii, da quella delli giudici e dalla causa.

Sponitore: In questa parte insegna TULLIO acquistare benivolenza, e perciò ch'ella non si puote avere se non per quello che ss'apartiene alle persone et al fatto, sì dice che quattro luogora sono dalle quali muove benivolenza. Il primo luogo si è la nostra persona e di coloro per cui noi dicemo. Il secondo luogo si è la persona de' nostri adversarii e di coloro contra cui noi dicemo. Il terzo luogo si è la persona de' giudici, cioè la persona di coloro davanti da cui noi dicemo. Il quarto luogo si è la causa e 'l fatto e 'l convenente sopra 'l quale noi dicemo. E di ciascuno di questi dicerà il conto ordinatamente e sofficientemente.

 

 

Argomento 95

TULLIO sopra lo prolago.

 

Tullio: Dalla nostra persona se noi dicemo sanza superbia de' nostri fatti e de' nostri officii; e se noi ne leviamo le colpe che nne sono apposte e le disoneste sospeccioni; e se noi contiamo i mali che nne sono advenuti et li 'ncrescimenti che nne sono presenti; e se noi usiamo preghiera o scongiuramento umile et inclino.

Sponitore: Conquistare benivolenza dalla nostra persona si è dicere della persona nostra, o di coloro per cui noi dicemo, quelle pertenenze per le quali l'uditore sia benivolo verso noi. Et sappie che certe cose s'apartengono alle persone e certe alla causa; e di queste pertinenze tratterà il conto sofficientemente, e fie molto bella et utile materia ad imprendere. Et qui pone TULLIO quattro modi d'acquistare benivolenza dalla nostra persona. Il primo modo si è se noi dicemo sanza soperbia, dolcemente e cortesemente, de' nostri fatti e de' nostri officii. Et intendi che dice «fatti» quelli che noi facemo non per distretta di legge o per forza, ma per movimento di natura. Et così dicendo Dido d'Eneas acquistò la benivolenza degli uditori: «Io» dice ella, «accolsi e ricevetti in sicura magione colui ch'era cacciato in periglio di mare, et quasi anzi ch'io udisse il nome suo li diedi il mio reame». Et così dice che ella si mosse a pietade sopra Eneas quando elli fugìa dalla distruzione di Troia. Et al ver dire noi avemo merzé e pietade delle strane genti per natura, non per distretta. Ma offici sono quelle cose le quali noi facemo per distretta, non per movimento di natura. Onde dice TULLIO che dell'uno e dell'altro dovemo dire temperatamente sanza superbia. Il secondo modo si è se noi ne leviamo da dosso a noi et a' nostri le colpe e le disoneste sospeccioni che cci sono messe et apposte sopra; et intendi che colpe sono appellati que' peccati che sono apposti altrui apertamente davanti al viso, sì come fue apposto a Boezio ch'elli avea composte lettere del tradimento dello 'mperadore. Il quale peccato removeo elli per una pertenenza di sua persona, cioè per sapienza, dicendo così: «Delle lettere composte falsamente che convien dire? la froda delle quali sarebbe manifestamente paruta se noi fossimo essuti alla confessione dell'accusatore». Le disoneste sospeccioni sono le colpe ch'altre pensa in contra ad un altro, ma no-lle pone davante al viso, sì come molti pensavano che Boezio adorasse i domoni per desiderio d'avere le dignitadi; e questa sospeccione si levò elli parlando alla Filosofia, che disse: «Mentiro che pensaro ch'io sozzasse la mia coscienza per sacrilegio (o per parlamento de' mali spiriti). Ma tu, Filosofia, commessa in me cacciavi del mio animo ogne desiderio delle mortali cose». Et così parve che volesse dire: «Poi che in me avea sapienzia, non era da credere che in me fosse così laido fallimento». Tutto altressì Elena, vogliendosi levare la sospeccione che 'l suo marito avea di lei, disse: «Elli che ssi fida in me della vita, dubita per la mia biltade; ma cui assicura prodezza non dovrebbe impaurire l'altrui bellezza». Il terzo modo è se noi contiamo i mali che sono advenuti e li 'ncrescimenti che sono presenti. Così Boezio, contando ciò ch'avenuto era, acquistò la benivolenza dell'uditore dicendo: «Per guidardone della verace vertude soffero pene di falso incolpamento». Et Dido, dicendo i suoi mali dopo il dipartimento d'Eneas, acquistò la benivolenza per la sua misaventura, e disse: «Io sono cacciata et abandono il mio paese e lla casa del mio marito e vo fuggendo per gravosi cammini in caccia de' nemici». Altressì Julio Cesare, vedendosi in perillio di guerra, contò i mali c'a llui poteano advenire, per confortare i suoi a battaglia, e disse: «Ponete mente alle pene di Cesare, guardate le catene e pensate che questa testa è presta a' ferri e' membri a spezzamento». Il quarto modo è se noi usiamo preghiera o scongiuramento umile et inclino, cioè devotamente e con reverenza chiamare merzede con grande umilitade. Et intendi che preghiera è appellata sanza congiuramento. Verbigrazia: Pompeio, vegiendosi alla pugna della mortal guerra di Cesare, confortando i suoi di battaglia disse: «Io vi priego de' miei ultimi fatti e delli anni della mia fine, perché non mi convenga essere servo in vecchiezza, il quale sono usato di segnoreggiare in giovane etade». Et queste preghiere talfiata sono aperte, sì come quelle di Pompeio, talfiata sono ascose, sì come quelle di Dido in queste parole ch'ella mandò ad Eneas: «Io» disse ella «non dico queste parole perch'io ti creda potere muovere; ma poi ch'io ao perduto il buon pregio e la castitade del corpo e dell'animo, non è gran cosa a perdere le parole e le cose vili». Ma scongiuramento è quando noi preghiamo alcuna persona per Dio o per anima o per avere o per parenti o per altro modo di scongiurare, sì come Dido fece ad Eneas: «Io ti priego» disse ella «per tuo padre, per le lance e per le saette de' tuoi fratelli e per li compagnoni che teco fuggiro, per li dei e per l'altezza di Troia» etc. Or à detto il conto del primo luogo donde muove la benivolenza, cioè della nostra persona e di coloro che sono a noi; omai dirà il secondo luogo, cioè della persona delli adversarii e di coloro contra cui noi dicemo.

 

 

Argomento 96

Sopra il secondo prolago.

 

Tullio: Dalla persona delli aversarii se noi li mettemo inn odio o invidia o in dispetto.

Sponitore: Acquistare benivolenza dalla persona de' nostri adversarii si è dire delle loro persone quelle pertenenze per le quali l'uditore sia a noi benivolo et contra l'aversario malivolo; et a cciò fare pone Tulio tre modi: Il primo modo è dicere le pertenenze delle loro persone per le quali siano inn odio dell'uditori; il secondo che siano in loro invidia; il terzo che siano in loro dispetto; e di ciascuno di questi tre modi dirà il testo bene et interamente.

 

 

Argomento 97

 

Tullio: Inn odio saranno messi dicendo com'ellino anno fatta alcuna cosa isnaturatamente o superbiamente o crudelmente o malizio­samente.

Sponitore: Noi potemo i nostri adversarii mettere inn odio dell'uditore se noi dicemo ch'elli anno alcuna cosa fatta isnaturalmente, contra l'ordine di natura, sì come mangiare carne umana et altre simili cose delle quali lo SPONITORE si tace presentemente. O se noi dicemo ch'elli abian fatto superbiamente, cioè non temendo né curando de' signori né de' maggiori, avendoli per neente. O se noi dicemo ch'elli abbiano fatto crudelmente, cioè non avendo pietà né misericordia de' suoi minori né di persone povere, inferme o misere. O se noi dicemo ch'elli abbiano fatto maliziosamente, cioè cosa falsa e rea, disleale, disusata e contra buono uso. Et di tutto questo avemo exemplo nelle parole che Boezio dice contra Nero imperadore: «Ben sapemo quante ruine fece ardendo Roma, tagliando i parenti et uccidendo il fratello e sparando la madre». Altressì fue malizioso fatto il qual racconta Eurifiles di Medea, che stava scapigliata tra ' monimenti e ricogliea ossa di morti. Omai à detto lo SPONITORE sopra 'l testo di TULLIO come noi potemo mettere il nostro adversario in odio et in malavoglienza dell'uditore. Da quinci innanzi dicerà come noi li potemo mettere in loro invidia.

 

 

Argomento 98

 

Tullio: In invidia dicendo la loro forza, la potenza, le ricchezze, il parentado e le pecunie, e la loro fiera maniera da non sofferire, e come più si confidano in queste cose che nella loro causa.

Sponitore: Noi potemo conducere i nostri adversarii in invidia et in disdegno dell'uditore se noi contiamo la forza del corpo e dell'animo loro ad arme e senza arme, et la potenza, cioè le dignitadi e le signorie, e le ricchezze, cioè servi, ancille e posessioni, e 'l parentado, cioè schiatta, lignaggio e parenti e seguito di genti, e le pecunie, cioè denari, auro et argento, in cotal modo che noi diremo come ' nostri adversarii usano queste cose malamente et increscevolemente con male e con superbia, tanto che sofferire non si puote. Così disse Salustio a' Romani: «Ben dico che Catellina è estratto d'alto lignaggio et à grande forza di cuore e di corpo, ma tutto suo podere usa in tradimenti e distruzioni di terre e di genti». Così disse Catellina contra Romani: «Appo loro sono li onori e le potenzie, ma a nnoi anno lasciati i pericoli e le povertadi». Et ora è detto della invidia contra i nostri adversarii; sì dicerà il conto come noi li potemo mettere in dispetto.

 

 

Argomento 99

 

Tullio: In dispetto degli uditori saranno messi dicendo che siano sanza arte, neghettosi, lenti, e che studiano in cose disusate e sono oziosi in luxuria.

Sponitore: Noi potemo mettere i nostri adversarii in dispetto degli uditori, cioè farli tenere a vile et a neente, se noi diremo che sono uomini nescii sanza arte e sanza senno, da neuno uopo e da neuna cosa; o che sono neghettosi, che tuttora si stanno e dormono e non si muovono se non come per sonno; o diremo che sono lenti e tardi a tutte cose; o diremo che studiano in cose che non sono da neuno uso né d'alcuna utilitade; o diremo che sono oziosi in luxuria dando forza et opera in troppo mangiare, inn ebriare, in meretrici, in giuoco et in taverne. Et ora à detto il conto come noi potemo acquistare la benivolienza dell'uditore dalla persona de' nostri adversarii mettendoli inn odio et in invidia et in dispetto, et à insegnato come si puote ciò fare. Omai tornerà alla materia per dire come s'acquista benivolenzia dalla persona dell'uditore, e questo è il terzo luogo.

 

 

Argomento 100

La benivolenza dell'uditore.

 

Tullio: Dalla persona dell'uditori s'acquista benivolenza dicendo che tutte cose sono usati di fare fortemente e saviamente e mansuetamente, e dicendo quanto sia di coloro onesta credenza e quanto sia attesa la sentenza e l'autoritade loro.

Sponitore: Noi potemo acquistare la benivolenza delli uditori dicendo le buone pertenenze delle loro persone e lodando le loro opere per fortezza e per franchezza e per prodezza, per senno e per mansuetudine, cioè per misurata umilitade, e dicendo come la gente crede di loro tutto bene et onestade, e come la gente aspetta la loro sentenza sopra questo fatto, credendo fermamente che fie sì giusta e di tanta autoritade che in perpetuo si debbia così oservare nei simili convenenti. Di forte fatto Tulio lodò Cesare dicendo: «Tu ài domate le genti barbare e vinte molte terre e sottoposti ricchi paesi per tua fortezza». Di senno il lodò e' medesimo parlando di Marco Marcello: «Tu nell'ira, la quale è molto nemica di consellio, ti ritenesti a consellio». Di mansueto fatto il lodò Tulio dicendo: «Tu nella vittoria, la quale naturalmente adduce superbia, ritenesti mansuetudine». D'onesta credenza il lodò TULLIO in questo modo: Cesare volle alcuna fiata male a TULLIO, ma tutta volta lo ritenne in sua corte; e non pertanto TULLIO era sì turbato in sé medesimo che non potea intendere a rettorica sì come solea, insin a tanto che Cesare non li rendeo sua grazia. Et in ciò disse TULLIO: «Tu ài renduto a me et alla mia primiera vita l'usanza che tolta m'era, ma in tutto ciò m'avevi lasciata alcuna insegna per bene sperare»; e questo dicea perché l'avea ritenuto in corte, sicché tuttora avea buona credenza. D'attendere la sua buona sentenza lodò TULLIO Cesare parlando di Marco Marcello: «La sentenza ch'è ora attesa da te sopra questo convenente non tocca pure ad una cosa, ma à ad convenire a tutte le somiglianti, perciò che quello che voi giudicarete di lui atterranno tutti li altri per loro». Or è detto come s'acquista benivolenzia dalle persone delli uditori; sì dirà TULLIO com'ella s'acquista dalle cose.

 

 

Argomento 101

La benivolenza delle cose.

 

Tullio: Da esse cose se noi per lode innalzeremo la nostra causa, per dispetto abasseremo quella delli adversarii.

Sponitore: Noi potemo avere la benivolenza dell'uditori da esse cose, cioè da quelle sopra le quali sono le dicerie, dicendo le pertenenze di quelle cose in loda della nostra parte et in dispetto et in abassamento dell'altra; sì come disse Pompeio confortando la sua gente alla guerra di Cesare: «La nostra causa piena di diritto e di giustizia, perciò ch'ella è migliore che quella de' nemici, ne dà ferma speranza d'avere Dio in nostro adiuto». Et omai à divisato il conto le quattro luogora delle quali si coglie et acquista la benivoglienza, molto apertamente et a compimento; sì ritornerà a dire come noi potemo fare l'uditore intento.

 

 

Argomento 102

Di fare l'uditore intento.

 

Tullio: Intenti li faremo dimostrando che in ciò che noi diremo siano cose grandi o nuove o non credevoli, o che quelle cose toccano a tutti o a coloro che ll'odono o ad alquanti uomini illustri, ai dei immor­tali, a grandissimo stato del comune, o se noi profferremo di contare brevemente la nostra causa, o se noi proporremo la giudicazione, o le giudicazioni se sono piusori.

Sponitore: Avendo TULLIO dato intero insegnamento d'acqui­stare la benivolenza di quelle persone davante cui noi proponemo le nostre parole, sì che l'animo s'adirizzi et invii in piacere di noi e della nostra causa e che siano contrarii e malevoglienti a' nostri adversarii, sì vuole TULLIO medesimo in questa parte del suo testo insegnare come noi potemo del nostro exordio, cioè nel prologo e nel cominciamento del nostro dire, fare intenti coloro che noi odono, sì che vogliano achetare i loro animi e stare a udire la nostra diceria; e di questo potemo noi fare in molti modi de' quali sono specificati nel testo dinanti, et in altri simili casi. Et posso ben dire manifestamente che ciascuna persona sarà intenta e starà ad intendere se io nel mio cominciamento dico ch'io voglia trattare di cose grandi e d'alta materia, sì come fece il buono autore recitando la storia d'Alexandro, che disse nel suo cominciamento: «Io diviserò e conterò così alto convenente come di colui che conquistò il mondo tutto e miselo in sua signoria». Altressì fie inteso s'io dico ch'io voglia trattare di cose nuove e contare novelle e dire ch'è avenuto o puote advenire per le novitadi che fatte sono, sì come disse Catellina: «Poi che lla forza del comune è divenuta alle mani della minuta gente et in podere del populo grasso, noi nobili, noi potenti a cui si convengono li onori, siemo divenuti vile populo sanza onore e sanza grazia e sanza autoritade». Altressì fie intento s'io dico ch'io voglia trattare di cose non credevoli, sì come 'l santo che disse: «Il mio dire sarà della benedetta donna la quale ingenerò e parturio figliuolo essendo tuttavolta intera vergine davanti e poi»; la quale è cosa non credevole, perciò che pare essere contra natura. Et sì come diceano i Greci: «Non era cosa da credere che Paris avesse tanto folle ardimento che venisse 'n essa terra a rapire Elena». Altressì fie intento s'io dico che 'l convenente sopra 'l quale dee essere il mio parlamento a tutti tocca od a coloro che ll'odono, sì come disse Cato parlando della congiurazione di Catellina: «Congiurato ànno i nobilissimi cittadini incendere e distruggere la patria nostra, e 'l lor capitano ne sta sopra capo. Adunque dovete compensare che voi dovete sentenziare de' crudelissimi cittadini che sono presi dentro nella cittade». Altressì fie intento s'io dico che lla mia diceria tocca ad alquanti uomini illustri, cioè uomini di grande pregio e d'alta nominanza intra lle genti sì come disse Pompeio parlando della battaglia civile: «Sappiate che l'arme de' nemici sono appostate per abbattere l'alto e glorioso sanato». Altressì fie inteso s'io dico che lle mie parole toccano a' dei, sì come fue detto di Catellina poi ch'elli ebbe conceputo di fare cotanta iniquità: «Ma elli gridava ch'appena i dei di sopra potrebbero omai trarre il populo delle sue mani». Altressì fie intento s'io dico nel principio di dire la mia causa brevemente et in poche parole, sì come disse il poeta per contare la storia di Troia: «Io dirò la somma, come Elena fue rapita per solo inganno e come Troia per solo inganno fue presa et abattuta». Altressì fie intento s'io nel mio exordio propongo la giudicazione una o più, cioè quella sopra che io voglio fondare il mio dire e fermerò la mia provanza, sì come fece Orestes dicendo: «Io proverò che giustamente uccisi la mia madre, imperciò che dio Apollo il mi à comandato, perciò che uccise il mio padre». Et di tutti modi per fare l'uditore intento potemo noi colliere exempli in queste parole che disse TULLIO a Cesare parlando per Marco Marcello: «Tanta mansuetudine e così inaudita e non usata pietade e così incredebile e quasi divina sapienzia in nessuno modo mi posso io tacere né sofferire ch'io non dica». Et poi che TULLIO à pienamente insegnato come per le nostre parole noi potemo fare intento l'uditore, sì dirà come noi il potemo fare docile.

 

 

Argomento 103

Come l'uditore sia docile.

 

Tullio: Docili faremo li uditori se noi proporremo apertamente e brevemente la somma della causa, cioè in che sia la contraversia. E certo quando tu il vuoli fare docile conviene che tu insieme lo facci attento, in però che quelli è di grande guisa docile il quale è intentissimamente apparecchiato d'udire.

Sponitore: Quelle persone davanti cui io debbo parlare posso io fare docili, cioè intenditori, da tal fatto: se io nel mio exordio, alla 'ncuminciata della mia aringhiera, tocco un poco del fatto sopra 'l quale io dicerò, cioè brevemente et apertamente dicendo la somma della causa, cioè quel punto nel quale è la forza della contenzione e della controversia. Così fece Salustio docile Tulio dicendo: «Con ciò sia cosa ch'io in te non truovi modo né misura, brevemente risponderò, che se tu ài presa alcuna volontade in mal dire, che tu la perda in mal udire». Questo et altri molti exempli potrei io mettere per fare l'uditore docile, sì come buono intenditore puote vedere e sapere in ciò ch'è detto davanti. Et perciò che 'l conto à trattato inn adietro di due maniere exordii, cioè di principio e d'insinuazione, et àe divisato ciò che ssi conviene fare e dire nel principio per fare l'uditore benivolo, docile et intento, sì dirà lo 'nsegnamento della insinuazione in questo modo:

 

 

Argomento 104

Lo 'nsegnamento della Insinuazione.

 

Tullio: Oramai pare che sia a dire come si conviene trattare le insinuazioni. Insinuatio è da usare quando la qualitade della causa è mirabile, cioè, sì come detto avemo inn adietro, quando l'animo dell'uditore è contrario a noi; e questo adiviene maximamente per tre cagioni: o che nella causa è alcuna ladiezza, o coloro c'ànno detto davanti pare c'abbiano alcuna cosa fatta credere all'uditore, o se in quel tempo si dà luogo alle parole, perciò che quelli cui conviene udire sono già udendo fatigati; acciò che di questa una cosa, non meno che per le due primiere, sovente s'offende l'animo dell'uditore.

Sponitore: In adietro è detto sofficientemente come noi potemo acquistare la benivolenza dell'uditore e farlo docile et intento in quella maniera de exordio la quale è appellata principio. Oramai è convenevole d'insegnare queste medesime cose nell'autra maniera de exordio la quale è appellata «insinuatio». Et ben è detto qua indietro che «insinuatio» è uno modo di dicere parole coverte e infinte in luogo di prologo. Et perciò dice TULLIO che questo tal prologo indaurato dovemo noi usare quando la nostra causa è laida e disonesta inn alcuna guisa, la qual causa è appellata mirabile, sì come pare in adietro là dove fue detto che sono cinque qualità di cause, cioè onesta, mirabile, vile, dubiosa et oscura. E buonamente nelle quattro ne potemo noi passare per principio; ma in questa una, cioè mirabile, ne conviene usare insinuazione per sotrarre l'animo dell'uditore e tornare in piacere di lui ed in grazia quel che pare essere in suo odio. Adunque ne conviene vedere in quanti e quali casi la nostra causa puote essere mirabile, e poi vedere come noi potemo contraparare a ciascuno; e sono tre casi. Primo caso si è quando sie nella causa alcuna ladiezza per cagione di mala persona o di mala cosa; ché al vero dire molto si turba l'animo dell'uditore contra il reo uomo e per una malvagia cosa. Il secondo caso è quando il parlieri ch'à detto davanti à sìe et in tal guisa proposta la sua causa, ch'è intrata nell'animo dell'uditore e pare già che lla creda sì come cosa vera; per la quale cosa l'uditore, poi che comincia a credere alle parole che ll'una parte propone et extima che lla sua causa sia vera, apena si puote riducere a credere la causa dell'altra parte, anzi sine strana et allunga. Il terzo caso è d'altra maniera: che sovente aviene che quelle persone davanti cui noi dovemo proporre la nostra causa e dire i nostri convenenti ànno lungamente udito e stati a intendere altri c'ànno detto assai e molto, prima di noi, donde l'animo dell'uditore è fatigato sì che non vuole né agrada lui d'intendere le nostre parole; e questa è una cagione che offende l'animo dell'uditore non meno che ll'altre due. Et perciò conviene a buon parliere mettere rimedi di parole incontra ciascuno caso contrario, secondo lo 'nsegnamento di Tulio.

 

 

Argomento 105

Della laidezza della causa.

 

Tullio: Se la laidezza della causa mette l'offensione, conviene mettere per colui da cui nasce l'offensione un altro uomo che sia amato, o per la cosa nella quale s'offende un'altra cosa che sia provata, o per la cosa uomo o per l'uomo cosa, sicché l'animo dell'uditore si ritragga da quello che 'nnodia in quello ch'elli ama; et infingerti di non difendere quello che pensano che tu voglie difendere, e così, poi che ll'uditore fie più allenito, entrare in difendere a poco a poco e dicere che quelle cose, le quali indegnano l'aversarii, a noi medesimi paiono non degne. Et poi che tu avrai allenito colui che ode, dei dimostrare che quelle cose non pertiene a tte neente, e negare che tu non dirai alcuna cosa dell'aversarii, né questo né quello, sì ch'apertamente tu non danneggi coloro che sono amati, ma oscuramente facciendolo allunghi quanto puoi da lloro la volontade dell'uditore; e proferere la sentenzia d'altri in somiglianti cose, o altoritade che sia degna d'essere seguita; et apresso dimostrare che presentemente si tratta simile cosa, o maggiore o minore.

Sponitore: In questa parte dice TULLIO che, se ll'uditore è turbato contra noi per cagione della causa nostra che sia o che paia laida per cagione di mala persona o di mala cosa, allora dovemo noi usare insinuazione nelle nostre parole in tal maniera, che in luogo della persona contra cui pare corucciato l'animo dell'uditore noi dovemo recare un'altra persona amata e piacevole all'uditore, sì che per cagione e per coverta della persona amata e buona noi appaghiamo l'animo dell'uditore e ritraiallo del coruccio ch'avea contra la persona che lui semblava rea; sì come fece Aiax nella causa della tencione che fue intra lui et Ulixes per l'arme ch'erano state d'Acchilles. Et tutto fosse Aiax un valente uomo dell'arme, non era molto amato dalla gente né tenuto di buona maniera. Ma Ulixes, per lo grande senno che in lui regnava, era molto amato. Onde Aiax, volendosi contraparare, nel suo dicere ricordò com'elli era nato di Telamone, il quale altra fiata prese Troia al tempo del forte Hercole; e così mettea la persona avanti amata e graziosa in luogo di sé et in suo aiuto, per piacerne alla gente e per avere buona causa. Et quando la causa è laida per cagione di mala cosa, sì dovemo noi recare nel nostro parlamento un'altra cosa buona e piacevole; sì come fece Catellina scusandosi della congiurazione che facea in Roma, che mise una giusta cosa per coprire quella rea, dicendo: «Elli è stata mia usanza di prendere ad atare li miseri nelle loro cause».